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Il Giornale Rassegna Stampa
11.02.2008 Donne e islam
Ayaan Hirsi Ali, Taslima Nasreen e le vittime della violenza fondamentalista in Gran Bretagna

Testata: Il Giornale
Data: 11 febbraio 2008
Pagina: 13
Autore: Maria Grazia Coggiola - Massimo M. Veronese - Erica Orsini
Titolo: «Taslima, la Rushdie bengalese. Sonia Gandhi, salvami tu - E Ayaan chiede protezione a Sarkozy - Violenza islamica in Inghilterra: vittme ogni anno 17mila donne»
Dal GIORNALE dell''11 febbraio 2008, un articolo sulla scrittrice bengalese Taslima Nasreen:

Ha una voce fievole e tremolante Taslima Nasreen mentre parla al telefonino dalla località segreta, nella periferia di New Delhi, in cui è stata confinata dalle minacce dei fondamentalisti islamici. La scrittrice femminista del Bangladesh, che ha fatto dell’India la sua seconda patria, è stata costretta a lasciare la sua casa di Calcutta lo scorso novembre dopo le violente proteste dei gruppi estremisti musulmani. Come la tennista Sania Mirza e il pittore Husain anche lei è vittima dell’intolleranza e del fanatismo religioso che si annida nella «minoranza» dei 120 milioni di musulmani. Ora vive sorvegliata a vista dalle forze di sicurezza, nell’imbarazzo del governo che teme di scontentare gli islamici del Paese. In questa intervista a Il Giornale Taslima rivolge un appello disperato all’opinione pubblica indiana perché convinca il governo a rinnovarle il visto e a lasciarla ritornare a Calcutta. E allo stesso tempo, attraverso un giornale italiano, chiede intercessione a Sonia Gandhi, l’italiana che guida il partito del Congresso e che è la donna più potente della politica indiana.
Taslima, lei di recente è stata ricoverata in ospedale. Come va la sua salute?
«Sono stata ricoverata per quattro giorni, la pressione era salita moltissimo. Questa situazione mi ha molto provata psicologicamente e fisicamente. Diciamo che i medici mi hanno detto di non stressarmi...».
Vede qualcuno?
«No, chi mi protegge non me lo permette, ma posso ricevere telefonate. Se ho bisogno di qualcosa, loro me lo comprano. Vivo isolata, come un’appestata e senza le mie cose a farmi compagnia. Quando ho lasciato la casa di Calcutta avevo con me solo il computer».
Si può dire che vive come in prigione?
«Ufficialmente non la chiamano così, ma di fatto lo è. Sono come arresti domiciliari, in una vita senza sole».
Ha paura di parlare?
«No, non ho mai avuto paura e non ne voglio avere. Ma queste minacce sono una tortura per me. E solo perché dico solo la verità».
I giornali scrivono che il governo le ha rinnovato il visto per altri sei mesi.
«L’unica cosa che so è che il mio visto scade il 17 febbraio e che non rimangono molti giorni».
Pensa che alla fine lo concederanno?
«Il governo me lo ha promesso. Il ministro degli Interni ha detto che è tradizione dell’India garantire rifugio a chi è esiliato. Spero sia di parola».
E se non fosse possibile tornare a Calcutta?
«Calcutta è la mia casa, lì ci sono le mie radici. Non voglio tornare in Europa dove ho passato anni in esilio, come un’estranea. È assurdo fuggire dalla propria vita solo perché c’è chi non vuole che tu parli».
Perché non andrà a ritirare il premio Simone de Beauvoir a Parigi?
«Se vado via non mi fanno tornare più. Sarkozy si era detto disponibile a portarmi il riconoscimento quando è venuto a Delhi. Ma le autorità non lo hanno permesso».
Forse lo hanno fatto proprio per le minacce islamiche.
«Però il risultato è che hanno vinto loro. Bisognava prendere provvedimenti contro di loro, non contro di me».
È vero che ha eliminato alcune pagine del suo libro considerate offensive?
«Sono stata obbligata a tagliare quelle parti. Io sono contro la censura. Un conto è se taglio di mia volontà alcune frasi, un conto è se lo devo fare perché me lo ordinano. Ho chiesto: perché devo farlo in una democrazia laica come l’India? Ma il governo mi ha risposto che l’unico modo che avevo di restare a casa mia era non urtare i sentimenti altrui. Hanno fatto una pressione tremenda su di me e mi sono arresa. Ma evidentemente non è bastato».
Che può fare per lei l’opinione pubblica internazionale?
«Per ora niente. In questo Paese ci sono molte persone che hanno simpatia per me ed è per questo che faccio appello al cuore degli indiani. Se la gente si mobilita, il governo si muoverà».
Ha fatto passi ufficiali? Cercato contatti a livello di governo?
«Ho scritto a Sonia Gandhi per chiedere la cittadinanza, so che è al corrente della mia situazione e so che è una donna laica, moderna. Approfitto del fatto che siete un giornale italiano come Sonia per farle un appello. Si renda conto in che stato di prostrazione mi trovo, privata di ogni diritto, isolata da tutti, nel terrore di uscire di casa. Io non ho fatto del male a nessuno, la prego, mi restituisca la vita».

Un articolo su Ayaan Hirsi Ali

Non è la prima volta che Ayaan chiede aiuto. Con un sorriso triste, ma con lo sguardo di una principessa guerriera. «Non mi aspetto nulla, ma la solidarietà che ho avuto dai francesi mi ha convinto a chiedere asilo politico a Parigi». Ayaan Hirsi Ali, ha 38 anni, ma è una vita che scappa. Figlia di un signore della guerra, infibulata a cinque anni, esiliata in Kenya, sedici anni fa si rifugiò in Olanda per sfuggire a un matrimonio combinato. E lì cominciò il suo inferno. «Hirsi, la prossima sei tu» c’era scritto sul foglio affondato, insieme con la lama di un coltello, nel cuore del regista Theo Van Gogh, ucciso da un fanatico musulmano per aver girato un film, Submission, sull’orrore della vita delle donne nel mondo islamico. E la protagonista del film era lei. «Non ho paura di morire - disse - in Somalia si fa presto ad abituarsi alla morte». Eletta deputato, tre anni appena ed è ancora fuga. Stati Uniti, perché per il governo olandese la sua scorta è uno spreco, perché, dicono, un po’ se le cerca. Definisce quella islamica una «cultura retrograda» e Maometto un «perverso tiranno», dice che l’Islam altro non è che un «nuovo fascismo». Torna di nuovo in Olanda per vivere blindata in un posto segreto: «Ma la mia situazione è peggiorata, sono sempre più in pericolo». Ora chiede aiuto a Parigi e protezione all’Europa. Giovedì sera sarà a Bruxelles, dove una sessantina di deputati europei sta cercando di raccogliere le 393 firme necessarie per chiedere al Parlamento europeo i soldi per proteggere la sua incolumità.
Ayaan non è l’unica donna in fuga, ce ne sono tante come lei. C’è Marjanne Satrapi, iraniana, che già vive a Parigi, i suoi fumetti sono il demonio in persona per gli ayatollah, ma il suo Persepolis è diventato un film che ora punta all’Oscar «anche se in Iran forse non tornerò mai più». C’è Shabanna Rehmann, cabarettista, pakistana, rifugiata in Norvegia, dove i mullah del posto le scrivono sui muri tutto il loro odio. Ma lei, che usa il burka come costume di scena, se la ride: «Senza i mullah non avrei mai fatto carriera così...». C’è Deeyah, metà afghana e metà pakistana, che fa la cantante, la chiamano la Madonna musulmana e vive per l’Europa circondata da guardie del corpo. Gliel’hanno già giurata: «Ma ci vuol altro per spaventarmi».
E poi Sania Mirza, tennista, indiana come Taslima Nasreen. Timida, miope con la coda di cavallo e l’anellino alla moda al naso, ma con un carattere d’acciaio. Ha appena deciso che non giocherà mai più in patria. Un piede appoggiato per caso accanto alla bandiera indiana le è costato l’accusa di vilipendio e il rischio galera. I suoi vestitini corti, la sua passione per la musica hip hop, i suoi spot tv l’avevano già condannata alla fatwa. Adesso ha risposto con un rovescio. A tutta mano, di quelli che lasciano il segno.

