Una vicenda conclusasi da tempo con la fine degli abusi e con la punizione dei responsabili come quella di Abu Ghraib merita, con il pretesto di un film ad essa dedicato, quasi un'intera pagina sulla STAMPA del 13 febbraio 2008.
Invece la vicenda appena venuta alla luce del medico iracheno che procurava ad al Qaeda i disabili per gli attentati, che appare per altro ben più grave, merita soltanto un brev e trafiletto nella stessa pagina, che rischia di passare inosservato.
Ecco il testo dell'articolo su Abu Ghraib
Un’«inchiesta sulla morte» per scoprire, attraverso dodici fotografie che hanno fatto il giro del mondo, che cosa è realmente accaduto nella prigione americana di Abu Ghraib, poco distante da Baghdad. Per la prima volta, nel film di Errol Morris «Standard operating procedure», presentato ieri in anteprima mondiale alla Berlinale, parlano i soldati responsabili delle torture. Non per pentirsi o per chiedere perdono, ma semplicemente per raccontare che cosa li ha spinti in quel baratro di violenza. Sono facce di persone normali, donne e uomini, che spiegano di aver eseguito degli ordini e di aver sorriso davanti all’obiettivo solo perché gli veniva chiesto di farlo.
Anche se la foto li ritraeva accanto al cadavere martoriato di un uomo, oppure vicino a un cumulo di corpi nudi costretti in posizioni umilianti: «Ho impiegato due anni per convincere i militari a parlare davanti a una cinepresa, erano persone che avevano bisogno di raccontare la loro storia e io ho avuto la forza di starle a sentire. Sembra incredibile, ma dai loro racconti emerge una dimensione morale del pensiero, in totale contrasto con le azioni. Non credo che siano gli unici responsabili, ascoltandoli mi sono chiesto che cosa avrei fatto in quella stessa situazione. E’ facile prendere le distanze e giudicare. La mia sensazione è che ad Abu Ghraib fossero tutti in trappola, le povere vittime, naturalmente, ma anche i soldati».
Due ore piene di ricostruzioni strazianti seguendo sempre, puntigliosamente, la falsariga di fotografie note come quella dell’uomo incapucciato in piedi sulla scatola, legato ai fili elettrici: «L’impressione è che i soldati coinvolti siano stati puniti non tanto per quello che hanno fatto, ma perché hanno scattato foto imbarazzanti per il governo americano. Penso che ci sia dell’altro, che dietro le sbarre di Abu Ghraib sia stata attivata una grande macchina per occultare altre prove del comportamento dell’esercito Usa».
L’obiettivo del film, dice Morris, è prima di ogni altra cosa la ricerca della verità. Per questo sequenze come quella dei prigionieri aggrediti da cani, sono state ricreate con i meccanismi della fiction, una forzatura su cui qualcuno ha già avuto da ridire: «Ho cercato di raccontare le cose nel modo in cui si sono svolte, per un cineasta la verità è qualcosa che s’insegue, tentando di avvicinarsi il più possibile». Sul grande schermo le formiche che divoravano i corpi dei detenuti vengono riprese a distanza ravvicinata e diventano terrorizzanti, l’acqua che scorre sui pavimenti lividi si ricollega alle cronache delle docce gelate, le scie di sangue riportano alle scene dei cadaveri impacchettati e abbandonati tra le mura del carcere: «Facevamo quello che ci veniva chiesto di fare» ripetono i militari inquadrati sempre in primo piano. E ancora: «... ci dissero che un prigioniero era morto per arresto cardiaco». E anche: «Ci avevano ordinato di rasarli, mentre lo facevo mi è venuto in mente di mettere un pezzo dei "Metallica"». Alla fine si ricorda che da quella prigione, da quelli che venivano definiti interrogatori, «non è stata ottenuta nessuna informazione su Saddam Hussein».
Oggi alla Berlinale un convegno si occuperà del caso, con il regista ci saranno rappresentanti di sopravvissuti alle torture e delle associazioni che si occupano di diritti umani: «La mia reazione davanti a quelle foto è stata di orrore totale, come assistere alla materializzazione di un incubo. Quello che è avvenuto in quel carcere è stata una tragedia per le vittime, per quelli che sono morti, ma anche per l’intera umanità». Secondo Errol Morris le immagini hanno segnato un punto di non ritorno nella coscienza del popolo americano: «Non siamo candidi come gigli, conosciamo la nostra storia, e la guerra in Iraq è un dramma da cui non riusciamo ad uscire. Eppure quegli scatti ci hanno rubato per sempre l’innocenza, spero almeno che il film serva ad aprire una riflessione profonda sulla situazione della nostra società».
Il breve articolo sul medico-terrorista
LONDRA
E’ stato arrestato a Baghdad il vicedirettore dell’ospedale psichiatrico al-Rashad, dove per un certo tempo erano state ricoverate le due donne «down» che lo scorso primo febbraio si sono fatte esplodere in due mercati della capitale, uccidendo un centinaio di persone.
Secondo indiscrezioni riportate dal «Times», nello studio del medico - perquisito per tre ore dalle forze di sicurezza irachene e dai militari Usa - sono stati sequestrati documenti che proverebbero che il medico «era al servizio di Al Qaeda, con il compito di reclutare donne con problemi psichici da usare in attentati suicidi». Nella sua corrispondenza da Baghdad, l’inviato del «Times» Martin Fletcher racconta di aver visto le fotografie delle teste tagliate delle due kamikaze: in uno dei volti i tratti «down» sono evidentissimi, mentre nell’altro si presentano in modo «meno pronunciato».
Il giornale non fa il nome del medico arrestato ma sottolinea che a dicembre il direttore dell’ospedale, Ibrahim Muhammad Agel, è stato ucciso a Baghdad, in apparenza perché «si rifiutava di cooperare con al Qaeda». Ufficiali americani hanno detto al «Times» che gli attentati del primo febbraio non sono i primi perpetrati da kamikaze disabili: al Qaeda avrebbe fatto già ricorso a terroristi mentalmente handicappati in almeno una mezza dozzina di casi.
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