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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Abraham B. Yehoshua Fuoco amico 22/02/2008

Fuoco amico  Abraham B. Yehoshua


All'inizio dell'ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua,
Fuoco amico, i coniugi Yaari — Amotz e Daniela — si separano all'aeroporto di Tel Aviv. Sono, entrambi, attorno ai sessant'anni — lei pochi di meno, lui pochi di più — e si amano moltissimo. Perché, allora, per la prima volta in una vita nella quale hanno condiviso tutto, non salgono sul medesimo aereo? Perché Daniela Yaari — che va in Tanzania a incontrare l'anziano cognato Yirmiyahu, rimasto in Africa al seguito di una missione archeologica dopo la morte del figlio Eyal, ucciso per errore dal fuoco amico dei suoi commilitoni nei Territori Occupati, e dopo la morte della moglie Shuli per infarto (Shuli era la sorella di Daniela) — vuole stare da sola. Vuole affrontare da sola la barriera che sente nel cuore, rappresentata da quel vuoto allucinante e ottuso che a tratti ci accade di scorgere in noi stessi, quando il lutto e il dolore sprofondano, o minacciano di sprofondare nell'oblio; e, insieme, sa che unicamente da sola, senza la presenza assillante e premurosa (e magari, per gli altri, irritante) di suo marito, avrà una qualche possibilità di smuovere il cognato dalla sua apatia, dalla volontà di cancellare ogni memoria, ogni affetto, insomma dalla freddezza mortale nei confronti della vita, nella quale, ostentando una sicurezza altrettanto irritante per il suo prossimo, si sta crogiolando: lontano moltissimi chilometri dal luogo del suo, e di ogni dolore, e cioè da Israele. Quindi, accompagnata da numerose raccomandazioni, s'imbarca sull'aereo per Nairobi. Di lì, un altro piccolo aereo la condurrà in Tanzania, nella riserva di Ngorongoro, dove un gruppo di archeologi africani cerca prove sul fatto che milioni di secoli prima — un arco di tempo che dovrebbe cancellare ogni ansia quotidiana, ogni minuta prospettiva del dolore, ogni senso delle nostre sofferte quanto effimere vicende — l'uomo è nato proprio lì. Sarà assente per una settimana.
In Israele, sono i giorni della festa di Hanukkah, la festa delle candele. Amotz rimane ad accenderle (a casa sua, nelle varie case in cui vivono i turbolenti rappresentanti della sua famiglia, compreso un padre vecchissimo, malato di Parkinson) e a preoccuparsi per tutti: per la moglie che è in viaggio; per il padre malato e capriccioso; per il figlio che è sposato con la bella Efrat (che forse lo tradisce) e che non ha risposto alla cartolina militare finendo agli arresti; per i nipotini; infine per i venti che corrono nel vano di un ascensore di un grattacielo da poco costruito, creando echi, ululati insostenibili per i suoi scorbutici inquilini. Perché se ne preoccupa? Perché lui, ingegnere, ha ereditato dal padre uno studio in cui si progettano ascensori. Dunque, è possibile che sua sia la responsabilità di quei suoni primordiali che tolgono la pace e il sonno. Tuttavia, che Amotz fosse un uomo destinato ad accogliere su di sé ogni colpa del mondo, questo noi lo avevamo capito fin dalle prime, febbrili righe del romanzo, nel buio che precedeva l'alba all'aeroporto. Parecchio più importante è sottolineare come l'invenzione «scenica» di Yehoshua sia efficacissima. Infatti, due personaggi, marito e moglie, si amano, lo abbiamo detto. Amano e soffrono. Amano e sono in ansia. Senonché, le loro vicende, che sono vicende assai comuni, adesso le leggiamo non soltanto sullo sfondo sempre assai significativo di Israele, bensì nel rimbombo di codesti due abissi primordiali: l'Africa della nascita umana, il vano buio e pauroso di un ascensore.
Il romanzo, al quale una sforbiciata di una cinquantina di pagine avrebbe giovato ulteriormente, è notevole. Costruito sull'alternarsi di un capitolo «africano» e un capitolo «israeliano», non ha dei momenti salienti ed è, invece, tutto giocato sulla accumulazione. Da una parte, in Tanzania, della volontà caparbia di Daniela di risvegliare il dolore per la sorella- moglie perduta e il figlio-nipote ucciso dal fuoco amico, al quale fa da contrasto una volontà altrettanto caparbia di non aprirsi al dolore, di farla finita con Israele e le sue sofferenze, la sua precarietà, per sempre. Dall'altra, in Israele, del maelstrom famigliare: la famiglia, con ogni possibile sua imperfezione e pena, fonte perenne di soddisfazione e timore, gioia e allarme. Alla fine, dopo circa quattrocento pagine, marito e moglie si ritrovano all'aeroporto di Tel Aviv. Sono, entrambi, sopraffatti. Daniela ha lasciato l'Africa da sconfitta, pur essendo riuscita ad avere ogni spiegazione dal cognato, perché non è riuscita a portarselo via. Amotz è letteralmente schiacciato dalla famiglia Yaari. Adesso, marito e moglie sessantenni se ne vanno a casa. Tutti e due pensano al fatto che faranno l'amore. E però, questo pensiero, che è il pensiero fondamentale — il centro di tutto il libro — con il quale si erano salutati una settimana prima, ha al fondo di se stesso un'ombra che li sconcerta. È come se i due abissi (l'Africa, il vano dell'ascensore) nei quali per sette giorni hanno calato le loro singole esistenze, adesso ne svelassero un altro: che li riguarda. E loro vogliono combattere. Come faranno, con la forza dell'amore.
Hanukkah, o Festa delle luci, celebra la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme nel 161 a.C. (Corbis)
Giorgio Montefoschi

