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Il Manifesto Rassegna Stampa
22.02.2008 Se le carceri palestinesi non funzionano la colpa è della lotta al terrorismo
e quindi, come al solito, di Israele

Testata: Il Manifesto
Data: 22 febbraio 2008
Pagina: 18
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Dietro le sbarre nel paese in gabbia»
Per far stare meglio i detenuti nelle sue carceri , l'Autorità palestinese non dovrebbe utilizzare i soldi sostratti dall'ingranaggio delle corruzione e del clientelismo, o quelli spesi per la propaganda d'odio che le scuole e i media da essa controllata continuano a diffondere, ma quelli impiegati nella lotta al terrorismo.
Che per Il MANIFESTO, come noto, è "resistenza" e quindi non andrebbe combattuto.

Ecco il testo dell'articolo di Michele Giorgio, dal MANIFESTO del 22 febbraio 2008:


Hanan accenna un sorriso. Parla della sua condizione di detenuta a bassa voce e con apparente serenità. Orari fissi, giornate senza significato, i rimorsi che lacerano l'anima. Sguardo vivo, velo di colore nero come il cappotto a bottoni grandi che la riscalda, Hanan è nata a Baghdad 31 anni fa. In Palestina ci arrivò per seguire il marito, un commerciante di Nablus. «Poi tutto è andato storto», aggiunge con una smorfia del viso, «pensavo di aver trovato la felicità, di aver realizzato la mia esistenza e invece ho perduto la testa ed è andato tutto male». Intorno, le sue compagne di prigionia ascoltano in silenzio, tranne una che singhiozza e si nasconde. La luce pallida sprigionata dai tubi di neon rende tutto piatto e triste e il sole, che pure riscalda e illumina Nablus in una giornata che già annuncia la primavera, non entra nella cella. I finestroni sono privi di vetri e Hanan e le sue compagne hanno dovuto chiuderli con pesanti panni scuri per ripararsi dal freddo. Altrettanto fanno i detenuti maschi nell'altro lato della prigione.
Cosa sia andato storto ad Hanan nessuno sa o vuole spiegarcelo. Pare che di fronte all'impossibilità di concepire un figlio abbia ucciso per rabbia il bimbo avuto da un precedente matrimonio. Ma è solo una versione dell'accaduto. Della sua compagna che continua a piangere con il volto rivolto verso la parete, invece, si sa tutto. Ha confessato di aver ammazzato il marito assieme all'amante per vivere finalmente libera la sua storia d'amore. E, come in romanzo giallo, alla fine sono stati scoperti e ora sono entrambi nella prigione di Nablus, separati e senza possibilità di incontrarsi.
Storie di ordinaria criminalità nella eccezionalità della Palestina che lotta per la libertà e l'indipendenza, in cui i reati comuni occupano lo spazio di una notizia breve nei giornali di fronte al dramma di un popolo che ogni giorno vede morire giovani, e non solo, sotto i colpi dei soldati israeliani, e che vive in città e centri che assomigliano a carceri a cielo aperto. Hanan e tutti gli altri detenuti comuni palestinesi (circa 600, tra cui 9 donne e 23 minori) sono perciò due volte prigionieri e in cella perdono la loro dignità di essere umani, costretti a vivere in condizioni penose, e spesso senza neanche aver incontrato un magistrato. La carcerazione preventiva equivale al carcere a tempo indeterminato, decine di detenuti sono in cella da quattro-cinque anni senza aver mai avuto il processo. L'88% dei palestinesi imprigionati per reati comuni o per collaborazionismo con Israele rimane in attesa di giudizio. E le prospettive che possano essere processati sono minime di fronte allo sfacelo del sistema giudiziario, caduto in frantumi assieme al resto dell'Anp in questi ultimi anni. I giudici non ci sono e in qualche caso fanno finta di non esserci poiché non sono protetti in alcun modo dalle autorità né rispettati dalla gente. In queste condizioni condannare all'ergastolo o a vent'anni di carcere un imputato significherebbe esporsi alle possibili ritorsioni dei suoi familiari.
L'ingresso della prigione di Nablus è spoglio ma ben tenuto. I due responsabili Jamal Jaafari e Mahmud Rahal, entrambi ufficiali della polizia, si mostrano disponibili. Dalla scrivania rispondono senza problemi alle nostre domande sotto lo sguardo benevolo dei presidenti Yasser Arafat e Abu Mazen che dominano la stanza dai poster affissi sulle pareti. Fanno capire che vorrebbero migliorare la condizione dei detenuti ma non ne hanno i mezzi e provano a spiegarlo a Marta Costantino, l'esperta dell'Unione europea che, nel quadro nel programma Eu Coops sta monitorando le prigioni palestinesi per dare un contributo alla ristrutturazione e riorganizzazione del sistema carcerario e, quindi, renderlo più umano. Ma appena si entra nel carcere si cade nello sconforto. I detenuti, circa 180 (a novembre erano la metà), vivono in ciò che resta della Muqata, il quartier generale dell'Anp a Nablus, bombardato e distrutto in buona parte negli anni passati dalle forze armate israeliane. Le celle sono affollate e fatiscenti, chi le occupa ha cercato di organizzarsi alla meglio ma con risultati minimi. La privacy è inesistente, i prigionieri tengono le loro cose ammassate sui letti. I servizi igienici sono inguardabili. A dare un po' di