Le lettere del sabato Irene Dische
Traduzione di Roberto Serrai
Feltrinelli Euro 5,50
Tra due fette di felicità c’è una grossa fetta di infelicità per Peter, il piccolo protagonista del racconto di Irene Dische che in italiano non ha conservato il titolo originale che sarebbe “Tra due fette di felicità”. Né poteva essere altrimenti per un bambino ebreo tra Budapest e Berlino negli anni tra il 1933 e il 1945. Anche se nel libro è la felicità a prevalere, nonostante tutte le sfortune, perché Peter resta sempre protetto dall’affetto dei famigliari. Un breve romanzo di tre generazioni: un nonno, il dottor Nagel, medico all’antica, poco espansivo e ligio alle regole, ma che si rivelerà molto simile allo scapestrato figlio Lazlo; il figlio Lazlo appunto, giovane diplomatico con una irrefrenabile propensione all’ottimismo che entra nel racconto come il personaggio di un’operetta viennese, e con la sua simpatia incanta donne e uomini; e il figlio di lui, Peter, nel quale i giovani lettori, per i quali il libro è stato scritto, potranno riconoscersi, ritrovare le paure, le piccole gioie, i desideri dell’infanzia.
Lazlo ama provare la felicità in mezzo al pericolo. Trascina il figlioletto con sé – sul Danubio che sta per rompere gli argini durante un’alluvione come in una Berlino anteguerra ribollente di nazisti, di vita mondana e di violenza. Lo porta al cinema, ai ricevimenti, perfino in un night delle SS. Con osservazioni acute e toni lievi Irene Diesche ci racconta come percepisce il Terzo Reich un bambino, che nemmeno sapeva di essere ebreo. La passione di Lazlo per il rischio era costata la vita alla madre di Peter, morta in un incidente stradale perché il marito guidava a velocità eccessiva. Lazlo alla fine è più prudente. “Io sono nato con la camicia. Ma di te non sono ancora sicuro da questo punto di vista”, gli dice. E quando la situazione diventa troppo scottante rimanda il figlio in Ungheria, a casa del nonno, in una piccola e ordinata cittadina, mentre lui continua i suoi giochi d’azzardo coi nazisti, dà passaporti falsi agli ebrei che vogliono lasciare Berlino e viene condannato a morte prima ancora che Hitler occupino l’Ungheria nel 1944.
Il racconto che scorreva veloce, sincopato, nelle giornate berlinesi, diventa più lento e cadenzato in quelle passate nella casa del nonno, scandite da riti sempre uguali: colazione alle sette, il pasto principale all’una, il tè con uno spuntino alle cinque nella biblioteca, una cena leggera alle otto. Alle dieci tutte le luci nella casa venivano spente, tranne quella nella stanza del Dottor Nagel. Dopo la vita travolgente di Berlino quella nella casa del nonno ha un solo momento eccitante: l’arrivo delle lettere del padre. Lazlo aveva promesso al figlio di scrivergli ogni settimana e puntualmente tutti i sabati, senza eccezione, arriva il postino, che però aveva l’ordine di consegnare la lettera al maggiordomo, che a sua volta la portava nello studio del nonno. Finalmente, all’ora del tè, Peter riceveva il permesso di prenderla e di aprirla. Per tutta la settimana poi lavorava alla stesura della risposta, sforzandosi di scrivere qualcosa di altrettanto allegro e spensierato del padre, e siccome c’era poco da raccontare doveva inventarsi le cose e scrivere di ospiti che non c’erano: altrimenti il solo argomento restava la maestra privata, la noiosissima Fraulein Strecker, “che non doveva inventarsi per niente perché esisteva come esisteva la settimana”. Fino al giorno in cui scopre che il padre da tempo era stato ucciso dai nazisti. Come tutti i romanzi di Irene Dische anche questo racconto vive dell’avvicendarsi della grande follia della Storia e delle piccole follie degli uomini. Le persone agiscono sullo sfondo cupo di avvenimenti reali ai quali l’autrice accenna appena e che visti dalla prospettiva di un bambino restano inscrutabili e misteriosi.
Vanna Vannuccini
La Repubblica