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La Repubblica - La Stampa - Corriere della Sera - Libero - Il Manifesto - Il Riformista Rassegna Stampa
07.02.2008 Israele alla Fiera del libro
ventiduesima puntata

Testata:La Repubblica - La Stampa - Corriere della Sera - Libero - Il Manifesto - Il Riformista
Autore: Massimo Novelli - Gadi Luzzato Voghera - Sergio Romano - Ernesto Ferrero, Rolando Picchioni - Margherita Boniver - Mariuccia Ciotta - Massimo Raffaeli - Francesca Borrelli - David Bidussa - Khalid Chaouki
Titolo: «Dal Congresso ebraico di Parigi solidarietà alla Fiera del libro - Odifreddi :Equivoco quell'invito a Israele - Sinistra e apartheid delle idee - L'Islam europeo - C'è posta per Ramadan: Attacchi rozzi»

I palestinesi strumentalizzati dai regimi mediorentali - Un boicottaggio sbagliato - Contro l'embargo della parola - La mia identità ebraica è nella lingua in cui scrivo - Caro Ramadan, Israele non è uno satato binazionale - No al boicottaggio. Gli scrittori ebrei-israeliani siano i benvenuti!




Da La REPUBBLICA del 7 febbraio 2008, la cronaca di Massimo Novelli: 

Ancora prese di posizione, ancora toni accesi. Questa volta, però, sono i vertici della Fiera del libro, nella loro linea della fermezza, a passare all´attacco contro chi continua a fraintendere, a fare finta di non capire, a strumentalizzare e a gettare veleni. Il presidente Rolando Picchioni e il direttore Ernesto Ferrero se la prendono con la notizia «erronea, arbitraria e tendenziosa, ripresa fra gli altri dall´intellettuale e scrittore Tariq Ramadan, che la fiera abbia originariamente designato l´Egitto come paese ospite per l´edizone 2008, e successivamente si sia cambiata opinione e scelto di celebrare Israele, poiché quest´anno ricorre il sessantesimo anniversario della creazione di questo stato». Non è così. Lo slittamento al 2009 dell´Egitto, come ripetuto peraltro in varie occasioni, «è dovuto soltanto al fatto - spiegano Picchioni e Ferrero - che l´anno prossimo si terranno alla Reggia di Venaria Reale e a Palazzo Bricherasio alcune grandi esposizioni dedicate agli Egizi. Si è pertanto voluto, con il beneplacito delle autorità egiziane, cogliere l´opportunità di accorpare quegli eventi a Librolandia».
La polemica sulla partecipazione di Israele alla Fiera del libro, nel frattempo, dopo avere animato non troppo decorosamente la Sala rossa, arriva nell´aula del Consiglio regionale. Se ne discuterà martedì prossimo a Palazzo Lascaris, La riunione dei capigruppo ha stabilito oggi che la seduta di martedì prossimo si aprirà con la discussione su questo tema. La richiesta, partita dal centrodestra, non ha potuto essere soddisfatta durante questa settimana per l´assenza della presidente Mercedes Bresso e di Gianni Oliva, assessore alla Cultura, entrambi con impegni istituzionali all´estero. In attesa del consiglio, la Sinistra arcobaleno ha presentato un ordine del giorno in cui si definiscono «sbagliate le iniziative di boicottaggio». Il salone del libro, rammentano Gian Pietro Clement (Rifondazione comunista), e Luca Robotti (Comunisti italiani), primi firmatari, «è, dalla nascita, luogo in cui le differenti culture e pensieri hanno la possibilità di incontrarsi, confrontarsi e conoscersi». II documento si conclude con l´auspicio che «sia data la possibilità a una delegazione palestinese di essere ospitata alla fiera». Ieri ha preso posizione anche il regista e presidente del Torino Film Festival Nanni Moretti che ha definito il boicottaggio "indifendibile".
Contro i veti e gli ostracismi, infine, si mobilita il Congresso ebraico europeo. Domenica 10 febbraio, a Parigi, verrà varato come impegno prioritario un piano di interventi in tutta l´Unione europea contro il boicottaggio della cultura israeliana. Su richiesta dei delegati Claudia De Benedetti e Alessandro Ruben, indicati dall´Unione delle comunità ebraiche italiane, sarà sottoposto all´approvazione del congresso un ordine del giorno sulle vicende della Fiera del libro di Torino. Il Congresso ebraico europeo rappresenta 40 paesi in Europa e due milioni e mezzo di persone.

