Pubblichiamo un testo di dissenso del movimento cattolico "Noi Siamo Chiesa" circa le recenti iniziative liturgiche papali in tema di ebrei e ebraismo.
La nuova preghiera del Venerdì Santo "pro judaeis"esprime una teologia preconciliare e rende difficili i rapporti col popolo ebraico
L’improvvido motu proprio "Summorum Pontificum" , che ha permesso di ritornare a celebrare l’Eucaristia nella Chiesa cattolica secondo il rito tridentino, continua a creare problemi.
Già al momento della sua emanazione molti, anche in ambienti ecclesiastici, affermarono che esso prevedeva la ripresa di invocazioni e di preghiere nella liturgia del Venerdì Santo che avrebbero ostacolato i progressi degli ultimi anni nel rapporto tra i cattolici ed il popolo ebreo. Infatti in esse si esprimevano sensibilità e culture antisemite che ora - speriamo- siano del tutto cancellate nella cultura e nella sensibilità di tutto il popolo di Dio. In questi mesi si era quindi posto il problema di intervenire su questo punto.
Benedetto XVI , ci sembra, avrebbe dovuto, già nello stesso motu proprio, cancellare quelle preghiere oppure trasformarle in una invocazione al Padre per la riconciliazione col popolo ebraico unitamente ad un atto esplicito di pentimento per i peccati del passato per averlo definito deicida.
Le modifiche introdotte ora dal Papa, con una nota della Segreteria di Stato del 4 febbraio, mantengono la preghiera "pro judaeis" nel seguente testo : "Preghiamo per gli Ebrei. Il Signore Dio Nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini. Dio Onnipotente ed eterno, Tu che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo". Questa orazione, riflettendo e ribadendo la visione teologica della Dominus Iesus (2000) implica una regressione rispetto al testo ed alla teologia del messale del Vaticano II; chiede infatti che gli ebrei siano illuminati perché si convertano a Cristo. Essa ha suscitato reazioni vivissime da parte di alcuni tra i maggiori esponenti delle comunità ebraiche, reazioni che ci sembrano legittime. Noi non pensiamo alla conversione degli ebrei ma preghiamo perché siano fedeli all’Alleanza.
I semi, ormai ben germogliati, di un rapporto di amicizia con gli ebrei, fratelli maggiori, furono gettati dal Concilio Vaticano II nella Dichiarazione "Nostra Aetate" con parole inequivocabili. Ma ora trovano ostacoli in un Papa che guarda spesso all’indietro e che ha paura di continuare, in questo come in altri casi, sulla strada che lo Spirito ha indicato alla Chiesa.
Roma, 14 febbraio 2008 "Noi Siamo Chiesa"
"Noi Siamo Chiesa" fa parte del movimento internazionale We Are Church-IMWAC, fondato a Roma nel 1996. Esso è impegnato nel rinnovamento della Chiesa Cattolica sulla base e nello spirito del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). IMWAC è presente in venti nazioni ed opera in collegamento con gli altri movimenti per la riforma della Chiesa cattolica.
Da L' OSSERVATORE ROMANO, un articolo di Gianfranco Ravasi che difende la preghiera per la conversion degli ebrei:
Un giorno Kafka all'amico Gustav Janouch che lo interrogava su Gesù di Nazaret rispose: "Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi". Il rapporto tra gli Ebrei e questo loro "fratello maggiore", come l'aveva curiosamente chiamato il filosofo Martin Buber, è stato sempre intenso e tormentato, riflettendo anche la ben più complessa e travagliata relazione tra ebraismo e cristianesimo. Forse sia pure nella semplificazione della formula è suggestiva la battuta di Shalom Ben Chorin nel suo saggio dal titolo emblematico Fratello Gesù (1967): "La fede di Gesù ci unisce ai cristiani, ma la fede in Gesù ci divide".
Abbiamo voluto ricreare questo fondale, in realtà molto più vasto e variegato, per collocarvi in modo più coerente il nuovo "Oremus et pro Iudaeis" per la Liturgia del Venerdì Santo. Non c'è bisogno di ripetere che si tratta di un intervento su un testo già codificato e di uso specifico, riguardante la Liturgia del Venerdì Santo secondo il Missale Romanum nella stesura promulgata dal beato Giovanni XXIII, prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Un testo, quindi, già cristallizzato nella sua redazione e circoscritto nel suo uso attuale, secondo le ormai note disposizioni contenute nel motu proprio papale "Summorum Pontificum" dello scorso luglio.
All'interno, dunque, del nesso che unisce intimamente l'Israele di Dio e la Chiesa cerchiamo di individuare le caratteristiche teologiche di questa preghiera, in dialogo anche con le reazioni severe che essa ha suscitato in ambito ebraico. La prima è una considerazione "testuale" in senso stretto: si ricordi, infatti, che il vocabolo "textus" rimanda all'idea di un "tessuto" che è elaborato con fili diversi.
