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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Zvi Kolitz La tigre sotto la pelle 07/02/2008

La tigre sotto la pelle,  Zvi Kolitz

Bollati Boringhieri, pp. 172, e 14

F orse per la sua stessa enormità, la Shoah non ha prodotto molti libri indispensabili. Libri di cui non si possa proprio fare a meno, per verbalizzare l'indicibile, per concettualizzare l'impensabile, per tramandare l'imperdonabile. I titoli di questi libri d'eccezione, credevamo di conoscerli già tutti.
Se questo è un uomo di Primo Levi, La banalità del male di Hannah Arendt, Essere senza destino di Imre Kertész, Intellettuale a Auschwitz di Jean Améry. Ma adesso, alla lista delle letture indispensabili va aggiunto il titolo di un volume stampato per la prima volta in inglese, nella New York del 1947 (l'anno stesso della prima edizione di Se questo è un uomo), e da allora mai più pubblicato in alcuna lingua. La tigre sotto la pelle, di Zvi Kolitz (Bollati Boringhieri, pp. 172, e 14), è un libro assolutamente straordinario.
Ebreo lituano, Kolitz non aveva ancora trent'anni quando i nazisti intrapresero la Soluzione finale. Tuttavia, si era già messo alle spalle un'esistenza cosmopolita e avventurosa, quale potevano averla certi militanti sionisti degli anni Trenta. Studi universitari in Italia, Scienze politiche a Firenze. Fascinazione per la figura di Mussolini, del quale Kolitz scrisse la prima biografia in ebraico. Adesione al Betar, il movimento giovanile nazionalista ispirato da Vladimir Jabotinsky. Emigrazione in Palestina, affiliazione a circoli di estrema destra, carcere sotto gli inglesi. Arruolamento nell'Agenzia sionista mondiale, propaganda per la creazione di uno Stato ebraico, militanza clandestina nelle file dell'Irgun, il gruppo terroristico di Menachem Begin.
Lontano dall'Europa negli anni della Soluzione finale, Kolitz non fu dunque — strettamente parlando — un sopravvissuto della Shoah. Aveva lasciato l'inferno per tempo: dei seimila ebrei di Alytus, la sua città natale, praticamente nessuno restava vivo nel 1945. Della Shoah, Kolitz ebbe esperienza per sentito dire, se mai può avere senso una formulazione del genere. Ma a differenza di tanti altri sionisti che vissero la tragedia dalla Palestina, Kolitz non volle trattare il sentito dire della Shoah come uno strumento di Realpolitik, buono magari a propiziare la nascita dello Stato di Israele. Non volle opporre meccanicamente la rivolta dei ghetti alle camere a gas, l'eroismo di una minoranza all'ignavia di una maggioranza, il coraggio dei rari ebrei capaci di ribellarsi all'acquiescenza dei milioni sterminati senza resistere. Nei racconti che aveva preso a scrivere in varie lingue già prima del '45, e che raccolse nel volume newyorkese del 1947, Kolitz fece di meglio che propaganda politica. Come il Primo Levi di Se questo è un uomo, volle elevare a dignità letteraria le nude vite almeno quanto i decorati al valore, i «sommersi» almeno quanto i «salvati».
A onor del vero, era proprio un insorto del ghetto di Varsavia quel Yossel Rakover, cui Kolitz aveva dato vita su una rivista yiddish di Buenos Aires nel settembre del '46. Il suo testamento fittizio costituisce uno degli undici capitoli della Tigre sotto la pelle, e la fama del personaggio avrebbe superato di molto la notorietà del suo autore. A lungo ritenuto un documento autentico, messaggio in bottiglia miracolosamente lanciato da un eroe del ghetto, Yossel Rakover si rivolge a Dio è un testo che ha conosciuto nei decenni una fortuna mondiale. In italiano, è stato tradotto per la prima volta da Adelphi nel 1997, e più volte ristampato. Ma appunto, quanto Kolitz aveva da dire della Shoah non si esauriva nello pseudo- testamento varsovita dove giganteggia un ebreo di proporzioni bibliche, che sfida il Dio degli assassini e annuncia il Dio della vendetta. Oltre a Yossel Rakover, nella Tigre sotto la pelle si incontrano personaggi meno titanici, eppure altrettanto memorabili.
Ecco un'internata ebrea a Treblinka, la madre senza nome di una figlia chiamata Hannah. Le due donne sono state deportate insieme, ma poi la ragazza ha cercato di scappare, è stata catturata, è stata arsa viva davanti alla madre e a migliaia di prigionieri. Trasformate in concime, le sue ossa di quattordicenne hanno arricchito la grassa terra di Treblinka, facendo sbocciare intorno ai recinti elettrificati un campo di magnifici papaveri. Questa notte, però, la madre ha approfittato del chiaro di luna per strisciare sotto il filo spinato. Il campo di papaveri è stracolmo, e la madre sta sussurrando il nome della figlia, fiore per fiore, disperatamente. A un tratto, eccola. La riconoscerebbe tra mille, quella coppia di papaveri ha gli occhi inconfondibili di Hannah, e gli steli sembrano due braccia aperte per riceverla. Gli altri papaveri «restarono silenti, immobili, il capino rivolto alla figlia che abbracciava la madre». «Tutti gli esseri viventi quella notte si voltarono pieni di riverenza verso la scena della riunione ». Ora la madre ha strappato il fiore, sua figlia, e può tornarsene lenta e risoluta in direzione del Lager. Stringe Hannah fra le mani mentre viene avviata verso il forno.
Ecco il dottor Bernhardt van Meerlo e sua moglie, olandesi, ebrei dell'Aja. Hanno una quarantina d'anni, e due bambini. Gli occupanti nazisti hanno già iscritto nell'elenco dei deportati i nomi di tutta la famiglia, è solo questione di ore prima che bussino alla porta. Allora, il medico e la moglie hanno deciso di uccidere i bambini, e di suicidarsi. Il veleno è già pronto, addolcito con lo zucchero per Felix e Irene. Rimasta nell'ambulatorio annesso alla casa per non presenziare al pietoso omicidio, la moglie ha chiamato il marito, sconvolta, e gli ha raccomandato: «Quando vanno a dormire, coprili bene ». Il padre è rientrato in casa. Ha fatto bere ai bambini il veleno, tutto quanto, sino in fondo. Li ha svestiti, li ha messi a letto, li ha abbracciati forte. Non gli resta più che raggiungere la moglie per suicidarsi con lei. «Tornai in ambulatorio. Mia moglie mi salutò con lo sguardo apatico successivo alla disperazione: "Li hai coperti?", chiese tremando».
Si vorrebbe avere più spazio, molto più spazio, per dire di un libro prezioso in ogni singola sua pagina. Contentiamoci di rendere omaggio all'editore italiano della Tigre sotto la pelle, Bollati Boringhieri, e al curatore, Vincenzo Pinto. E contentiamoci di notare che un volume come questo, pubblicato a Torino, è la risposta migliore che la città potesse offrire a quanti contestano l'invito di Israele alla prossima Fiera del Libro. Se soltanto certi mentecatti parlassero un po' di meno, e leggessero un po' di più.

Sergio Luzzatto
Corriere della Sera


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