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La Stampa - La Repubblica - Il Sole 24 Ore - L'Unità Rassegna Stampa
15.02.2008 In ricordo di un terrorista
trasformato in "venerato capo militare", "eroe dell'islam", "arbitro di cricket", uomo indignato di fronte alle "fosse comuni"

Testata:La Stampa - La Repubblica - Il Sole 24 Ore - L'Unità
Autore: Lorenzo Trombetta - Alberto Stabile - Ugo Tramballi - Robert Fisk
Titolo: «Hezbollah: guerra aperta ai sionisti - Nasrallah: Guerra aperta a Israele - L’uomo che rapiva il mondo»

Il "Partito di Dio", scrive Lorenzo Trombetta su La STAMPA del 15 febbraio 2008 "ufficialmente ha sempre condotto la sua lotta contro Israele all’interno dei confini libanesi o, se attaccato, puntando i propri razzi katiuscia soltanto contro obiettivi situati nello Stato ebraico".

Come si sa la versione ufficiale dei terroristi di Hezbollah è falsa: 
Mughniyeh era tra l'altro responsabile dell'attentato all'ambasciata israeliana a Buenos Aires nel 1994.
Inoltre, Hezbollah ha sempre attaccato Israele, prima nel e in territorio israeliano e nel  sud del Libano , dove Tsahal, in una situazione di guerra civile e di assenza di un effettivo potere centrale, era entrato per proteggersi dagli attacchi terroristici sferrati dall'Olp, poi, dopo il ritiro del 2000 esclusivamente in territorio israeliano, con il lancio di razzi katiuscia e i rapimenti.

Ecco il testo completo:


Tra Israele e Hezbollah è ormai guerra aperta e il Libano è sempre più spaccato in due. E’ quanto emerge dalla rabbiosa - quanto piovosa - giornata di ieri che ha visto le piazze di Beirut dividersi, ancora una volta, per commemorazioni dei rispettivi martiri eccellenti.
Da una parte, la maggioranza parlamentare antisiriana, scesa con decine di migliaia di seguaci nella centrale Piazza dei Martiri per il terzo anniversario dell’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri. Dall’altra, il movimento sciita Hezbollah, che nella periferia meridionale di Beirut, sua tradizionale roccaforte, ha radunato altre centinaia di migliaia di libanesi per i funerali di Imad Mughniyeh, l’alto responsabile della sicurezza del Partito di Dio ucciso in un attentato a Damasco martedì scorso.
Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, parlando dal palco del «Pala-Martire» (edificio allestito dopo la guerra del 2006) a pochi metri dal feretro di Mughniyeh, ha detto che Israele «ha superato i limiti» uccidendo Mughniyeh «fuori dai confini naturali del campo di battaglia». «Io dico ai sionisti: se volete questo tipo di guerra aperta, bene, che sia!», ha ammonito Nasrallah di fronte al ministro degli Esteri iraniano Manushehr Mottaki – per l’occasione giunto a Beirut da Teheran, via Damasco – e a una folla di sostenitori riparatisi dalla pioggia sotto un tappeto di ombrelli neri.
L’annuncio di Nasrallah segna un’importante svolta nella strategia del Partito di Dio che ufficialmente ha sempre condotto la sua lotta contro Israele all’interno dei confini libanesi o, se attaccato, puntando i propri razzi katiuscia soltanto contro obiettivi situati nello Stato ebraico.
Il leader sciita ha inoltre ammesso che Mughniyeh, la cui uccisione a Damasco è avvolta ancora nel mistero, ha svolto un ruolo chiave nella guerra con Israele del 2006 e nella preparazione dei miliziani del movimento «nelle future guerre che Israele potrebbe scatenare». Nasrallah ha quindi aggiunto: «Che il nemico sappia che ha commesso una grande follia uccidendo Mughniyeh. Il crimine dei sionisti ci fornisce nuovo impeto per continuare il nostro cammino su scala maggiore», ha proseguito il leader del Partito di Dio, ammonendo che la guerra del 2006 «continua».
Le parole infuocate del leader sciita sono state precedute da quelle altrettanto minacciose del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, lette in persiano dal ministro Mottaki durante i funerali: «Il sorriso di soddisfazione sulle facce dei criminali sionisti non rimarrà a lungo. Milioni di Mughniyeh sono pronti ad unirsi ai combattimenti contro gli occupanti», ha detto Ahmadinejad.
Mentre la bara del «martire combattente», avvolta dalla bandiera giallo-verde della milizia sciita e continuamente inondata di petali di fiori, veniva trasportata da una marea umana nei viali di Ruweiss, sobborgo della periferia meridionale di Beirut, risuonavano ormai lontane le accuse al fronte siro-iraniano che solo poche ore prima avevano invece riempito Piazza dei Martiri, ribatezzata ancora una volta «Piazza della Libertà».
Dalle 10 del mattino, migliaia di sostenitori del partito «il Futuro» del clan sunnita degli Hariri, quelli cristiani delle «Forze libanesi» e delle Falangi, quelli drusi del Partito social progressista di Walid Jumblatt, erano infatti affluiti da varie regioni del Libano, non solo per ricordare l’attentato che nel 2005 uccise l’ex premier Hariri e altre 22 persone, ma anche per ricordare che una parte del Libano non è con l’Iran o con la Siria, bensì con gli Usa e con i Paesi arabi del Golfo.

