domenica 24 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






 
Giorgia Greco
Libri & Recensioni
<< torna all'indice della rubrica
Lizze Doron Perché non sei venuta prima della guerra ? 25/02/2008

Perchè non sei venuta prima della guerra?                Lizze Doron

 

Traduzione di Shulim Vogelman

 

Giuntina                                                                      Euro 12

 

 

Lamah lo bat lifne hamilchamah?

 

Perché non sei venuta prima della guerra? E’ il titolo insolito per un libro assolutamente nuovo e originale sulla Shoah.

 

L’autrice, Lizze Doron, nata a Tel Aviv nel 1953 affronta il tema dell’Olocausto senza mai parlarne espressamente: lo sterminio dei sei milioni di ebrei pervade il libro ed affiora con una prosa scarna ma efficacissima attraverso le sofferenze, mai sopite, della protagonista Helena.

 

Questo piccolo gioiello letterario non è un romanzo, non è un saggio e nemmeno un libro di racconti, ma un amalgama riuscito di tutti questi elementi insieme, resi in una lingua immediata ed affascinante capace di catturare il lettore fin dalle prime pagine.

 

Helena, che è anche il nome della madre dell’autrice, unica sopravvissuta della sua famiglia allo sterminio nazista, vive in Israele insieme alla figlia Elisabeth in un appartamento composto da “due camere da letto e due porte d’ingresso poste una dopo l’altra”, in una casa a due piani all’angolo fra via della Vittoria e via dell’Eroismo.

 

Per Helena come per molti immigrati non è facile adattarsi alla vita nel mondo “di qua” e ogni due settimane in casa sua si ritrovano per un caffè alcune donne, Itta, Djusia, Fanny e Guta, provenienti dal mondo “di là”: donne che hanno sofferto a causa della Shoah e condividono un mondo di dolore e patimenti.

 

Nel giorno di Yom Kippur Helena va in sinagoga soltanto quando si recita l’Yizkòr . Dinanzi all’Aròn Hakodesh, indifferente allo sconcerto degli uomini coperti dal tallèt, Helena si rivolge a quel Dio nel quale non crede più pronunciando parole infuocate: “Nel nome di questo luogo e nel nome di queste persone, io, Helena, rappresentante di una famiglia che è stata sterminata, sono venuta davanti a Te a tenere fede a un voto che ho fatto, a tenere fede a un ruolo che non ho scelto per me. Io sono qui al posto loro; se fossero qui, starebbero loro davanti all’Aron Hakodesh e allora io sarei al mio posto….”

 

Quando Elisabeth, la figlia, deve portare a scuola dei disegni per il nuovo maestro d’arte, Viterbo, la madre vedendo la figlia in difficoltà si offre di fare lei stessa i disegni. Ma con l’andar del tempo il maestro, anch’egli un sopravvissuto, capirà che quei disegni dolorosissimi provengono dalla mano di una donna uscita da un campo di sterminio.

 

E con profonda commozione chiederà ad Elisabeth di conservare l’ultimo nel quale Helena aveva dipinto “il filo spinato, le torrette di guardia e un uccello senza ali che cercava di volare dallo spazio innevato verso il cielo grigio, sul quale era scritto in tutte le lingue LIBERTA’”

 

Indomita e coraggiosa la protagonista del libro rifiuterà con caparbia i risarcimenti provenienti dalla Germania arrivando a gettare dalla finestra i doni ricevuti da Elisabeth  per il Bat Mitzvà con la scritta “made in Germany” , a chiudere la porta in faccia allo zio Oded dopo il suo matrimonio con una tedesca figlia di un ufficiale delle SS e a insistere con la figlia di tenere sempre i capelli biondi perché “i biondi non li uccidono”.

 

Della sua esperienza nel campo di sterminio Helena non racconterà mai nulla alla figlia e alla sua morte Elisabeth, recuperando una piccola chiave arrugginita, aprirà un armadio al quale, da bambina, non aveva mai potuto accedere (“Conoscevo soltanto il rumore della chiave, ma non il contenuto”), scoprendo, fra i documenti di una vita passata, il luogo di nascita della madre e l’esistenza di “dolorose reliquie”, testimoni di quell’inferno che si era tenuta dentro per tutta la vita e che aveva nascosto persino a sua figlia: “in un sacchetto …c’era una benda, un pezzettino di sapone e dei buoni pasto per militari tedeschi sui quali era stampato il simbolo delle SS e il nome del luogo, Buchenwald…..” e all’interno di una valigia “una divisa a righe che aveva più buchi che tessuto, una stella gialla, un paio di zoccoli, e odore di morte”.

 

Lizze Doron ci regala un libro di intensa introspezione, una storia che parla di vulnerabilità e di sofferenza, che affronta il tema della Shoah in maniera originale ma efficace, che emoziona e fa riflettere sul Male assoluto e sul dovere della memoria.

 

Grazie anche all’ottima traduzione di Shulim Vogelman, il lettore rimane catturato dall’efficacia e dall’equilibrio espressivo della scrittura e dello stile e da una prosa di qualità, un libro che ci fa sentire più ricchi dopo averlo letto.

 

 

Giorgia Greco


Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT