sabato 23 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Avvenire Rassegna Stampa
21.02.2008 La "malizia crudele" di chi non crede alla propaganda palestinese
a Gaza c'è il boom dei computer e di internet, ma non si deve pensar male

Testata: Avvenire
Data: 21 febbraio 2008
Pagina: 3
Autore: Barbara Uglietti
Titolo: «Viaggiare su Internet la speranza di Gaza»

C'è la consueta retorica sui reclusi di Gaza, ci sono le consuete falsità sull'embargo che paralizza gli ospedali, la consueta omissione dei dati di fatto scomodi relativi al lancio di razzi kassam o all'infiltrazione di terroristi e al contrabbando di armi nei giorni dell' apertura del valico di Rafah tra Gaza ed Egitto.

In più, nel lungo articolo sugli internauti palestinesi di Barbara Uglietti, pubblicato da AVVENIRE il 21 febbraio 2008, c'è l'accusa di  "malizia crudele" a chi ha osservato che, se i palestinesi entrati in Egitto dopo l'apertura del valico vi hanno acquistato soprattutto prodotti elettronici, la crisi economica e la fame di Gaza dovevano essere state entrambe sovrastimate da una certa informazione.

La risposta è affidata alla blogger Heba "una giovane mamma"  che, nel carcere a cielo aperto o, secondo alcuni, nella nuova Auschwitz  di Gaza "lavora e studia per completare il suo master":  "molte fami­glie hanno letteralmente venduto tutto quello che avevano, gioielli di famiglia, mobili, piccole proprietà, pur di avere i soldi necessari per an­dare a prendere cose in Egitto, a prezzi abbastanza bassi, da riven­dere a Gaza per generare un po’ di profitto"

Profitto realizzato rivendendo "un te­levisore a schermo piatto", "una lavatrice,"  "una parabola satel­litare" e "tante, tantissime si­garette". Tutte merci che qualcuno, a Gaza, dovrà pur essere in condizione di comprare.

Ecco il testo completo:

I l marchio, riconoscibilissimo, del computer più nuovo e po­tente che c’è luccicava sul car­tone bianco proprio sopra la coda impolverata del cavallo, nervoso mentre scavalcava la lamiera abbat­tuta del valico di Rafah. Dietro, sul carretto di legno, l’imballo di un te­levisore a schermo piatto, quello di una lavatrice, di una parabola satel­litare e quelli di tante, tantissime si­garette.
 
Passavano di là, alla fine di gennaio, i palestinesi di Gaza. “Evasi” da un assedio lungo troppi anni, attraver­savano il muro di confine aperto dai miliziani per andare in Egitto a com­prare generi di prima necessità. Be­ni di prima necessità: computer, te­levisiori, telefonini.
  Per un popolo chiuso dentro la Stri­scia, e fuori da tutto, non c’è niente di più fondamentale che comunica­re, e se c’è un posto in tutto il mon­do dove
Windows non è soltanto un sistema operativo ma davvero una finestra aperta sull’“altro”, ecco, quel posto è Gaza. Come unico effetto collate­rale positivo dell’as­sedio, i ragazzi della Striscia hanno colti­vato una consuetudi­ne inaspettata con tutto quello che a che fare con la tecnolo­gia, segnando il re­cord, forse mondia­­le, di convivenza pa­radossale tra estrema povertà ed estrema informatizzazione.
  Tanto che, unico ca­so nella storia della Rete, dal 2003 i siti palestinesi hanno il suffisso, «ps», di uno
Stato che non c’è.
  I blogger di Gaza sono un universo a parte, in tutti i sensi, che racconta meglio di qualsiasi agenzia la quoti­dianità di chi vive, praticamente da sempre, dentro una gabbia. I ragaz­zi scrivono post (i messaggi) in per­fetto inglese: un diario quasi privo di filtri e inutili infingimenti che rac­conta giorno dopo giorno lo slalom, rassegnato e combattivo insieme, in un modo tutto palestinese, tra le bombe, la violenza e il niente. Nien­te cibo, niente medicine, niente spo­stamenti, niente lavoro. E niente e­lettricità.
 
A gennaio, nei giorni più bui dell’as­sedio, bui perché di luce non ce n’e­ra proprio più, i palestinesi di Gaza guardavano le lineette delle batterie dei computer assottigliarsi veloce­mente e con un mezzo sorriso la­sciavano messaggi in bottiglia nel mare del Web: «Pile esaurite. Qui la manovella non c’è. Esco a cercare due criceti giganti da mettere den­tro una ruota gigante e se non li tro­vo, beh, ci rivedremo quando Israe- le vorrà». La Striscia di Gaza dipen­de quasi completamente dalle for­niture dello Stato ebraico: da loro l’Autorità nazionale palestinese compera gran parte dell’elettricità, da loro compera il carburante ne­cessario per far funzionare il princi­pale impianto locale. Poi ci sono i generatori, ma vanno a benzina an­che quelli. E nei giorni scorsi era in­trovabile.
  Così, insieme al disastro umanitario degli ospedali paralizzati e delle pompe per l’acqua ferme, è iniziato, per la gente, anche il consueto “pel­legrinaggio della luce”. Proprio nien­te di mistico. «È semplice: ci lavia­mo, asciughiamo i capelli, studiamo, usiamo la lavatrice, guardiamo la Tv, ricarichiamo i cellulari, ci connet­tiamo a Internet in base alla pro­grammazione dell’azienda energe­tica. E siccome la programmazione varia di zona in zona in zona, ci spo­stiamo da parenti e amici inseguen­do la copertura». Heba tiene da Ga­za il suo blog
Contemplating from Gaza (.
 