Ebbene, la trentina di parole latine sostanziali dell'Oremus è totalmente frutto di una "tessitura" di espressioni neotestamentarie. Si tratta, quindi, di un linguaggio che appartiene alla Scrittura Sacra, stella di riferimento della fede e dell'orazione cristiana.
Si invita innanzitutto a pregare perché Dio "illumini i cuori", così che anche gli Ebrei "riconoscano Gesù Cristo come salvatore di tutti gli uomini". Ora, che Dio Padre e Cristo possano "illuminare gli occhi e la mente" è un auspicio che san Paolo già destina agli stessi cristiani di Efeso di matrice sia giudaica sia pagana (1, 18; 5, 14). La grande professione di fede in "Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini" è incastonata nella Prima lettera a Timoteo (4, 10), ma è anche ribadita in forme analoghe da altri autori neotestamentari, come, ad esempio, il Luca degli Atti degli Apostoli che mette in bocca a Pietro questa testimonianza davanti al Sinedrio: "In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (4, 12).
A questo punto ecco l'orizzonte che la preghiera vera e propria delinea: si chiede a Dio, "che vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità", di far sì "che, con l'ingresso della pienezza delle genti nella Chiesa, anche tutto Israele sia salvo". In alto si leva la solenne epifania di Dio onnipotente ed eterno il cui amore è come un manto che si allarga sull'intera umanità: egli, infatti si legge ancora nella Prima lettera a Timoteo (2, 4) "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità". Ai piedi di Dio si muove, invece, come una grandiosa processione planetaria, che è fatta di ogni nazione e cultura e che vede Israele quasi in una fila privilegiata, con una presenza necessaria.
È ancora l'apostolo Paolo che conclude la celebre sezione del suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, dedicata al popolo ebraico, l'olivo genuino sul quale noi siamo stati innestati, con questa visione la cui descrizione è "intessuta" su citazioni profetiche e salmiche: l'attesa della pienezza della salvezza "è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti; allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati" (11, 25-27).
Un'orazione, quindi, che risponde al metodo compositivo classico nella cristianità: "tessere" le invocazioni sulla base della Bibbia così da intrecciare intimamente credere e pregare (è un'interazione tra le cosiddette "lex orandi" e "lex credendi").
A questo punto possiamo proporre una seconda riflessione di indole più strettamente contenutistica. La Chiesa prega per aver accanto a sé nell'unica comunità dei credenti in Cristo anche l'Israele fedele. È ciò che attendeva come grande speranza escatologica, cioè come approdo ultimo della storia, san Paolo nei capitoli della Lettera ai Romani (capitoli 9-11) a cui sopra accennavamo. È ciò che lo stesso Concilio Vaticano II proclamava quando, nella costituzione sulla Chiesa, affermava che "quelli che non hanno ancora accolto il Vangelo in vari modi sono ordinati ad essere il popolo di Dio, e per primo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale è nato Cristo secondo la carne, popolo in virtù dell'elezione carissimo a ragione dei suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili" (Lumen gentium, n. 16).
Questa intensa speranza è ovviamente propria della Chiesa che ha al centro, come sorgente di salvezza, Gesù Cristo. Per il cristiano egli è il Figlio di Dio ed è il segno visibile ed efficace dell'amore divino, perché come aveva detto quella notte Gesù a "un capo dei Giudei", Nicodemo, "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, e non lo ha mandato per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (cfr Giovanni, 3, 16-17). È, dunque, da Gesù Cristo, figlio di Dio e figlio di Israele, che promana l'onda purificatrice e fecondatrice della salvezza, per cui si può anche dire in ultima analisi, come fa il Cristo di Giovanni, che "la salvezza viene dai Giudei" (4, 22). L'estuario della storia sperato dalla Chiesa è, quindi, radicato in quella sorgente.
Lo ripetiamo: questa è la visione cristiana ed è la speranza della Chiesa che prega. Non è una proposta programmatica di adesione teorica né una strategia missionaria di conversione.
È l'atteggiamento caratteristico dell'invocazione orante secondo il quale si auspica anche alle persone che si considerano vicine, care e significative, una realtà che si ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un importante esponente della cultura francese del Novecento, Julien Green, che "è sempre bello e legittimo augurare all'altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano". Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi percorsi che l'altro adotta. Ma è espressione di affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri un orizzonte di luce e di vita.
È in questa prospettiva che anche l'Oremus in questione pur nella sua limitatezza d'uso e nella sua specificità può e deve confermare il nostro legame e il dialogo con "quel popolo con cui Dio si è degnato di stringere l'Antica Alleanza", nutrendoci "della sua radice di olivo buono su cui sono innestati i rami dell'olivo selvatico che siamo noi Gentili" (Nostra aetate, n. 4). E come pregherà la Chiesa nel prossimo Venerdì Santo secondo la liturgia del Messale di Paolo VI, la comune e ultima speranza è che "il popolo primogenito dell'alleanza con Dio possa giungere alla pienezza della redenzione".
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