Un'intervista a Piergiorgio Odifreddi, che giustifica il boicottaggio senza aderirvi (ma riuscendo in poche righe a paragonare la democrazia israeliana alla Spagna di Franco e all'Iran di Ahmadinejad, a condannare gli intellettuali favorevoli alla barriera difensiva dimenticando completamente il terrorismo, a sostenere che anche una campagna che nega esplicitamente il diritto all'esistenza di Israele non è "antisemitismo", ma "critica").
Ecco il testo :


Si è già guadagnato la fama di «cattivo maestro» per le proteste contro la ventilata visita di Papa Benedetto XVI all´Università La Sapienza di Roma. Ora il matematico torinese Piergiorgio Odifreddi rischia di peggiorare la sua nomea, come ci anticipa con un po´ di ironia, ragionando sulle polemiche che stanno arroventando la Fiera del libro a causa dell´invito a Israele in veste di ospite d´onore. Una querelle, dice, «fondata su due piccoli equivoci di fondo».
Quali sono questi equivoci?
«Il primo piccolo equivoco è basato sulla considerazione che l´invito è stato fatto come un invito allo stato di Israele. Una cosa è invitare uno stato, un´altra cosa è chiamare i suoi intellettuali».
Ma gli organizzatori della manifestazione del Lingotto, da Picchioni a Ferrero, hanno più volte affermato che si tratta di un invito alla cultura israeliana, non alla sua entità politica.
«In ogni caso quell´invito viene presentato così, oppure si legge in quel modo. Ed è chiaro che si polemizzi. Lo si fa non contro il popolo israeliano, bensì contro il suo governo. Quando ero giovane, non si andava in vacanza in Spagna per il regime di Franco. Non è che ce l´avessimo con gli spagnoli, naturalmente, ma con il regime dittatoriale di quel paese. Mi chiedo: se la Fiera del libro avesse deciso di invitare l´Iran, non ci sarebbero state forse delle polemiche? L´Iran ha pure un premio Nobel, però è una cosa diversa dalla natura del suo governo, no? Anche l´Italia, ai tempi del governo di Silvio Berlusconi, venne boicottata a Parigi. Avvenne. E ritengo che sia stato giusto. Umberto Eco disse allora di vergognarsi di essere italiano».
Non è detto che avesse davvero ragione. Comunque passiamo al secondo equivoco. Di che cosa si tratta?
«Si continua a citare alcuni grandi scrittori israeliani, come Abraham Yehoshua o Amos Oz, oppure David Grossman, per dire: ecco, questi scrittori sono critici verso il loro paese, verso il loro governo. Sarà. Io tuttavia ricordo un articolo di Yehoshua, in cui si esprimeva a favore dell´erezione di un muro verso i territori palestinesi. Devo dire che, al di là del fatto specifico di Israele, mi sta poco bene un intellettuale che propone di erigere dei muri. E poi c´è un´altra questione, che magari mi procurerà nuovamente l´accusa di essere un cattivo maestro».
Quale questione?
«Quando c´è di mezzo Israele, si usano due pesi e due misure. Voglio dire che se uno critica questo paese, corre il rischio di essere accusato di antisemitismo. I politici fanno bene a prestare attenzione ai fenomeni di antisemitismo, ma fare confusione non è una buona cosa, anzi: è pericolosissimo».
Andiamo al sodo: lei parteciperà alla Fiera del libro di quest´anno? Oppure la diserterà?
«No, non potrò esserci. Però non è perché la voglio boicottare, e del resto trovo eccessivo questo boicottaggio. In quei giorni, invece, sarò in pellegrinaggio verso Santiago de Compostela».
Non è possibile. Ma come? Un´icona del laicismo e dell´ateismo come lei...
«Non sono stato folgorato sulla via di Damasco. Non si preoccupi: ci vado da ateo e ritornerò da ateo».

L'intervento di Gadi Luzzato Voghera sulle pagine culturali de La STAMPA:

