La STAMPA del 21 febbraio 2008 pubblica un interessante articolo di Aldo Rizzo sul terrorismo delle Tigri Tamil.
Le vicende dello Sri Lanka non riguarderebbero la nostra newsletter, se non fosse che Rizzo ricava, dalla considerazione del caso specifico, una distinzione di carattere generale tra terrorismo che agisce per motivazioni religiose e terrorismo nazionalista. A quest'ultima tipologia appartiene anche, sostiene, il terrorismo palestinese.
La distinzione non è priva di conseguenze pratiche. I due terrorismi devono secondo Rizzo essere affrontati in modo diverso: "Nel secondo caso, con un negoziato tenace, al limite senza pre-condizioni".
Forse Rizzo pensa al negoziato con l'Autorità palestinese. Negoziato che però Israele già sta conducendo.
O forse pensa che sia necessario dialogare anche con un gruppo come Hamas, che al terrorismo non ha mai rinunciato, come riconosce anche l'Unione europea.
In questo caso il suo sarebbe, a nostro avviso, un grave errore. Per due motivi. Innanzitutto, nel caso del terrorismo palestinese, è sbagliata la premessa. Gruppi come Hamas non agiscono sulla base di un'agenda politica nazionale, ma di fanatiche convinzioni religiose. Sono proprio queste convinzioni religiose, sintetizzabili nell'asserito dovere di conquistare le terre che apparterebbero per decreto divino all'islam, a rendere irrisolvibile il conflitto nazionale e territoriale, scatenando, contro ogni sua possibile composizione, la jihad per la distruzione di Israele.
In secondo luogo, anche se esistessero terrorismi esclusivamente nazionalisti, premiarli con concessioni politiche a seguito di negoziati, soprattutto condotti prima che abbiano definitivamente deposto le armi, incoraggerebbe, come già ha fatto in passato, anche i terrorismi religiosi, perché dimostrerebbe soltanto l'efficacia della violenza.
Ecco il testo completo dell'articolo:
C’è un terrorismo di cui si parla poco, fuori dai suoi confini, ma che fa più vittime che in Afghanistan, secondo stime ufficiali citate dall’Economist». È quello in atto dal 1983 nello Sri Lanka, ad opera dei guerriglieri Tamil. Nonostante una pausa, una tregua, fissata nel 2002, e certo non del tutto rispettata, comunque ufficialmente finita all’inizio di quest’anno, il numero dei morti supera i 70 mila, su una popolazione di due milioni di abitanti. Nel conto vanno naturalmente messe anche le vittime della reazione governativa. Con la rottura della tregua, gli attacchi delle «tigri», come vengono definiti i guerriglieri, sono ripresi con un ritmo ancora più alto e non passa giorno, praticamente, senza il conteggio di decine di morti, nella stessa capitale, Colombo. Autobombe e kamikaze, anche lì.
Lo Sri Lanka è l’ex Ceylon, l’isola a Sud dell’India, diventata indipendente nel 1948. Il 4 febbraio ha celebrato il suo sessantesimo compleanno, ma sono state più le esplosioni terroristiche che i fuochi di artificio. Ai suoi esordi, il nuovo Stato sembrava bene avviato, con un sistema democratico di tipo, appunto, indiano e con un’economia promettente. Quando ancora non c’erano i charter diretti per le Maldive, Colombo era spesso la tappa conclusiva verso quelle esotiche isole delle vacanze, per i turisti occidentali. Ma ora sono le spese militari, esorbitanti, un miliardo e mezzo di dollari, la principale voce (passiva) del bilancio nazionale, a tutto detrimento dell’economia civile, più o meno alla sbando.
Il sistema è saltato e la tragedia è cominciata per la questione, appunto, dei Tamil, cioè di quella minoranza etnica e religiosa (induista e in minor parte islamica, di fronte al buddismo ufficiale della maggioranza), che a Nord dell’isola ha una sua sponda, e anche l’origine etnico-storica, nel Tamilakam del Sud indiano. Come al solito, si è partiti con richieste di maggiore autonomia, poi la risposta negativa dei governi (non di tutti, ma hanno prevalso quelli più conservatori e populisti, come l’attuale di Mahinda Rajapaksa) ha generato l’estremismo, il secessionismo, e infine il terrorismo. Che ora insanguina un Paese, peraltro bellissimo.
Il caso dello Sri Lanka è, diciamo, interessante, drammaticamente interessante, oltre che in se stesso, come dimostrazione di quanto sia vario e complesso il fenomeno terrorista nel mondo contemporaneo. Dopo l’11 settembre, siamo tutti portati a vederlo, a percepirlo, come una minaccia globale e quasi indistinta, dalla quale bisogna solo difendersi. In realtà ci sono almeno due terrorismi: quello dichiaratamente ideologico e religioso, di cui il massimo esempio è Al Qaeda, direttamente presente, o con suoi alleati locali, in Afghanistan e in Iraq, e quello «regionale» o «nazionale», legato a problemi specifici di un’area o di un singolo Paese. Quello delle «tigri» Tamil è chiaramente del secondo tipo, come altri nella stessa Asia (Thailandia, Filippine, Indonesia) e anche in Europa. Ma soprattutto in Palestina, contro l’occupazione israeliana, con tutta la particolarità di quella situazione, con ragioni e torti, col passare del tempo, da ambo le parti.
La conseguenza è che bisognerebbe affrontare i due tipi di terrorismo con mezzi diversi. Nel secondo caso, con un negoziato tenace, al limite senza pre-condizioni. Si sono visti in passato risultati importanti, per esempio in Europa con i terroristi irlandesi, ma anche nell’Africa post-coloniale. Perché il pericolo è che i due tipi poi s’intreccino, col prevalere di quello «globale» su quello «locale». E se ne vedono segni a Gaza e nel Libano, o nel Sud thailandese. Senza alla fine poter escludere che anche quello «globale» (Afghanistan, in parte ancora l’Iraq) abbia bisogno di risposte politiche e non solo militari.
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