C'è la consueta retorica sui reclusi di Gaza, ci sono le consuete falsità sull'embargo che paralizza gli ospedali, la consueta omissione dei dati di fatto scomodi relativi al lancio di razzi kassam o all'infiltrazione di terroristi e al contrabbando di armi nei giorni dell' apertura del valico di Rafah tra Gaza ed Egitto.
In più, nel lungo articolo sugli internauti palestinesi di Barbara Uglietti, pubblicato da AVVENIRE il 21 febbraio 2008, c'è l'accusa di "malizia crudele" a chi ha osservato che, se i palestinesi entrati in Egitto dopo l'apertura del valico vi hanno acquistato soprattutto prodotti elettronici, la crisi economica e la fame di Gaza dovevano essere state entrambe sovrastimate da una certa informazione.
La risposta è affidata alla blogger Heba "una giovane mamma" che, nel carcere a cielo aperto o, secondo alcuni, nella nuova Auschwitz di Gaza "lavora e studia per completare il suo master": "molte famiglie hanno letteralmente venduto tutto quello che avevano, gioielli di famiglia, mobili, piccole proprietà, pur di avere i soldi necessari per andare a prendere cose in Egitto, a prezzi abbastanza bassi, da rivendere a Gaza per generare un po’ di profitto"
Profitto realizzato rivendendo "un televisore a schermo piatto", "una lavatrice," "una parabola satellitare" e "tante, tantissime sigarette". Tutte merci che qualcuno, a Gaza, dovrà pur essere in condizione di comprare.
Ecco il testo completo:
I l marchio, riconoscibilissimo, del computer più nuovo e potente che c’è luccicava sul cartone bianco proprio sopra la coda impolverata del cavallo, nervoso mentre scavalcava la lamiera abbattuta del valico di Rafah. Dietro, sul carretto di legno, l’imballo di un televisore a schermo piatto, quello di una lavatrice, di una parabola satellitare e quelli di tante, tantissime sigarette.
Passavano di là, alla fine di gennaio, i palestinesi di Gaza. “Evasi” da un assedio lungo troppi anni, attraversavano il muro di confine aperto dai miliziani per andare in Egitto a comprare generi di prima necessità. Beni di prima necessità: computer, televisiori, telefonini.
Per un popolo chiuso dentro la Striscia, e fuori da tutto, non c’è niente di più fondamentale che comunicare, e se c’è un posto in tutto il mondo dove Windows non è soltanto un sistema operativo ma davvero una finestra aperta sull’“altro”, ecco, quel posto è Gaza. Come unico effetto collaterale positivo dell’assedio, i ragazzi della Striscia hanno coltivato una consuetudine inaspettata con tutto quello che a che fare con la tecnologia, segnando il record, forse mondiale, di convivenza paradossale tra estrema povertà ed estrema informatizzazione.
Tanto che, unico caso nella storia della Rete, dal 2003 i siti palestinesi hanno il suffisso, «ps», di uno Stato che non c’è.
I blogger di Gaza sono un universo a parte, in tutti i sensi, che racconta meglio di qualsiasi agenzia la quotidianità di chi vive, praticamente da sempre, dentro una gabbia. I ragazzi scrivono post (i messaggi) in perfetto inglese: un diario quasi privo di filtri e inutili infingimenti che racconta giorno dopo giorno lo slalom, rassegnato e combattivo insieme, in un modo tutto palestinese, tra le bombe, la violenza e il niente. Niente cibo, niente medicine, niente spostamenti, niente lavoro. E niente elettricità.
A gennaio, nei giorni più bui dell’assedio, bui perché di luce non ce n’era proprio più, i palestinesi di Gaza guardavano le lineette delle batterie dei computer assottigliarsi velocemente e con un mezzo sorriso lasciavano messaggi in bottiglia nel mare del Web: «Pile esaurite. Qui la manovella non c’è. Esco a cercare due criceti giganti da mettere dentro una ruota gigante e se non li trovo, beh, ci rivedremo quando Israe- le vorrà». La Striscia di Gaza dipende quasi completamente dalle forniture dello Stato ebraico: da loro l’Autorità nazionale palestinese compera gran parte dell’elettricità, da loro compera il carburante necessario per far funzionare il principale impianto locale. Poi ci sono i generatori, ma vanno a benzina anche quelli. E nei giorni scorsi era introvabile.