Giovanni De Luna (La Stampa 30 gennaio) propone a ragione il dialogo e il confronto come arma della cultura per combattere i muri (fisici e intellettuali) che affollano la scena mediorientale. «Non capisco - scrive De Luna - perché all’ingiustizia dei muri fisicamente concreti eretti dagli israeliani si debbano contrapporre altri muri, costruiti con i materiali dell’intransigenza, del giudizio a priori, del rifiuto di ogni tentativo di dialogo». È giusto, il pre-giudizio (lui lo chiama pudicamente «giudizio a priori») non è comprensibile con il normale strumento della logica. Tuttavia, una volta accertato che esiste ed è radicato, bisognerebbe per lo meno denunciarlo con forza e isolarlo.
È arcinota la presenza sottopelle in settori piuttosto ampi della sinistra europea di sentimenti antisemiti che periodicamente emergono in rigurgiti incontrollati. Spesso sono episodi molto espliciti, altre volte - come nel caso della proposta di boicottaggio della presenza israeliana alla Fiera del Libro di Torino - sono prese di posizione ammantate da motivazioni pseudo-politiche legate a una visione manichea della tragedia mediorientale (esemplare l’intervento di Gianni Vattimo su La Stampa del 4 febbraio). Si tratta, in questo caso, di una questione nazionale, che tuttavia ha assunto anche connotati locali. La lettera-appello pubblicata dal direttore di Rinascita Maurizio Musolino ha riproposto la classica strategia politica che cavalca la tragedia dei palestinesi per suscitare manifestazioni che nulla hanno a che fare con Gaza o con i campi profughi del Libano o della West Bank. L’operazione - Musolino lo sa bene - riesce sempre: ondate di lettere e appelli indignati di solidarietà vengono raccolte da Liberazione o dal Manifesto, magari si riesce anche a organizzare una bella manifestazione di piazza (che in campagna elettorale fa sempre comodo), e i problemi dei palestinesi rimangono immutati o aggravati, senza che gli autori di questa mobilitazione abbiano attivato azioni politiche che concretamente aiutino almeno in prospettiva a risolvere la loro tragedia. Il gioco è riuscito solo in parte, perché a sinistra c’è sempre qualcuno che ragiona: in questo caso Valentino Parlato non è stato zitto e ha denunciato con fermezza e coraggio la strumentalità del boicottaggio chiamandola con il suo nome: antisemitismo.
Ma ci sono anche dei risvolti locali, che a mio parere dovrebbero allarmare la realtà piemontese. Non è, infatti, la prima volta che i libri collegati in qualche modo a Israele vengono presi di mira. È ancora calda la cenere del rogo che negli anni ‘80 incendiava la libreria Luxemburg, notoriamente dedita alla diffusione dell’editoria israeliana ed ebraica in genere. Ed è passato solo qualche mese da quando - in occasione del Festival della Storia di Saluzzo e Savigliano - si è organizzata una sessione in cui in maniera più che esplicita si denunciava la politica di Israele verso gli arabi palestinesi come una politica unicamente definibile con i criteri del razzismo e dell’apartheid, senza peraltro che fosse previsto uno spazio di dibattito e di approfondimento, il che per un festival dedicato alla Storia fa un po’ specie.
Con questi presupposti (ma si potrebbero citare altri episodi), non può stupire che proprio da ambienti politici della sinistra torinese sia partita l’idea di boicottaggio: a monte di questa proposta c’è un lavorio intellettuale costante, a volte colpevolmente avallato - come nel caso del Festival di Storia - anche da enti pubblici e fondazioni. L’iniziativa della Fiera del Libro è in questo caso due volte opportuna: invitando alcuni fra i maggiori esponenti della letteratura israeliana contemporanea (notoriamente assai critici con il Potere) mostra quanto fragile, inutile e strumentale sia lo stereotipo che ci racconta uno Stato di Israele fondato solo sul razzismo e sull’apartheid, e nel contempo fa emergere una Torino intellettuale libera da pregiudizi e disposta a usare l’arma del confronto intellettuale per contribuire a rafforzare i percorsi della pace e del dialogo.

Sul CORRIERE della SERA Sergio Romano, rispondendo a un lettore, difende Tariq Ramadan, pur dissentendo  debolmente dalla sua posizione sul boicottaggio della Fiera di Torino e istituisce un parallelo tra il rifiuto del  ministro francese della Cultura Catherine Tasca di ricevere Silvio Berlusconi alla Fiera del libro di Parigi e il boicottaggio antisraeliano.
Paragone improprio: per quanto la scelta della Tasca possa essereun segno  di faziosità ideologica, e per quanto la si possa ritenere uno sgarbo diplomatico all'Italia, e non solo al governo Berlusconi, non aveva certo il senso, che ha invece il boicottaggio della Fiera di Torino, di negare il diritto all'esistenza di uno stato.


Caro Romano, il direttore della Fiera del Libro di Torino Ernesto Ferrero, nel Corriere, si chiede perché Tariq Ramadan, ospitato alla Fiera l’anno scorso, «adesso non vuole che parlino anche gli altri».
Nella stessa pagina Ramadan gli risponde per le rime: «Non si può approvare nulla che provenga da Israele». Un modo elegante per definire Israele un untore, origine solo di male.
Non crede che stavolta, abbandonando la sua proverbiale ambiguità, Ramadan abbia gettato la maschera?

Simo Beraha, Milano, |

Non sono d'accordo con la posizione di Tariq Ramadan in questa circostanza, ma credo che il suo obiettivo sia quello di creare un Islam europeo e che reciti piuttosto bene, tutto sommato, questo difficile ruolo. Aggiungo soltanto, avendone l'occasione, che mi tornava spesso alla mente, mentre seguivo la polemica di Torino, il caso del Salone del libro di Parigi nel 2002, quando l'Italia era l'invitata d'onore e il ministro francese della Cultura Catherine Tasca disse che non avrebbe gradito la presenza di Berlusconi.