colore agli ambienti ci sono solo le immancabili riproduzioni della moschea di Al-Aqsa fatte dai detenuti. Altre celle sono inagibili e mostrano i segni evidenti lasciati dal fuoco innescato dalle esplosioni dei proiettili sparati dagli israeliani durante l'offensiva Muraglia di Difesa nel 2002. Durante l'ispezione della loro cella, i collaborazionisti rimangono in silenzio e non osano muovere un passo come soldati in fila. Anche loro non sono mai stati processati. E non stanno meglio degli altri detenuti i minorenni, tra cui un dodicenne arrestato per piccoli furti. L'unico spazio di vivibilità è il cortile, ampio e soleggiato, dove a turno i prigionieri si godono l'ora d'aria passeggiando o tirando un pallone consumato verso una tavola di legno grezzo su cui è stato fissato un canestro. «Fate qualcosa per farci avere qualche attrezzo da palestra», ci dice Ahmed Zakarneh, di Jenin, che con la sua maglietta attillata sopra i muscoli gonfi incarna alla perfezione il detenuto che si tiene in perfetta forma fisica, come in tanti film di carcerati.
«Dovete tener conto che la prigione di Nablus è una di quelle messe meglio, dovreste vedere le altre!», dice Marta Costantino rivolgendosi al piccolo gruppo di giornalisti e colleghi che la segue lungo i corridoi del carcere. Palermitana ma da tempo in Piemonte, Costantino qualche anno fa si è fatta la fama di direttore di carcere «progressista» per aver messo in atto, a Saluzzo, disposizioni innovative come il telegiornale in tre lingue fatto dai detenuti, protagonisti anche di spettacoli teatrali rappresentati in tutta Italia. In Palestina, Costantino ha ambizioni decisamente più modeste. Per conto dell'Eu Copps - programma europeo di sostegno e riqualificazione della polizia civile palestinese, coordinato dal britannico Colin Smith - sta facendo uno studio di valutazione finalizzato a migliorare le carceri palestinesi. «Provo anche a far passare alcune idee - dice l'esperta - ai miei colleghi e interlocutori palestinesi spiego, ad esempio, che il fine non deve essere quello di riempire le prigioni o dimostrare all'opinione pubblica che la polizia lotta contro il crimine. Il punto centrale è lavorare nella società». Costantino si è anche affannata a spiegare che la gestione del sistema carcerario dovrebbe essere affidata al Ministero della giustizia e tolta a quello dell'Interno (che a sua volta la passa al capo della polizia). Senza troppo successo, però e, in ogni caso, anche solo per ristrutturare le carceri esistenti (cinque più tre centri di detenzione) servono fondi ingenti e per ora sono disponibili solo 800.000 euro donati dall'Olanda. Mentre non va dimentica la situazione (sconosciuta) delle carceri di Gaza, che da quando Hamas è al potere è tagliata fuori da programmi europei di questo tipo.
I fondi invece non mancano ai servizi di sicurezza dell'Anp, sostenuti da un generoso programma da 230 milioni di dollari messi a disposizione dagli Stati uniti e che possono contare anche su donazioni europee. È sufficiente fare un giro nella nuova fiammante Accademia di Gerico, per capire quanto la priorità dell'Anp e dei suoi sponsor occidentali - e,dietro le quinte, di Israele - sia quella di mettere fine all'Intifada contro l'occupazione e dare la caccia ai militanti del movimento islamico che, non a caso, vengono tenuti non nelle carceri ordinarie ma nelle celle sotterranee costruite nelle basi dei servizi segreti. Agenti e ufficiali dei servizi di sicurezza «riformati» vengono pagati relativamente bene e addestrati in strutture all'avanguardia, come quelle di Gerico, dotate di tutto. La scuola di polizia civile - che formalmente non si occupa di politica - situata sempre a Gerico, al contrario è la fotografia esatta della miseria che caratterizza le strutture pubbliche palestinesi.
Gli Usa impegnano uomini, e non solo risorse finanziarie, negli apparati di sicurezza palestinesi e, attraverso il loro esperto, il generale Keith Dayton - che da due anni lavora al rafforzamento dell'Anp e di Fatah in funzione anti-Hamas - lo scorso autunno hanno imposto al presidente Abu Mazen l'invio di truppe speciali a Nablus, per spazzare via dalle strade i combattenti dell'Intifada. Programma che non impedisce a Israele di continuare i suoi raid nella più importante delle città palestinesi. Washington ha anche ottenuto la nomina del fidato Tawfiq Tirawi a responsabile del coordinamento delle tre forze di sicurezza che dovranno rimanere operative (prima erano 12): guardia nazionale, mukhabarat (servizio segreto) e polizia civile (secondo indiscrezioni Abu Mazen avrebbe ordinato lo scioglimento della potente sicurezza preventiva). Grazie ai milioni di dollari americani, oltre 700 ufficiali e agenti della guardia nazionale si stanno addestrando ad Amman. Al loro ritorno entreranno a far parte di una «forza speciale» incaricata di svolgere missioni «particolari». Un fiume di dollari e risorse che neppure sfiora il resto della vita dei palestinesi sotto occupazione mentre i detenuti comuni continuano a battere i denti dal freddo e a sognare finestre con i vetri.

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