E uno sulle violenze sulle donne musulmane in Gran Bretagna:


Rapite e costrette a sposarsi con un estraneo. Oppure stuprate, torturate, se non addirittura brutalmente uccise dai loro stessi familiari. Secondo gli ultimi dati forniti ieri dall’Association of Chief Police Officers, sono più di 17mila le donne che in Gran Bretagna subiscono violenze di ogni tipo per una questione «d’onore». Un esercito di vittime senza più volto né nome che molto spesso non sono neppure donne adulte, ma adolescenti e bambine, trattate come merce di scambio, figlie di un dio minore. Un popolo di femmine che non hanno più alcun valore nel momento in cui non vogliono prendere marito o vengono ripudiate o peggio ancora si rifiutano di obbedire al volere di padri, fratelli, mariti. Le loro madri vengono dal Bangladesh, dall’India o dal Pakistan, ma molte di loro sono nate e cresciute in Gran Bretagna, alcune sono inglesi sposate a un musulmano. I casi più gravi riguardano bimbe di solo undici anni spedite all’estero per matrimoni combinati. E una percentuale del 15% coinvolge anche uomini e ragazzini. Le cifre ufficiali relative ai matrimoni forzati sono molto più basse, ma secondo la stessa polizia quei numeri sono soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno assai più drammatico e sfuggente.
E la crisi è ormai così devastante da aver indotto il ministero degli Esteri e del Commonwealth a chiedere un intervento diretto dello staff consolare britannico in Pakistan, India e Bangladesh per individuare e offrire concreto supporto a tutte quelle donne con cittadinanza inglese che denunceranno di essere state costrette a sposarsi. Un’azione senza precedenti che prende corpo proprio mentre nel Regno Unito infuriano le polemiche sulle scomode dichiarazioni dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams sulla «inevitabilità» della sharia in Gran Bretagna. Williams, accusato dai media di codardia e anche di tacito supporto al terrorismo islamico, ha ricevuto il sostegno di alcuni vescovi e ha detto di non avere alcuna intenzione di dimettersi.
Allo stesso tempo il ministero degli Interni sta mettendo a punto un piano che si prefigge di migliorare la risposta delle forze di polizia e alle richieste di soccorso e che, soprattutto, incoraggi le vittime a farsi avanti offrendo loro la garanzia che verranno aiutate e protette. Perché fino a ora denunciare è stato difficile e moltissime volte chi lo ha fatto non è stata presa sul serio oppure è scomparsa ancor prima di poter rendere una testimonianza. Molte di loro hanno preferito togliersi la vita piuttosto che affrontare un futuro di abusi. «Noi lavoriamo su un dato certo di 500 casi denunciati all’anno – ha spiegato il comandante Steve Allen, capo dell’unità per le violenze d’onore – ma sappiamo che generalmente ogni vittima subisce violenza domestica per almeno 35 volte prima di venire da noi». Un’affermazione inquietante che trova però conferma anche nelle parole di Marilyn Mornington, giudice distrettuale e a capo del Domestic violence working group secondo la quale la maggioranza delle donne maltrattate sono troppo terrorizzate per chiedere aiuto. «Attualmente riportiamo indietro ogni settimana da Islamabad almeno tre ragazzine – ha detto all’Independent – ma certo bisogna fare di più. Bisogna educare le comunità e le famiglie». Lo scorso anno in Gran Bretagna, l’unità governativa per i matrimoni forzati è riuscita a risolvere felicemente almeno 400 casi anche grazie all’aiuto delle diverse ambasciate tra cui quella italiana.

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