La lettera Ernesto Ferrero, direttore della Fiera del Libro di Torino, e Rolando Picchioni, presidente della Fondazione organizzatrice, a Tariq Ramadan, pubblicata da LIBERO

 Caro Tariq Ramadan, Lei lo scorso anno è stato ospite della Fiera del libro di Torino, dove ha tenuto un intervento che abbiamo seguito con interesse. Ha potuto dunque vedere con i suoi occhi come la Fiera sia un luogo d'incontro, in cui è possibile confrontare idee, posizioni, esperienze diverse. Le polemiche che spesso accompagnano il Suo lavoro non hanno certo alterato il clima civile in cui l'incontro si è svolto, immaginiamo con Sua soddisfazione. Ogni anno la Fiera ospita un Paese che viene a Torino a presentare la propria cultura. Quest'anno tocca a Israele. L'Egitto, con cui abbiamo avviato cordiali relazioni, era inizialmente previsto per il 2008, ma poi di comune accordo la partecipazione è stata spostata al 2009 soltanto perché in quell'anno si terranno a Torino importanti mostre archeologiche, e dunque i vari eventi possono rafforzarsi l'un l'altro, in una sorta di anno dedicato all'Egitto. Invitare Israele significa invitare i suoi scrittori, scienziati, musicisti, artisti, registi: non altro. Tutte personalità indipendenti, non asservite ad alcuna istituzione o governo, ma anzi spesso voci critiche, e aspramente critiche. (...) Possiamo confermare ancora una volta che la partecipazione di Israele avrà un carattere rigorosamente culturale, quindi non politico, non propagandistico e non celebrativo. Il vero ospite d'onore è dunque la libera cultura d'Israele, perché sulla cultura, e non su altro, si misura l'ono re di un Paese. La stessa ricorrenza del sessantesimo anniversario della fondazione dello Stato sarà l'occasione per ripercorrere criticamente una storia complessa e tormentata. (...) Sarà così anche quest'anno, e ci riesce incomprensibile la posizione di alcuni scrittori arabi, i quali hanno rifiutato l'invito a partecipare alla Fiera 2008 e invitato al boicottaggio della manifestazione. Ci riesce parimenti incomprensibile la posizione del poeta israeliano Aaron Shabtai, il quale non vuole partecipare al Salon du livre di Parigi perché convinto che la sua presenza suonerebbe come un avallo della politica del suo governo. Ci sfugge il nesso tra politica e cultura, quando è così rozzamente delineato. (...)La politica pensa al "qui e ora", la letteratura parla agli uomini di tutti i tempi e di tutti i Paesi. Affratella e non divide. Lei parla di «silenzio complice della scena internazionale» sui fatti del Medio Oriente, ma ci vogliamo tanto poco associare a quel silenzio da mettere a disposizione proprio uno spazio in cui le opinioni si possano confrontare liberamente. Vogliamo aprire, non chiudere, censurare, nascondere. Per noi è perfino umiliante essere costretti a ripetere dei concetti tanto ovvii. Non abbiamo difficoltà ad ammettere che nostra conoscenza di questi sessant'anni così tormentati è parziale e lacunosa. Non pensa che la Fiera 2008 potrebbe proprio essere l'occa sione per una conoscenza più approfondita? Che la partecipazione e il dialogo siano meglio del silenzio, del muro contro muro? E che compito specifico degli intellettuali sia proprio quello di costruire dei ponti, di tenere aperto il discorso? Come possono degli scrittori rifiutarsi di discutere con altri scrittori da cui sono divisi soltanto da questioni di passaporto? Caro Tariq Ramadan, noi confidiamo che la voce della ragione possa prevalere anche in questi momenti così difficili, e ci auguriamo che il largo seguito di cui Lei gode possa servire a ristabilire un clima migliore e contribuire a fare della Fiera del libro di Torino quello che è sempre stata: uno spazio aperto dove uomini di buona volontà - autori, editori, librai, bibliotecari, insegnanti, studenti, lettori d'ogni Paese - tentano di costruire un mondo migliore con i buoni libri.

Sempre da LIBERO, un'intervento di Margherita Boniver, deputata di Forza Italia:

Divampa come un incendio a fuoco lento ma tenace la polemica sul boicottaggio della Fiera del libro di Torino, "rea" di avere come ospite d'onore Israele e alcuni fra i suoi più famosi scrittori come Grossman, Oz, Yeoshua. Un boicottaggio penoso e destinato a fallire, visto che lodevolmente la Direzione ha già detto che onorerà l'impegno preso con lo Stato ebraico che quest'anno celebra i 60 anni della sua fondazione. Tra i motivi pretestuosi e goffamente argomentati, dai quali trapela un antisemitismo tout court, spicca la solita scusa del sostegno doveroso alla causa palestinese. Siamo d'accordo, ma non c'è nulla di più nocivo che legare un atto becero e incomprensibile vista la natura appunto squisitamente intellettuale del salone del libro, come il boicottaggio e la speranza di vedere al più presto la nascita di uno Stato palestinese. È un'azione squisitamente politica, dunque, che ha visto schierarsi su fronti opposti integralisti comunisti e post diessini di prestigio come Chiamparino e Fassino, in eterna querelle tra loro su una molteplicità di argomenti. Alle tante sigle che accompagnano la defunta maggioranza, i No Tav, No Dalmolin, No Nato, si aggiunge anche un No Fiera, triste epilogo di una fase politica al tramonto. Non sono mancate prese di posizione anche sorprendenti, come quelle di intellettuali di prestigio come Vattimo e Tariq Ramadan (per il boicottaggio) o contrari come Magdi Allam e Khaled Fouad Allam, e altre ne arriveranno, anche se la sostanza non cambia. In gioco a Torino questa volta è proprio la natura stessa della nostra civiltà che si basa appunto sulla tolleranza e sul reciproco rispetto: delle idee, della religione, dei diritti dei popoli. Intendiamoci, non è la prima e di certo non sarà l'ultima volta che ci si divide sulla questione israelopalestinese, ma è del tutto intollerabile che questo avvenga su un terreno come la produzione intellettuale e per di più nella civilissima città sabauda. Una condanna ferma e corale non basta: bisogna isolare sul nascere i germi di faziosa intolleranza dispersi nell'aria da questa pericolosa e imbecille iniziativa. Pena il ripetersi di azioni dettate dalla concomitanza di un difficile processo di pace riavviato ad Annapolis e la ripresa degli attacchi terroristici su territorio israeliano. Anche i recenti avvenimenti nella striscia di Gaza non preludono ad una visione ottimista della crisi più difficile, la questione medio orientale. La miserevole condizione di tanti palestinesi merita rispetto, ma non ci stancheremo mai di ripetere che la causa principale delle loro sofferenze risiede nella intransigenza e nella visione miope di tanti regimi arabi che non hanno esitato a sfruttare la terribile condizione dei profughi per il proprio inconfessabile tornaconto. È anche per dare voce a questi oppressi che l'autorità degli intellettuali israeliani che verranno a Torino sarà tanto più utile alla causa.

Dal MANIFESTO, l'editoriale di Mariuccia Ciotta:

Israele è responsabile della condizione disumana in cui vivono i palestinesi, ha costruito ghetti circondati da un muro che li rinchiude, ha attuato un regime di apartheid. L'ex presidente degli Stati Uniti d'America, Jimmy Carter, lo ha scritto nel suo libro Palestine: Peace, Not Apartheid, presentato in un lungo tour nelle maggiori università americane. Carter ha sostenuto nei suoi commoventi incontri che la politica Usa di appoggio al governo israeliano è sbagliata.
Che quest'appoggio americano a Tel Aviv istiga all'odio e alla guerra, e che il risultato saranno solo macerie e morte. Per Israele e per i palestinesi. Applausi, ma anche insulti, accuse di antisemitismo, boicottaggio...
Jonathan Demme ha video-raccontanto il giro americano dell'ex presidente e il suo documentario Man fron Plains è stato di fatto ancora boicottato all'ultima Mostra del cinema di Venezia. Nessun giornale ne ha parlato, tranne il manifesto.
Carter e Demme cercavano di dire, con un libro e con un film, che non c'è altra via se non quella della mobilitazione generale per fare giustizia in quella zona del mondo. Nessun'altra via se non la sollevazione degli individui e l'intervento degli stati, dell'America e dell'Europa per invertire la corsa al massacro dei palestinesi, e allo stesso tempo per garantire a Israele il diritto di esistere. Tutto il resto è guerra. Perciò siamo per il dialogo e contro il boicottaggio della Fiera di Torino.
Siamo per il dialogo politico e culturale, non vedo distinzioni, gli scrittori non sono «buoni» in quanto tali, fuori dal conflitto, anzi ne sono immersi. E mi sembra superfluo argomentare sulla voglia di propaganda del governo israeliano: se c'è, facciamogliela passare. O sulle presunte gaffe della Fiera (che avrebbe cercato di rimediare alle polemiche invitando «dopo» gli scrittori palestinesi) e tanto meno sull'occasione che porta Grossman, Oz, Yehoshua e gli altri scrittori a partecipare, cioè il sessantesimo anniversario della fondazione di Israele.
E' una buona occasione per discutere dell'attualità. Se no, si vuol dire che avendo un governo di cui nulla condividiamo, Israele deve cessare di essere? Che la sua esistenza, essendosi accompagnata con la negazione della terra ai palestinesi, è da mettere in causa? Che il dialogo con quel paese, quale che siano le distanze conflittuali, debba essere precluso?
Non abdicheremo a noi stessi, la loro memoria è la nostra e da quella memoria nasce l'indiscutibile diritto del popolo degli ebrei - al di là del concetto di «nazione» che in quest'epoca ha sempre meno senso - ad avere una terra dalla quale nessuno può cacciarli. E' una cosa che ci riguarda. E' una cosa iscritta nell'esperienza mentale di ognuno di noi, inscindibile.
Certo, uno stato, due popoli, due diaspore. «Musulmano» era chiamato l'ebreo da giustiziare nei lager. E' per questo che abbiamo la necessità di accogliere la bellezza del racconto di sofferenze inflitte e subite. La passione di chi, scrittori palestinesi e israeliani, rifiuta il dialogo è, paradossalmente, già un incontro. Disperato. Ma dice che non vogliamo stare soli e muti.
Il boicottaggio della Fiera del libro è pessima sotto il profilo morale, anche per le persone scelte come bersaglio, e inammissibile sotto il profilo politico. Ci sottraiamo perciò agli schieramenti di chi compila le colpe di una o dell'altra parte, moltiplicando i nemici. Quali siano le colpe, e in ragione di esse, andiamo a Torino, non solo per sprigionare la forza delle idee contro quella delle armi, ma per riconfermare il nostro mandato che ci distingue dalla cultura della morte.