Nella cronaca di Alberto Stabile pubblicata da La REPUBBLICA si legge di Mughniyeh

ai loro occhi (dei membri di Hezbollah, ndr) era un venerato capo militare

ma  i servizi di sicurezza di mezzo mondo lo

consideravano un super terrorista

Le due "opinioni", per Stabile, sono altrettanto lecite. L'uccisione di Mughniyeh è invece per lui certamente un "delitto". Domanda infatti au esponente di Hezbollah

come spiega un delitto del genere in un paese blindato come la Siria?

Ecco il pezzo completo:

BEIRUT - Nel gigantesco hangar dei «Martiri illustri» la voce di Hassan Nasrallah vibra d´ira. La faccia, ingigantita dal maxischermo, è stravolta dall´emozione. «Sionisti - grida il capo degli Hezbollah - uccidendo Haji Imad (così lo chiama, con amichevole deferenza) a Damasco, voi avete superato i limiti naturali del campo di battaglia. Davanti a questo assassinio, e in merito al momento e al luogo in cui è avvenuto, io vi dico: se volete questo tipo di guerra aperta, che guerra a aperta sia». La folla, che segue da ore compostamente seduta sulle poltroncine di plastica verde la liturgia in memoria di Imad Mughnyeh, ha uno scatto imperioso e, alzando i pugni verso l´immagine al tempo stesso concreta e virtuale, magica e secolare, del leader supremo, comincia a scandire: «Morte a Israele-Morte all´America».
Si conclude così, con un´invocazione alla guerra contro lo stato ebraico (che lo stesso Nasrallah ha qualche minuto prima affermato non essersi mai conclusa neanche dopo l´agosto del 2006) una giornata da ricordare. Una di quelle giornate destinate a fotografare in un sola sequenza, dall´alba al tramonto, le tragiche, contorte e forse irrisolvibili vicende di un conflitto che da Damasco a Beirut, dal Sud del Libano a Teheran a Gerusalemme a Washington, si svolge in molti palcoscenici tuttavia legati da un´unica trama.
Mai come ieri, infatti, è parsa netta, forse incolmabile la distanza che separa le due anime libanesi. Prima che, a decine di migliaia, i seguaci del partito di Dio si riunissero nella trincea sciita della periferia Sud sommersa dal fango e dalle macerie per piangere, in compagnia del ministro degli Esteri di Teheran, Manusher Mottaki, l´uccisione di Mughnyeh; a pochi chilometri di distanza, in Piazza dei Martiri, cuore della Beirut interconfessionale, istituzionale ed affluente, a centinaia di migliaia si sono ritrovati i protagonisti del fronte anti-siriano (e anti-iraniano) per celebrare con l´occhio al presente, più che per ricordare il passato, il terzo anniversario dell´uccisione dell´ex premier Rafiq Hariri.
Una manifestazione, quella del "14 febbraio", come viene chiamato il movimento che da quella prima strage prese le mosse per costringere, infine, la Siria a cessare un´occupazione che durava da oltre 30 anni, organizzata come una prova di forza mentre il paese, paralizzato dallo scontro tra maggioranza e opposizione, scivola ineluttabilmente verso la guerra civile?
Se mai qualcosa merita di essere ricordato dei molti discorsi fatti di prima mattina davanti al mausoleo di Hariri, questa è la «mano tesa» all´opposizione, cioè agli Hezbollah, offerta da Saad Hariri, figlio, successore politico ed erede dell´impero economico fondato da Rafiq Hariri. Offerta cui Nasrallah dal suo maxischermo ha risposto diplomaticamente: «Se la mano tesa è offerta genuinamente non potrà che incontrare un´altra mano tesa».
Ma oggi è lì, in quella che i beirutini chiamano la «banlieau», che va in scena il dramma. La bara con il corpo di Mughnyeh, avvolta in un drappo di seta giallo, è come sospesa sulla platea sterminata. Sullo sfondo: grandi scritte inneggianti alla Jihad; due mani che si purificano con acqua limpida prima della preghiera; il cantore cieco del Corano che, intonando versetti da dietro ad un tavolo, sembra suonare lo strumento della sua voce sfiorando con le dita i tasti del Breil.
Ma c´è anche la superbia di rappresentare «uno stato nello stato», in quella banda militare che esegue l´inno degli Hezbollah, prima dell´inno libanese. Donne da una parte, uomini dall´altra, chierici inturbantati in un terzo settore alternano aggressività e commozione.
Al deputato Zakhi al Khatib chiedo quali prove hanno gli Hezbollah che Israele sia dietro all´assassinio di quello che ai loro occhi era un venerato capo militare ma che i servizi di sicurezza di mezzo mondo consideravano un super terrorista. «La firma è quella», risponde. Ma come spiega un delitto del genere in un paese blindato come la Siria? «E lei come spiega - dice al Khatib - l´11 settembre nella potentissima America?» Chiamato a confermare la sua fama di nemico n.1 d´Israele, Nasrallah rispetta la sua parte. E ancora una volta il suo discorso è di quelli destinati a suscitare non solo paure (Israele, che nega ogni coinvolgimento nell´uccisione di Mughnyeh ha messo in stato di allarme le sue ambasciate, i suoi confini e anche i suoi cittadini in viaggio all´estero) ma anche un qualche timore reverenziale. Cita Ben Gurion, infatti, Nasrallah, ovviamente a suo uso e consumo, attribuendogli la seguente frase: «Se Israele dovesse perdere una guerra, quella sconfitta segnerebbe la sua fine». Questo per dire che Israele la guerra l´ha persa nell´agosto del 2006 in Libano e che, dice in un crescendo degno di Ahmadinejad, «il sangue di Imad servirà a cancellare lo Stato ebraico». E poi, altro che secondo round! Per Nasrallah, la guerra d´estate «non si è mai interrotta. Noi continuiamo a combattere. Non è in vigore alcun cessate il fuoco nel Sud», dove è schierato il contingente dell´Unifil. Non solo guerra continua, dunque, ma anche guerra fuori dai confini d´Israele.
Poi, tra i cori che invocano la benedizione di Dio e gli slogan che minacciano vendetta, l´immagine di Nasrallah scompare. Naim Kassem, il N.2 del partito, dirige la preghiera funebre per Mughnyeh. La bara esce finalmente dall´hangar per ricevere, sotto una pioggia che non perdona, l´abbraccio della folla. Bandiere, stendardi, corone, ritratti, ombrelli e lacrime. Su un grande cartello sta scritto: «Hezbollah è il vincitore». E la gente al seguito sembra crederci.

