Da Il GIORNALE del 12 febbraio 2008, un articolo di Fausto Biloslavo :
Pena di morte per sei terroristi eccellenti di Al Qaida rinchiusi nella prigione speciale americana di Guantanamo, a Cuba. Tutti coinvolti nell’attacco dell’11 settembre devono rispondere della strage di circa tremila innocenti. Il New York Times ha rivelato ieri che per i sei detenuti i procuratori militari chiederanno la sentenza capitale. Poche ore dopo il Pentagono ha confermato. Tra i sei Khalid Sheikh Mohammed e Ramzi bin al Shibh. Il primo - soprannominato “il cinghialone” dalla Cia che gli dava la caccia - ha ammesso, durante gli interrogatori, di «avere organizzato l’operazione 11 settembre dall’A alla Z». Il secondo era il suo braccio operativo, che si occupava della parte logistica e manteneva i contatti con Osama bin Laden.
Rischiano l’iniezione letale anche altri quattro terroristi. Uno dei più noti è il prigioniero “063” di Guantanamo, che doveva essere il ventesimo dirottatore. Si chiama Mohammed al-Qahtani e qualche settimana prima dell’11 settembre aveva tentato di entrare negli Usa illegalmente, ma era stato respinto. Il suo obiettivo era il volo United Fligth 93, che avrebbe dovuto schiantarsi sulla Casa Bianca. Invece la rivolta dei passeggeri lo fece precipitare nelle campagne della Pennsylvania. Gli americani hanno catturato Al Qahtani in Afghanistan, nella roccaforte di Al Qaida a Tora Bora, dopo il crollo del regime talebano.
Un altro è Ali Abd al-Aziz Ali, nipote di Sheik Mohammed, l’architetto dell’11 settembre: ha aiutato ad organizzare l’attacco. E il suo braccio destro, Mustafa Ahmed al-Hawsawi, ha procurato soldi, carte di credito e abiti occidentali ai dirottatori. Infine l’ultimo che potrebbe vedersi infilare l’ago dell’iniezione letale è Walid bin Attash, uno yemenita che in Afghanistan aveva selezionato e addestrato alcuni dei dirottatori kamikaze.
La decisione di accogliere e respingere la richiesta dell’accusa spetta all’alto magistrato, Susan J. Crawford, ex giudice della Corte d’appello militare. Il problema è che per arrivare a un’eventuale condanna capitale ci vorranno anni e la procedura appare complicata ed irta di ostacoli. Lo stesso carcere di Guantanamo è sotto accusa da mezzo mondo e c’è chi, anche all’interno dell’amministrazione Usa, vuole chiuderlo.
Inoltre sarà difficile che una Corte civile, che dovrebbe convalidare la sentenza, accetti le confessioni degli imputati ottenute con metodi non proprio ortodossi. Sheik Mohammed è stato sottoposto all’annegamento simulato, una specie di tortura soft. Anche Bin al Shibh e gli altri che potrebbero essere condannati a morte non sono stati interrogati con i guanti.
Debra Burlingame, sorella di uno dei piloti dei voli civili sgozzati l’11 settembre, non ha dubbi: «Se 3000 morti non sono sufficienti per la pena capitale, perché dovremmo averla?».
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E uno di Gian Micalessin:
In guerra mai dire mai. Chi ancora pochi mesi fa descriveva l’Irak come il nuovo Vietnam e liquidava come una montatura la «rimonta» studiata dal generale David Petraeus farà bene a leggere le lettere ritrovate nei covi di due comandanti iracheni di Al Qaida. Da quelle righe, scritte tra luglio e ottobre, emerge la disperazione di chi sperimenta sulla propria pelle la controffensiva statunitense.
Scattata come un’idrovora a primavera la «rimonta» di Petraeus ha già risucchiato, a metà estate, molta dell’acqua in cui nuotano i terroristi trasformando le loro roccheforti in trappole per topi. Il primo a capirlo è un anonimo comandante di quella provincia di Anbar considerata un tempo il santuario di Al Qaida. «Siamo in una crisi straordinaria», ammette a luglio lo sceicco descrivendo gli effetti della strategia che sta falcidiando il suo movimento. La chiave di volta del successo americano è la campagna di reclutamento che spinge i capi tribali ad allearsi con gli americani. Quella campagna ammette il comandante «genera panico e paura e toglie la voglia di combattere». Il risultato è un totale collasso della struttura terrorista. «Americani e apostati hanno lanciato la loro campagna e noi ci siamo ritrovati circondati, incapaci di muoverci e organizzarci», spiega il capo alqaidista descrivendo la propria débâcle. La crisi tocca l’apice quando lui e i suoi uomini realizzano di aver perso il controllo della provincia. «Ci siamo ritrovati in uno stato di debolezza e sconfitta psicologica, e questo ha diffuso panico, paura e scarsa voglia di combattere. Il morale è inesistente e la struttura dell’organizzazione al collasso». Anche i volontari stranieri sperimentano grosse difficoltà.
Spesso non riescono a raggiungere le unità alqaidiste e quando ce la fanno restano delusi. Nella lettera, a tratti grottesca, il comandante descrive l’amarezza degli aspiranti kamikaze stranieri spinti fin lì dal sogno di far fuori «20 o 30 infedeli in un colpo solo» e costretti a far i conti con una situazione in cui è spesso impossibile raggiungere l’obiettivo. Attesa e incertezza, ammette il rapporto, spingono molti volontari ad abbandonare tutto e tornare a casa. Alla fine di quella cronologia della sconfitta l’emiro consiglia di mollare tutto e convogliare il grosso delle forze nelle province di Diyala e in quella di Bagdad. Un consiglio seguito alla lettera visto che gran parte delle operazioni di Al Qaida sono oggi concentrate nella capitale e a Diyala. Il cambio di fronte non sembra comunque aver ribaltato la situazione.
Il testamento in 16 pagine scritto a fine ottobre da Abu Tariq - emiro dei settori della zona di Balad a nord della capitale - non è più promettente. Lo sconsolato sceicco, comandante a suo tempo di oltre 600 uomini, ammette in quelle ultime volontà di poter contare ormai soltanto su 20 fedeli. «Siamo stati ingannati e traditi da quelli che consideravamo fratelli - annota l’emiro - ma quelli erano soltanto ipocriti, bugiardi e traditori pronti al momento giusto a unirsi a chi paga di più».
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