Un articolo di Massimo Raffaeli:

Quando Ignacio Ramonet ebbe l'intuizione del Pensiero Unico disse che si trattava di una serie di proposizioni martellanti la cui semplice ripetizione sostituiva ogni dimostrazione. Il fatto che si sia proposto il boicottaggio del Salone di Torino dedicato alla letteratura israeliana e che anche alcuni tra noi trovino opportuno disertarlo dichiarandosi provocati e offesi da una simile iniziativa è la spia che si è già propagato a sinistra un pensiero unico su Israele. Quanto al boicottaggio in sé, che equivale al negare la parola o a circoscriverla in un'alterità ritenuta ambigua e spregevole (sebbene si parli di Grossman, Yehoshua, Amos Oz), il gesto è così povero, nella sua esibita nettezza, da potere appagare e persino confortare solo chi «non ritiene di aver nulla da ascoltare, da imparare, da modificare di sé, delle proprie idee e delle proprie passioni», come ha ricordato Daniele Giglioli su questa pagine, il 30 gennaio. Colpisce che molti lettori, scrivendo sdegnati al manifesto, non solo sovrappongano nozioni che andrebbero tenute distinte (per esempio sionismo ed ebraismo) ma riducano Israele a un'immagine sola, quella della sua classe dirigente e relative politiche, notoriamente rovinose; in altri termini colpisce che dicendo «Israele» le articolazioni e le contraddizioni di una società complessa e plurale si ricompongano di colpo e - date per scontate, smaltite in un sinistro ammiccamento - siano costrette a parlare al singolare e in una lingua sola, vale a dire la lingua del nazionalismo in armi e del colonialismo.
L'idea del boicottaggio, per legittimarsi, necessita di immagini univoche e unilaterali, pertanto degne di essere sconciate e, con buona coscienza, negate: Olmert, gli orfani di Sharon, i sudditi di Bush, i devoti del Likud, i carri armati con la stella di Davide, e nient'altro. Dunque una terribile e sanguinosa «parzialità» che aspira a introdursi nel senso comune in forma di «totalità», considerando ogni dissenso alla stregua del tradimento e del sabotaggio: è proprio quel che esige dalla parte opposta, e da decenni, l'élite politico-militare e mediatica che governa il paese. Tale assenza di «critica» (di un pensiero, cioè, che distingue prima di valutare) dovrebbe essere sospetta e temuta specialmente a sinistra, meno che mai accolta nel riflesso speculare che la ri-utilizza in un progetto di boicottaggio.
C'è, infatti, una tragedia ulteriore di Israele che si aggiunge al sangue e alla sofferenza dei palestinesi e che quasi mai vediamo: è la tragedia di chi viene ammutolito all'interno e, per cruda parodia, si ritrova suo malgrado arruolato all'esterno nel coro di chi grida unanime alla Grande Israele. Nel libro di un analista sociale che il lettori del manifesto conoscono bene, Michel Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana (Bollati Boringhieri), è detto chiaramente: «Ogni critica, anche la più moderata, viene ascoltata attraverso il prisma deformante dell'antisemitismo... Poiché il mondo è una giungla ostile e pericolosa, in Israele scatta di nuovo il riflesso del ghetto: non quello imposto agli ebrei nel Medioevo, e neppure quello imposto molto più tardi dai nazisti, ma il ghetto volontario, quello che i rabbini volevano mantenere a ogni costo per impedire le influenze esterne».
Di tutto ha bisogno Israele, in questo momento, meno che di un altro muro costruito da fuori, un muro che sancisca l'embargo della parola. L'assenza di «critica», cioè di scambio dialogico, nega l'idea di politica nel momento in cui revoca arbitrariamente a qualcuno lo statuto di interlocutore e perciò il principio di cittadinanza; non a caso i greci antichi opponevano alla pienezza della dimensione politica la miseria della idiozia: era uno stato di reclusione domestica, di perfetta estraneità o sordità alla parola dell'altro.

