Sander L. Gilman Il mito dell'intelligenza ebraica 15/02/2008
Il mito dell'intelligenza ebraica Sander L. Gilman Utet PP. 212, € 20
Per secoli i cristiani hanno nutrito la convinzione malsana che gli ebrei fossero più intelligenti. Li chiamavano «perfidi »; ma cos'è la perfidia se non intelligenza maligna? Quegli «ospiti» erano acuti e lesti negli affari. L'Europa se ne fece una ragione, riducendo l'intelligenza ebraica a sagacia e furbizia. Ma oggi, dopo Marx, Freud, Einstein, Kafka, Proust, considerare gli ebrei solo bravi mercanti o bravi finanzieri non è possibile (anche se, in affari, non sembrano aver perso la mano). Resta la convinzione imbarazzante (ma tutto è imbarazzante e «delicato», dopo la Shoah) che siano supremamente intelligenti. Non tutti, per la verità. Come risulta da indagini americane sul quoziente d'intelligenza, ed è opinione corrente in Israele e altrove, i sefarditi (provenienti da antiche comunità iberiche, dal Nordafrica e dal Medio Oriente) sono nella media. Lo stesso si dica delle donne ebree. E allora? Allora l'ebreo «geniale» sarà maschio e ashkenazita (con ascendenze nella Mitteleuropa). I suoi antenati saranno venuti dal mondo dello shtetl e avranno parlato yiddish. Avrà scatola cranica capiente e torace esile. In effetti tutta una serie di successi (premi Nobel, cattedre nelle grandi università...) sembrano confermare uno stereotipo che risale all'Ottocento. Ma è proprio così? «Gli ebrei» (intesi come ashkenaziti) «sono davvero più intelligenti degli altri? Diversi dagli altri? Sono più intelligenti e diversi solo se le culture in cui vivono li considerano tali. Che ci siano ebrei geniali è sicuro; che essere ebreo significhi essere intelligente fa parte della costruzione della differenza degli ebrei». Così si conclude l'interessante saggio Il mito dell'intelligenza ebraica di Sander L. Gilman, professore (ebreo) alla Emory University, pubblicato dalla Utet in un'edizione per la verità abbastanza sciatta e negligente. Saggio che permette di constatare sino a che punto gli ebrei stessi, captando i giudizi della cultura «ospitante», si siano sentiti «diversi »... e questo sì che è importante! Permette di collegare con fili sottili, ma resistenti, i tratti della genialità ebraica all'interiorizzazione di una differenza. «Noi ebrei sembriamo predestinati a copiare le idee degli altri», scrisse nel 1886 Victor Adler, uno dei fondatori del Partito socialista austriaco. La Vienna fin-de-siècle era gremita di irrequieti e intelligentissimi ebrei convinti di essere intellettualmente dei «parassiti ». Secondo Wittgenstein, il pensatore ebreo «non ha altro che talento. Io, per esempio... non ritengo di avere mai inventato una linea di pensiero. Ho sempre preso qualcosa da qualcuno». Talento sì, ma niente genio. Per l'autore del Tractatus, Freud e Breuer erano, come lui, esempi di mimetismo ebraico. Analogamente Theodor Gomperz, ebreo e studioso eminente della classicità, era convinto che gli ebrei potessero eccellere solo nelle «arti riproduttive »: recitazione ed esecuzione musicale. Esecutori, imitatori e manipolatori brillanti della cultura in cui si trovavano a vivere: questo si sentivano gli ebrei. Un po' ciarlatani. Scimmie, verrebbe da dire, anche per la suggestione di uno dei più bei racconti di Kafka: Relazione a un'Accademia. Attraverso sforzi inauditi, lo scimpanzé che riferisce i suoi progressi a un'assemblea di dotti ha acquisito «la cultura media di un europeo». Vedere nel racconto di Kafka una metafora dell'ebreo che si accultura ne rovinerebbe grazia e umorismo. A parlare è senza dubbio uno scimpanzé veritiero. Ma è possibile che, leggendo, qualche ebreo abbia pensato al suo rapporto col mondo dei Gentili; e anche Kafka forse ci avrà pensato, per un istante. Intelligenti, ma non veramente creativi. Al massimo buoni esegeti. Questo pensavano degli ebrei tanto gli antisemiti quanto i «semiti», nella Vienna tra Otto e Novecento. Mai l'ebraismo avrebbe generato un Goethe o un Wagner. Un ebreo che odiava se stesso, Otto Weininger (l'autore di Sesso e carattere), ebbe a dire che negli ebrei non esisteva «la minima traccia di genio» (come «nelle donne e nei negri»). Con più moderazione Theodor Gomperz teorizzò che la mancanza di genio poetico dipendesse dalla lontananza dalla campagna. L'assenza di un retroterra contadino aveva inaridito le sorgenti del lirismo. Gli ebrei erano «prosaici». Di questo era convinto anche un protégé di Gomperz, lo studente Sigmund Freud, che scrisse al suo amico e coetaneo Emil Flüss: «Lasciare la terra natia porta all'abbattimento... Oh, Emil, perché sei un ebreo prosaico? Scribacchini imbevuti di fervore cristiano- germanico avrebbero composto una splendida poesia lirica in siffatte circostanze». Qui il tono è già un altro. Si capisce che la simpatia di Freud va più al cuore freddo e all'intelligenza analitica degli ebrei che al cuore caldo e al fervore poetico dei Gentili. Nel corso della sua vita Freud elaborò una teoria della creatività senza rapporti con caratteristiche razziali. Ma il problema della «differenza » ebraica continuava a esistere, per lui. Dopo il trionfo politico del nazismo il vecchio Freud cominciò a elogiare gli ebrei: «Quando si pensa che il 10 o il 12 per cento dei premi Nobel è costituito da ebrei e si ricordano i loro successi nelle scienze e nelle arti, si è legittimati a considerarli superiori». E in Mosè e il monoteismo diede una formulazione definitiva dei suoi pensieri in proposito: «Il primato accordato per circa duemila anni alle preoccupazioni spirituali... ha contribuito a contenere la rozzezza e l'inclinazione alla violenza che di solito compaiono dove l'ideale popolare è lo sviluppo della forza muscolare. L'armonia nel coltivare l'attività dello spirito e quella del corpo, così come fu realizzata dal popolo greco, rimase inattingibile per gli ebrei. Nella spaccatura essi decisero comunque per il valore più alto.» Le esplosioni di genialità sono misteriose. Mi viene in mente, a questo punto, che l'etnia da cui provengo (i toscani) diede anch'essa, per alcuni secoli (da Dante a Petrarca, a Boccaccio, a Giotto, a Brunelleschi, a Piero, a Leonardo, a Michelangelo, a Machiavelli, a Galileo) prove di intelligenza superiore. Poi, di colpo, diventammo come gli altri. Immagino che la stessa cosa succederà agli ebrei. Che possiedano un'intelligenza superiore è incerto e inverificabile, ed è connesso all'invidia tinta di razzismo della cultura europea. I loro successi intellettuali sono invece indiscutibili, e ci appaiono strettamente legati alla difficile e dubbiosa interiorizzazione di una differenza. Di un'estraneità. Se davvero è così, l'esistenza di uno Stato ebraico (e dunque, per molti ebrei, un sentimento nuovo di appartenenza) potrebbe annunciare il tramonto di una grande stagione. Una stagione la cui eredità è tuttavia destinata a restare, per ebrei e per non ebrei. Giovanni Mariotti Corriere della Sera