blogspot.com). È una giovane mamma che lavora e studia per completare il suo master. Incontrar­la significa capire con immediatez­za quanto la gente di qui sia infini­tamente più preparata di ogni preoc­cupata e compassionevole perce­zione occidentale. «A febbraio – rac­conta – per quasi 48 ore non abbia­mo avuto corrente per niente. Ed è stato un disastro. In ogni caso, anche tutti gli altri giorni la faccenda del­­l’elettricità è veramente complicata. È razionata in base alla quantità di carburante che i gestori ricevono: se abbiamo energia per otto ore, non l’avremo per le otto successive. L’u­nica cosa certa è che non possiamo mai averla per 24 ore di fila. Mai». Eppure. Eppure, nei dieci giorni di apertura “forzata” del valico, le televisioni di tutto il mondo avevano mostrato mi­gliaia di palestinesi rientrare a Gaza carichi di materiale elettronico com­perato di là. Qualcuno, con malizia crudele, aveva osservato: eccoli lì, i palestinesi «poveri e affamati e sen­za medicine» cha fanno il pieno di Notebook Tv a schermo piatto. «So­lite distorsioni – commenta Heba –. Prima di tutto vorrei sottolineare che molta di quella gente non è andata di là per “fare shopping”: sono andati di là per provare, dopo anni, la sen­sazione di essere liberi. In secondo luogo, va precisato che molte fami­glie hanno letteralmente venduto tutto quello che avevano, gioielli di famiglia, mobili, piccole proprietà, pur di avere i soldi necessari per an­dare a prendere cose in Egitto, a prezzi abbastanza bassi, da riven­dere a Gaza per generare un po’ di profitto. Qui non c’è lavoro e non c’è possibilità di uscire a cercarselo. È così difficile capire che per tutte que­ste persone l’apertura del valico è stata una “possibilità”?».
  A causa delle sanzioni, tutto, nella Striscia, dal cibo alle medicine alle apparecchiature elettriche, ha rag­giunto prezzi altissimi. Nell’enclave, non tutti posso permettersi un com­puter a casa. Ma un’alternativa c’è: gli Internet cafè. Dalla scoppio del­la
Seconda Intifada, sono moltipli­cati: erano una quarantina, prima, sono quasi 500, oggi. Tempo fa al­cuni gruppi fondamentalisti aveva­no lanciato una campagna di ag­gressione distruggendone, in pochi giorni, una cinquantina. Poi le cose si sono stabilizzate. «Resta però il problema di alcune aree margina­lizzate – dice Heba – come il Sud, la zona di Rafah, dove non hanno nem­meno copertura telefonica».
  «Occupazione» e «Israele» sono le parole che ricorrono di più nei blog. Ma i toni raramente sono cattivi. «Se ci mettessimo a scrivere invettive o analisi politiche – sorride, Heba – chi ci leggerebbe più? Tutto quello che vogliamo, invece, è far capire come si vive qui dentro.».
  Poi c’è che Internet lo usa “in dire­zione contraria”: i tantissimi profu­ghi palestinesi che da fuori Gaza pos­sono mantenersi in contatto con chi è rimasto dentro. Laila El-Haddad tiene il suo blog “Raising Yousuf, Un­plugged: diary of a Palestinian mother” () a metà tra la Stri­scia di Gaza e il Nord Carolina, dove suo marito, originario di Haifa, si è trasferito come rifugiato. «In un cer­to senso, è stato fortunato a potersi stabilire negli Stati Uniti, dove si è diventato medico, ma il suo status è ancora quello di rifugiato e Israele non gli permette, in quanto tale, di tornare a casa. Ai valichi possono passare solo i palestinesi con una carta di identità rilasciata da Israele, chiamata Hawia. Io quando posso torno. Certo adesso con i figli picco­li non rischio di passare giornate fer­ma a un check point. Risultato: quando sono negli Usa mi tengo in costante contatto con la mia famiglia e i miei amici con il computer. Pas­sando attraverso l’unico valico sem­pre aperto: quello di Internet».
 

Per inviare una e-mail alla redazione di Avvenire cliccare sul link sottostante


lettere@avvenire.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT