Dalla STAMPA di oggi, 09/02/2008, a pag.15, la cronaca da Gerusalemme di Francesca Paci sul settore ortodosso della società israeliana, in un articolo dal titolo "Mea She'arim, il sabato più antico del mondo".
La casa degli Evenrich è al terzo piano d’una palazzina alla fine di Ethiopia Street, passeggini a tre posti all’ingresso, pile di sedie pieghevoli sul pianerottolo, teli di plastica davanti ai balconi. A qualche metro dal portone il cartello «Please do not pass through our neighbourhood in immodest clothes», per favore non attraversate il nostro quartiere in abiti immodesti, annuncia che siamo nel cuore di Mea She’arim, l’enclave ultraortodossa di Gerusalemme. Manca poco alle 16,30, l’inizio dello shabbat è annunciato dalla sirena. Le strade, transennate dagli abitanti per impedire l’accesso alle automobili, brulicano di bambini che giocano a campana e uomini che sembrano usciti da uno shtetl polacco del ‘700, cappello nero da cui spuntano i riccioli detti peot, pastrano nero, braghe nere con le calze bianche a vista, libro di preghiere in mano. Per ventiquattr’ore, fino al tramonto del sabato, Mea She’arim, già solitamente fuori dal tempo, prende alla lettera l’Antico Testamento e ferma gli orologi.
Gli Evenrich hanno esitato prima di aggiungere un posto «diverso» alla tavola dello shabbat. L’ospitalità poi ha prevalso a condizione che l’invitata, vestita con pudico abito lungo, arrivasse a piedi, spegnesse il cellulare, s’impegnasse a non prendere appunti e non portasse in dono fiori. «Si tratta pur sempre di un’estranea tra noi», scherza Adam citando l’omonimo film di Lumet con Melanie Griffith inviata in una comunità di ebrei osservanti di New York. Adam e la moglie Amy, 34 e 33 anni, sono nati a Brooklyn da genitori di origine ucraina: nel ‘95 hanno lasciato l’America per Erez Israel. Un terzo degli ortodossi di Gerusalemme proviene da Paesi anglosassoni.
Amy, capo coperto, gonna alla caviglia e collant pesanti, corre da una stanza all’altra dell’appartamento con quadri di anziani rabbini alle pareti e neppure l’ombra di una tv. Intralciata da Illel, Yacov, Racheli, Sarah, Moshe e Yael, i sei figli da uno a 9 anni, deve cambiarsi d’abito, preparare le candele per la preghiera di shabbat, disporre in tavola il pane intrecciato, la zuppa di zucca, il pollo e le melanzane cucinate il mattino: al suono della sirena non potrà svolgere più alcuna attività. Dalla strada sale il vociare dei ragazzini che s’inseguono intorno alla vecchia Daihatsu Applause parcheggiata sul marciapiede.
«Gerusalemme è un luogo speciale per noi haredim» spiega Adam sistemando la camicia inamidata sotto la giacca nera come il cappello a falde larghe. Prima di cena passa sempre in sinagoga: «Dialoghi con Dio e senti di non essere solo». Uno su quattro degli 850 mila ultraortodossi israeliani abita nella Città Santa incurante del costo della vita superiore alle sue possibilità.
Negli States Adam insegnava musica, ora non lavora: «Sono uno studente, studio nella yeshiva, la scuola religiosa. Vorrei diventare rabbino». Amy fa «la mamma» e, di tanto in tanto, corregge le bozze per una casa editrice religiosa americana. «I nostri genitori ci danno una mano» ammettono. Come accade ai dirimpettai Greenwald, ai Rosenbloom. Quando non basta, ci pensa lo Stato. Nonostante la maggior parte degli haredim non faccia il militare, può contare sul generoso aiuto pubblico. Sei figli, per esempio, significano 6000 shekel al mese di sussidi (circa mille euro) tra affitto, asilo, tasse, assistenza sanitaria. A Mea She’arim la media è di 7,7 bambini a famiglia.
La zuppa è deliziosa. «Ho fatto attenzione all’agrodolce, so che la cucina ashkenazita non gode di ottima fama» ammicca Amy. I figli hanno terminato di mangiare e si rotolano sul tappeto da pochi shekel comprato al Second Hand Center di Mea She'arim Street. Yael, la più grande, legge «Le incredibili avventure dei Meddos», uno dei fumetti sull’educazione rabbinica impilati sugli scaffali. Un telo scuro copre la radio, oggi silenziosa, e la musica di Ray Charles, «Song of Sion» di Aaron Razel, una compilation di Chasidei Breslov, la Yeshiva di Mea She’arim. In bagno - la luce rigorosamente accesa come nel resto della casa finché, alle 23, un timer non spegne lampade e lampadari - ci sono un paio di scaffali con tomi storici, «From time immemor» sull’epopea degli ebrei, «Seven Pillars of Faith» del rabbino polacco Rabbi Yitzchok Breiter. Nessuna traccia di libri come «God Won’t Allow» del giornalista israeliano Chanoch Daum che denuncia la violenza e l’omertà nella comunità ultraortodossa. Non c’è censura in famiglia, dicono, solo qualche filtro.
Amy serve la torta di cioccolata e il succo d'uva: «Trovo le ricette online». Con l'eccezione della tv, la tecnologia qui non è il demonio che temono gli Amish. Cellulari e computer spopolano, basta usare qualche accortezza: «Ci sono dei provider Internet che garantiscono la navigazione lecita, kosher».
È tardi. Al buio le strade di Mea She’arim appaiono più ostili, un dedalo di vicoli affollati di uomini neri. Il cartello «This is not a turist area», questa non è una zona turistica, è un annuncio qualsiasi tra i tazebao che sostituiscono i giornali. Il focale accogliente degli Evenrich si perde nella notte dei tempi.