Un'intervista di Francesca Borrelli a Meir Shalev:


Mentre si moltiplicano gli interventi intorno al ventilato boicottaggio della Fiera del libro, e una moltitudine di operosi nanetti della informazione culturale si affanna a trovare testimonial autorevoli per accreditare le diverse posizioni in campo, ciò che si sta via via precisando è - una volta di più - il profilo querulo, provinciale e perdigiorno della nostra italianità a fronte, per esempio, del ben più sobrio comportamento dei francesi, anche loro rei di avere invitato Israele al Salon du Livre, che si terrà un mese e mezzo prima del nostro. Una volta ribadita la peraltro ovvia inaccettabilità di un boicottaggio che si indirizzerebbe agli scrittori e autorizzerebbe cupi quanto impropri paragoni con i tempi in cui si bruciavano i libri, non resta che augurarsi di vedere presto dirottati gli intellettuali e i politici nostrani su fronti più urgenti, più seri e più drammaticamente coinvolgenti, a cominciare da quello esemplificato dal criminale documento relativo alla rianimazione dei neonati prematuri, persino contro il parere della madre. Niente e nessuno è in grado di elaborare, nei nostri confini, minacce sociali più pericolose di quelle maturate in seno al fondamentalismo cattolico.
È in questo contesto che lo scrittore israeliano Meir Shalev è piombato a Roma, dove passerà qualche giorno per presentare il suo ultimo romanzo Il ragazzo e la colomba (affidato alla buona lingua di Elena Loewentahl per Frassinelli). Nella sua narrativa risuona l'oralità dei racconti che ascoltava a tavola, nella sua numerosa famiglia dominata dalla presenza dei nonni arrivati in Palestina dalla Russia e subito andati a vivere in una comune, dove la loro fede comunista trovò di che rinfrancarsi.
Quando venne ospite del Festivaletteratura di Mantova, il racconto in cui Shalev restituì davanti al pubblico le gesta dei suoi famigliari era così carico di ironia e così privo del sentimentalismo in cui cadono a volte le sue trame, che l'intreccio più o meno volontario tra il suo mondo e la sua narrativa sembrò indistricabile e al tempo stesso attraente come un vortice. L'ultima fatica alla quale si è dedicato consta di una storia compresa in una parabola temporale che dai giorni nostri risale all'indietro, fino ai combattimenti del 1948: la racconta un personaggio che nel presente fa la guida turistica, e nel passato ha diviso la sua vita tra l'amore per due donne e quello per una casa in costruzione. Una casa che al tempo stesso gli ha permesso di trovare conforto tra le sue mura tanto accoglienti quanto erano ostili quelle in cui viveva con la moglie, e di ricongiungersi a una passione dell'infanzia, che gli si offre in qualità di progettista e capomastro per la sua nuova dimora.
Al tempo che dedica alla edificazione della sua casa, Yair Mendelssohn intervalla quello dei ricordi, in cui compaiono la madre - un personaggio riuscito nella sua ossessione di valutare per scritto i pro e i contro di ogni decisone da prendere - il padre pediatra, lo zio Beniamin emigrato in California, e tra gli altri un seducente personaggio di nome Meshullam, grato per la vita al padre di Yair e dotato di una impulsività irrefrenabile, tanto che più volte chiede una tregua per i suoi sentimenti e, fermata la macchina, scende annunciando: «Devo piangere come si deve».
Quanto c'è dei suoi ricordi famigliari, così densi di storie tramandate, in questo suo nuovo romanzo dotato di una trama assai complicata?
Ho scritto intrecci anche più complessi, comunque qui tutto è frutto dell'invenzione. L'unico elemento in comune con la mia vita vera riguarda il fatto che anch'io, come il protagonista, mi sono costruito dieci anni fa, nel nord di Israele, una piccola casa; ma diversamente da lui, durante i lavori non mi sono innamorato di nessuno. Dalla trama veniamo a sapere che il personaggio della madre ha avuto, quando era giovane, una storia d'amore con un ragazzo che è morto durante i combattimenti del '48. Entrambi allevavano piccioni viaggiatori, addestrati dai militari per mandare messaggi durante la Resistenza, e poiché lei viveva a Tel Aviv e lui in un kibbutz nel nord di Israele, i piccioni servivano anche a loro per scambiarsi messaggi amorosi. Un modo di parlarsi dei propri sentimenti che mi è sembrato particolarmente suggestivo. Quando lui va in guerra, si porta la gabbia con i piccioni sulle spalle, e quando viene ferito, capendo che non sopravviverà, si serve di un colombo viaggiatore per spedire alla sua amata la sua ultima lettera. Più avanti negli anni lei sposerà un altro uomo, il dottor Mendelssohn, ma la sua tragedia vuole che, pur essendo il marito una bravissima persona, non riuscirà a compensare il vuoto lasciato da quell'amore di gioventù, tanto che lei passerà tutta la vita a pensarlo.
La letteratura ebraica è oggetto di una controversia tra chi afferma che vada fatta coincidere con i confini nazionali e con la lingua di Israele, e chi la considera estendibile anche agli scrittori della diaspora e dunque, per esempio, a un autore americano come Phlip Roth o a un italiano come Primo Levi. Lei cosa è disposto a includere nella definizione di letteratura ebraica?
Mi considero uno scrittore ebraico grazie alla lingua in cui parlo e scrivo, la sento come un elemento di appartenenza essenziale, tanto più perché il suo uso è limitato ai confini di Israele. Per quanto sia anche lui ebreo, uno scrittore come Philip Roth non soltanto usa un'altra lingua ma non sarebbe in grado di leggere un libro scritto in ebraico, e questo per me è dirimente. Certo, tutti gli scrittori ebrei hanno in comune temi che provengono da una cultura condivisa, ma nel presente di Israele e della sua lingua c'è qualcosa di unico. Cent'anni fa, ogni persona ebrea poteva leggere la nostra lingua, ora non più.
Per la verità, lo stesso Theodor Herzl, circa cinquant'anni prima della fondazione dello Stato di Israele non avrebbe mai immaginato che la lingua ebraica sarebbe tornata a essere praticata; tanto che dopo avere preso atto del fatto che pochi la conoscevano, anche solo a un livello elementare, propose una federazione linguistica in cui tutti gli ebrei confluiti in Israele avrebbero mantenuto il loro idioma di provenienza. Dunque, né l'importanza simbolica, né quella pratica di una lingua nazionale erano per lui importanti nella definizione della appartenenza letteraria. Lei non la pensa così?
No, e mi pare evidente che l'attualità dia torto a Herzl. Inoltre, almeno gli ebrei che frequentavano la sinagoga, sebbene non usassero la lingua dei testi sacri per comunicare o per scrivere, tuttavia sapevano leggerla. Oggi, invece, a ulteriore dimostrazione del fatto che Herzl si è sbagliato, l'ebraico è una lingua viva e praticata, anche se in molti non leggono più le sacre scritture.
L'identità ebraica classica è dotata di una componente virtuale e immaginativa, che è il frutto della necessità di approdare alla rappresentazione unitaria di un popolo disperso. Cosa rimane di questa componente mentale nei suoi personaggi, visto che lei li descrive come profondamente radicati in Israele?
Siamo d'accordo sul fatto che il nostro punto di vista linguistico mantiene una componente illusionistica e preserva molte analogie con quanto accadde agli ebrei, persino tremila anni fa. La lingua ebraica è carica di memoria e porta in sé tutti gli aspetti della nostra vita reale e immaginaria, infatti il vero valore dell'ebraico sta proprio nel suo essere intriso di metafore della nostra esistenza, di rimandi a geografie e a epoche lontane, di vocaboli che provengono da documenti storici. Se re Salomone o Gesù Cristo venissero oggi a farci vista in Israele potrebbero benissimo capire non solo i nostri libri, ma buona parte dei nostri giornali, e questo è dovuto alla natura stessa della lingua ebraica. Non si orienterebbero altrettanto bene, nelle loro terre, Virgilo o Ovidio. Ma come lei ha osservato, è vero che i miei personaggi sono molto radicati nei luoghi in cui vivo, perché a me piace la letteratura con una impronta fortemente regionale, e anche come lettore amo seguire le descrizioni degli scrittori che si addentrano nei dettagli del loro contesto, dandomi informazioni sulla loro cultura e sulle persone che hanno intorno.
Cosa risponde a quanti si augurano che la presenza di Isarele venga boicottata?
Direi ai lettori italiani di prendersela con gli scrittori che sono la voce del governo, io non sono tra questi.

