Il mio Olocausto Tova Reich Einaudi traduzione di Costanza Prinetti, pp. 320, € 15,50
Bernstein, ho due notizie. Una buona, l’altra cattiva. Prima la buona, Cohen! Hitler è morto. Splendido! E la notizia cattiva? Ecco, Bernstein, la prima notizia è falsa». L’umorismo ebraico è stato per secoli l’arma non convenzionale di un popolo beffeggiato dalla storia, per dire al resto del mondo: «Oltre a perseguitarci non state anche a ridere di noi: provvediamo da soli, grazie». Oltranzista fino al midollo, esso non perdona nulla e nessuno, ride (di sé) anche nei momenti più importuni. In questo senso il romanzo (anzi pseudo-romanzo) di Tova Reich che Einaudi Stile Libero sta per mandare in libreria con il titolo Il mio Olocausto (traduzione di Costanza Prinetti, pp. 320, € 15,50) trova posto in un filone millenario: quello del ridere ebraico, prima di tutto di sé. Tova Reich vive a Washington e proviene da una famiglia ortodossa, ha al suo attivo romanzi e saggi. Il mio Olocausto è una satira sferzante, quasi parossistica, sul cosidetto «turismo della memoria», sulla mercificazione della Shoah. Racconta la vicenda di un promettente «Shoah business», perché l’Olocausto è «più alla moda persino della biancheria imbottita». L’industria della famiglia Messer prevede iniziative che vanno dalle gite organizzate alla costruzione di memoriali: di fatto è un astuto sistema per spillare denaro ai clienti. Tutto funziona alla perfezione in quest’impresa. Tutto o quasi. Perché Maurice Messer, il boss, ha un cruccio: l’adorata nipotina, Nechama, si fa monaca ed entra nel convento delle carmelitane di Auschwitz. Ciò complica tutto. In primo luogo il contorto legame fra narrazione e autrice, il cui fratello nel lontano 1989 fu alla guida del gruppo di contestatori che scalò il muro di cinta del convento, per protestare contro la presenza di questa istituzione dentro il campo di sterminio. Tova è poi anche la moglie di Walter Reich, che per quattro anni diresse il Museo dell’Olocausto. Ma Il mio Olocausto non è solo una spietata descrizione «dal vivo»: con questa parata di grottesco, Tova Reich solleva una questione cruciale. E ciò spiega le reazioni ebraiche che il libro ha avuto negli Stati Uniti: d’accordo che i figli d’Israele amano prendersi in giro, ma questo libro è qualcosa di più, di più acido e amaro. Eppure il libro è stato preso sul serio, e molte sono state le reazioni positive, come quella di Cynthia Ozick. Il mio Olocausto non banalizza: parla della banalizzazione, di chi usa la memoria della Shoah per i propri intenti, in nome di un vacuo universalismo dello sterminio. Il «suo» olocausto punta il dito sulla rivendicazione al vittimismo, sulla retorica dell’uniformità per cui ognuno ha diritto a una «sua» Auschwitz. Arrivati oltre la metà del libro ci si accorge infatti che il sarcasmo della Reich va ben oltre il mondo ebraico: infierisce su cattolici, polacchi, tedeschi, buddisti, newagisti, vegetariani, mormoni, afroamericani... ansiosi di un posto nel teatro della commemorazione. In questo processo di inarrestabile perdita di senso, la «Holocaust Connection Inc.» prospera, Auschwitz diventa la meta di un monotono pellegrinaggio storico. Tutti finiscono sulla graticola, a incominciare dalla figlia di un potenziale donatore che nota al campo un visitatore in sedia a rotelle e apprezza il fatto che Auschwitz sia accessibile ai disabili, chiedendo se anche allora, all’epoca dell’Olocausto, fosse stato così. Qualche anno fa il maestro Yeshayahu Leibowitz rifletteva sulla memoria della Shoah come «principio identitario» per molti ebrei del mondo che, esenti per libera scelta d’ogni legame con l’osservanza religiosa, si riconoscono essenzialmente nella condivisione di questo terribile passato. La questione è più che aperta, in ambito ebraico. Ma il libro della Reich ne solleva un’altra, non meno attuale: quella della banalizzazione della Shoah nel contesto globale. Della ritualizzazione del ricordo, che diventa un surrogato di culto religioso. Un culto narcisistico che celebra se stessi in quanto custodi morali di una memoria, propria o altrui. Come ha scritto Shmuel Herzfeld a proposito del libro di Tova Reich, «il modo in cui noi ricordiamo la Shoah rappresenta il modo in cui noi decidiamo di ricordare i nostri cari. Il modo più puro per ricordare è semplicemente ricordarsi di loro». Elena Loewenthal La Stampa