Anche per Ugo Tramballi, sul SOLE 24 ORE Mughniyeh era

terrorista secondo i più, "eroe dell'Islam" per pochi

Hassan Nasrallah sarebbe invece infuriato e minaccioso con Israele perché

sportivamente sensibile come un arbitro di cricket  di fronte a un'imperdonabile scorrettezza del lanciatore

 Tramballi  presenta come una specie di nobile Saladino, preoccupato soprattutto del rispetto delle regole del conflitto, un uomo capace di mercanteggiare sui  pezzi dei cadaveri dei soldati morti.

L'apice della santificazione di Mughniyeh è raggiunto però da Robert Fisk nel suo pezzo pubblicato da L'
UNITA.
Fisk riprende  accuse propagandistiche a Israele e Sati Uniti ( Israele rapisce innocenti, pratica la tortura, George W. Bush è come Bin Laden), ma soprattutto è preoccupato di presentare le ragioni della rabbia del capo terrorista:

Nel corso della nostra conversazione si era arrabbiato, aveva sbattuto il pugno destro sul tavolo mentre condannava l’America per l’appoggio fornito ad Israele e per aver abbattuto un aereo civile iraniano sul Golfo persico nel 1988. Avevo già visto questo genere di rabbia, per la precisione nei cimiteri e nelle fosse comuni.