Così, insieme al disastro umanitario degli ospedali paralizzati e delle pompe per l’acqua ferme, è iniziato, per la gente, anche il consueto “pellegrinaggio della luce”. Proprio niente di mistico. «È semplice: ci laviamo, asciughiamo i capelli, studiamo, usiamo la lavatrice, guardiamo la Tv, ricarichiamo i cellulari, ci connettiamo a Internet in base alla programmazione dell’azienda energetica. E siccome la programmazione varia di zona in zona in zona, ci spostiamo da parenti e amici inseguendo la copertura». Heba tiene da Gaza il suo blog Contemplating from Gaza (http://contemplating-fromgaza.
blogspot.com). È una giovane mamma che lavora e studia per completare il suo master. Incontrarla significa capire con immediatezza quanto la gente di qui sia infinitamente più preparata di ogni preoccupata e compassionevole percezione occidentale. «A febbraio – racconta – per quasi 48 ore non abbiamo avuto corrente per niente. Ed è stato un disastro. In ogni caso, anche tutti gli altri giorni la faccenda dell’elettricità è veramente complicata. È razionata in base alla quantità di carburante che i gestori ricevono: se abbiamo energia per otto ore, non l’avremo per le otto successive. L’unica cosa certa è che non possiamo mai averla per 24 ore di fila. Mai». Eppure. Eppure, nei dieci giorni di apertura “forzata” del valico, le televisioni di tutto il mondo avevano mostrato migliaia di palestinesi rientrare a Gaza carichi di materiale elettronico comperato di là. Qualcuno, con malizia crudele, aveva osservato: eccoli lì, i palestinesi «poveri e affamati e senza medicine» cha fanno il pieno di Notebook Tv a schermo piatto. «Solite distorsioni – commenta Heba –. Prima di tutto vorrei sottolineare che molta di quella gente non è andata di là per “fare shopping”: sono andati di là per provare, dopo anni, la sensazione di essere liberi. In secondo luogo, va precisato che molte famiglie hanno letteralmente venduto tutto quello che avevano, gioielli di famiglia, mobili, piccole proprietà, pur di avere i soldi necessari per andare a prendere cose in Egitto, a prezzi abbastanza bassi, da rivendere a Gaza per generare un po’ di profitto. Qui non c’è lavoro e non c’è possibilità di uscire a cercarselo. È così difficile capire che per tutte queste persone l’apertura del valico è stata una “possibilità”?».
A causa delle sanzioni, tutto, nella Striscia, dal cibo alle medicine alle apparecchiature elettriche, ha raggiunto prezzi altissimi. Nell’enclave, non tutti posso permettersi un computer a casa. Ma un’alternativa c’è: gli Internet cafè. Dalla scoppio della Seconda Intifada, sono moltiplicati: erano una quarantina, prima, sono quasi 500, oggi. Tempo fa alcuni gruppi fondamentalisti avevano lanciato una campagna di aggressione distruggendone, in pochi giorni, una cinquantina. Poi le cose si sono stabilizzate. «Resta però il problema di alcune aree marginalizzate – dice Heba – come il Sud, la zona di Rafah, dove non hanno nemmeno copertura telefonica».
«Occupazione» e «Israele» sono le parole che ricorrono di più nei blog. Ma i toni raramente sono cattivi. «Se ci mettessimo a scrivere invettive o analisi politiche – sorride, Heba – chi ci leggerebbe più? Tutto quello che vogliamo, invece, è far capire come si vive qui dentro.».
Poi c’è che Internet lo usa “in direzione contraria”: i tantissimi profughi palestinesi che da fuori Gaza possono mantenersi in contatto con chi è rimasto dentro. Laila El-Haddad tiene il suo blog “Raising Yousuf, Unplugged: diary of a Palestinian mother” (http://a-mother-from-gaza.blogspot.com) a metà tra la Striscia di Gaza e il Nord Carolina, dove suo marito, originario di Haifa, si è trasferito come rifugiato. «In un certo senso, è stato fortunato a potersi stabilire negli Stati Uniti, dove si è diventato medico, ma il suo status è ancora quello di rifugiato e Israele non gli permette, in quanto tale, di tornare a casa. Ai valichi possono passare solo i palestinesi con una carta di identità rilasciata da Israele, chiamata Hawia. Io quando posso torno. Certo adesso con i figli piccoli non rischio di passare giornate ferma a un check point. Risultato: quando sono negli Usa mi tengo in costante contatto con la mia famiglia e i miei amici con il computer. Passando attraverso l’unico valico sempre aperto: quello di Internet».
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