dal Corriere della Sera del 22 febbraio 2008,  Yehoshua, la trincea della famiglia

GERUSALEMME — A Tel Aviv, la città raccontata nel romanzo Fuoco amico, Abraham Yehoshua viene nei fine settimana per stare vicino ai nipotini. Qualche volta per incontrare gli intellettuali e gli scrittori con i quali firma appelli rivolti al governo di Ehud Olmert. Non può rinunciare alla politica, come dimostra l'intervista pubblicata una settimana fa dal quotidiano
Haaretz, nata per parlare d'altro e finita a ribadire lo Yehoshua-pensiero sul destino di Israele. E come dimostra la raccolta di saggi appena uscita qui, Afferrare la Patria, che raccoglie i suoi interventi più polemici. Ha fatto arrabbiare gli ebrei della Diaspora, soprattutto in Francia e negli Stati Uniti, quando ha sostenuto di essere un «ebreo totale» perché vive in Israele, mentre quelli che abitano all'estero sarebbero «parziali». Ha fatto arrabbiare parte della sinistra, quando ha rivelato di sentirsi più vicino «ai religiosi ultraortodossi moderati che a un intellettuale palestinese e laico come Mahmoud Darwish». Lui è arrabbiato con gli ebrei americani che finanziano gli insediamenti in Cisgiordania.
Ripete di essere contrario a uno Stato bi-nazionale, da condividere con gli arabi: «Significherebbe la fine di questo Paese, il cuore della nostra identità verrebbe calpestato, dovremmo cambiare la bandiera e l'inno. E avere un altro inno mi spaventerebbe molto».
Spiega così la sua passione: «C'è questo lato dentro di me convinto che le cose si possano riparare, una spinta che viene dal progetto sionista. Forse questa è la mia auto-definizione di uomo di sinistra. Perciò voglio comprendere la realtà e provare a cambiarla, per questo do consigli e scrivo appelli».
Lavora a un nuovo romanzo, continua le incursioni politiche, ammette che non potrebbe mai scrivere un'autobiografia. «Servono due condizioni: la prima è un'enorme presunzione, la seconda è aver subito qualche trauma. Amos Oz ha scritto un'autobiografia perché possiede questi elementi. In me mancano».
Davide Frattini
dal Corriere della Sera del 22 febbraio 2008,

L'ira della sinistra e degli ebrei della Diaspora



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