E' bene ricordare che Mughniyeh era indicato come reponsabile di due attentati antisemiti contro l'ambasciata israeliana e un centro ebraico nel 1994. Non si è certo trattato di un tragico incidente. Quel che voleva Mughniyeh era proprio la strage che di fatto avvenne.
Che un assassino razzista come lui  venga presentato come un uomo sconvolto dalla rabbia di fronte alle "fosse comuni" è vergognoso.

Ecco il testo completo.

Non erano stati gli occhi che mi fissavano né il modo in cui aveva preso una mela davanti a me e l’aveva spaccata a metà con decisione e con chirurgica precisione. Era stata la stretta di mano vigorosa come una morsa, il modo in cui mi aveva fatto dolere le dita. «Imad Mougnieh», aveva detto come se volesse dimostrarmi che non era in fuga, che non aveva paura di usare il suo vero nome.
Sì, mi aveva detto che era un «membro della Jihad islamica».
Io sapevo benissimo che era il capo dell’organizzazione e che aveva organizzato il sequestro di moltissimi occidentali a Beirut - ma si trovava a Teheran, al piano attico di un albergo di lusso. Al sicuro dai suoi nemici - ma probabilmente si sentiva al sicuro anche martedì sera a Damasco quando è salito in auto.
Mougnieh era un nemico dell’America, un nemico di Israele. Che Israele abbia negato ogni responsabilità in relazione all’attentato che lo ha ucciso sarà considerato dai seguaci di Mougnieh un semplice gioco di parole e poi Mougnieh era consapevole dei rischi che correva. Suo fratello è stato assassinato a Beirut da una bomba diretta in realtà a lui e il suo disprezzo per il capo della Cia di Beirut, ucciso dalla Jihad islamica dopo essere stato sequestrato nel 1984, era la prova che Mougnieh era in guerra con gli Stati Uniti.
William Buckley della Cia era stato rapito, mi aveva raccontato Mougnieh, perché controllava il governo libanese filo-americano del presidente Amin Gemayel, il cui esercito aveva arrestato migliaia di musulmani civili e membri della milizia, e ne aveva torturati alcuni a morte.
Ero andato a trovare Mougnieh per pregarlo di far liberare il mio intimo amico e collega Terry Anderson, responsabile dell’ufficio di Beirut dell’Associated Press, rapito nel 1985 e successivamente trattenuto come ostaggio per quasi sette anni in celle sotterranee e in minuscole grotte. Mougnieh aveva cercato di rassicurarmi: «Mi creda, signor Robert, lo trattiamo meglio di come lei tratta se stesso». Avevo scrollato le spalle. Non ci avevo creduto. Erano cose che avevo già sentito prima. Sapevo benissimo come rispettavano gli innocenti che avevano crudelmente privato della libertà, quella stessa libertà che invece chiedevano per i loro amici e seguaci.
Forse Mougnieh se ne era accorto. Quando gli avevo chiesto di Terry - eravamo nell’ottobre del 1991, un mese prima che fosse liberato - Mougnieh mi aveva piantato gli occhi addosso. Quegli occhi mi erano rimasti puntati in faccia per tutto il tempo tranne quando rivolgeva la parola agli amici che si trovavano nella stanza con noi. Alle sue considerazioni faceva precedere le prime parole del Corano - esattamente come i messaggi e i video degli ostaggi della Jihad islamica. Questo era l’uomo che aveva sequestrato Terry e che avrebbe rapito anche me se gli occupanti delle auto scure che mi avevano seguito sulla Corniche a Beirut fossero riusciti a mettermi le mani addosso. Era un uomo assolutamente incapace di scendere a compromessi.
«Prendere degli innocenti come ostaggi è sbagliato», aveva ammesso con mio grande stupore. «È un atto malvagio. Ma è una scelta e non abbiamo alternative. È una risposta ad una situazione che ci è stata imposta - se parliamo di ostaggi innocenti, questa domanda non va fatta solo a noi considerato che Israele ha sequestrato e incarcerato 5.000 civili libanesi nel sud del Libano nel campo di Ansar». In realtà Israele aveva incarcerato questi uomini ad Ansar dopo l’invasione del 1982 e Amnesty International aveva condannato le condizioni in cui vivevano i prigionieri. «La maggior parte delle persone detenute ad Ansar erano innocenti», aveva aggiunto Mougnieh - senza dire cosa intendeva per «innocenti» - «per non parlare dell’invasione e dell’uccisione di molta gente».
Mougnieh, libanese di nascita, era uno uomo con una spaventosa fiducia in se stesso, un uomo che credeva in modo assoluto in quello che faceva, caratteristiche queste che aveva in comune con Osama bin Laden e - lasciatemelo dire con franchezza - con il presidente George W. Bush. Si diceva che la Jihad islamica torturasse i nemici. E lo stesso dicasi per Al Qaeda. E come ben sappiamo lo fa anche l’esercito di Bush.
Mougnieh - e anche in questo caso bisogna parlare apertamente - era un esponente apprezzato, rispettato e di primo piano dell’apparato di sicurezza dell’Iran. La «Jihad islamica» era una organizzazione satellite di Hezbollah, i cui leader ora vorrebbero dimenticare - magari persino negare - le responsabilità di Hezbollah in ordine ai sequestri di persona. In questo senso Mougnieh era un uomo del passato, viveva da pensionato a Damasco, più al sicuro lì, secondo gli iraniani, che riverito e servito in una stanza d’albergo a Teheran.
Ma ai suoi tempi, da agente dei servizi segreti, era stato un uomo potente. A causa delle sofferenze che aveva causato a Terry avrei dovuto odiarlo. Ma non lo odiavo. Nel corso della nostra conversazione si era arrabbiato, aveva sbattuto il pugno destro sul tavolo mentre condannava l’America per l’appoggio fornito ad Israele e per aver abbattuto un aereo civile iraniano sul Golfo persico nel 1988. Avevo già visto questo genere di rabbia, per la precisione nei cimiteri e nelle fosse comuni. Dal momento che si era alleato con l’Iran, la sua passione era autentica.
Avevo implorato ancora un volta che si attivasse per la liberazione di Terry. Non provava alcuna compassione per il mio amico? E anche in questa circostanza i suoi occhi non mi avevano abbandonato un attimo. «Naturalmente sarebbe molto facile rispondere a questa domanda se lei fosse la madre o la moglie di uno degli ostaggi di Khiam o se fosse la madre o la moglie di Terry Anderson. I miei sentimenti per le sofferenze di Terry Anderson sono gli stessi che provo per le sofferenze degli ostaggi libanesi di Khiam - o che provano la madre o la moglie di Terry Anderson». Amnesty International aveva condannato anche le torture di Khiam.
Alla fine Mougnieh aveva finito per indossare i panni del più famoso personaggio dei telefilm americani: il «nemico numero 1» dell’America. Gli Stati Uniti certamente non verserebbero una lacrima se venissero a sapere che Mougnieh è stato assassinato da Israele. L’America voleva Mougnieh vivo o morto - e per le solite ragioni, non ultima delle quali la sua partecipazione nel dirottamento del volo 847 della Twa diretto da Atene a Roma nel giugno 1985. Mougnieh era uno degli uomini armati a bordo dell’aereo e aveva chiesto il rilascio di 17 membri della Jihad islamica detenuti nel Kuwait e di 753 libanesi sciiti detenuti in Israele.
Dopo aver sorvolato a lungo il Mediterraneo l’aereo - quasi tutti i passeggeri erano americani - aveva deciso di atterrare a Beirut dove un americano, Robert Stetham, era stato ripetutamente e brutalmente colpito con una mazza sul volto e sul corpo prima di essere ucciso con alcuni corpi di arma da fuoco e gettato sulla pista dinanzi alle telecamere di tutto il mondo. Avevo visto il suo corpo all’American University Hospital, la faccia grigia, i capelli scarmigliati, accanto al cadavere di una palestinese paffutella uccisa in uno scontro a fuoco tra uomini della milizia sciita e dell’Olp.
Gli uomini dello sciita Amal fedeli a Nabih Berri - oggi presidente filo-siriano del Parlamento libanese - avevano fatto irruzione sull’aereo, avevano caricato su diverse auto i dirottatori e la gran parte dei passeggeri ed erano spariti nella periferia meridionale di Beirut. Tutti i passeggeri erano stati rilasciati, ma Mougnieh e i membri del suo commando erano stati spediti segretamente a Damasco - e Mougnieh era spuntato nuovamente fuori al comando di un gruppo di uomini che aveva dirottato un aereo del Kuwait e aveva avanzato richieste analoghe e ucciso con pari ferocia un passeggero: un vigile del fuoco kuwaitiano all’aeroporto di Nicosia.
Chi di spada ferisce, dicono, di spada perisce.
E così siamo arrivati all’attentato di Damasco, non lontano da una scuola iraniana e nei pressi della sede dei servizi segreti siriani, con l’esplosivo piazzato sotto l’auto di Mougnieh e il corpo tirato fuori dalla vettura dai poliziotti.

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