Un articolo di David Bidussa dal RIFORMISTA :


La Fiera del libro di Torino è stata tradizionalmente un grande e potente megastore del libro accompagnato da una quantità infinita di occasioni in cui ogni pubblico incontra il suo autore. Intendiamoci non necessariamente un libro è un'espressione di cultura sublime. Ma tutto serve in un paese che tradizionalmente ha un rapporto refrattario con la carta stampata e, soprattutto, alla domanda se non pensare di regalare a un conoscente un libro, risponde «ce l'ho già». Come si direbbe di una sciarpa.
La Fiera del libro è stata soprattutto per venti anni un potente luogo di passaggio di bambini, di adolescenti in caccia del loro autore di culto da cui farsi autografare la propria copia del libro. Una copia comprata allo stand dell'espositore e soprattutto una copia comprata dopo aver pagato un biglietto d'ingresso alla Fiera. Una copia comunque non comprata in libreria, dove, peraltro, si può entrare senza pagare biglietto d'ingresso.
Bene, la Fiera del libro è stata per molti anni tutto questo. Una giostra, ma soprattutto un allegro caos e andirivieni di persone che spesso i libri non li hanno mai incontrati. È stata soprattutto un grande palcoscenico dove protagonisti erano i libri.
Perché ne scrivo all'imperfetto? Perché nonostante la decisione di andare avanti, di non sottostare al ricatto, noi andremo a un evento programmato per i giorni 8-12 maggio che probabilmente sarà blindato e su cui peserà fortissimo il timore di un attentato. Dove l'inaugurazione sarà affrontata con timore e la cerimonia di chiusura, se non sarà accaduto niente nel frattempo, verrà salutata con gioia, ovvero come la fine di un incubo. Dove protagonisti saranno molti e molte cose: una città sequestrata per timori di terrorismo, una costante tensione dove il confronto e anche l'aspro dibattito sarà inevitabilmente vissuto come un evento da stadio, dove le urla saranno più forti delle argomentazioni.
Un luogo da cui fuggire velocemente o comunque da cui tenersi lontani. In ogni caso un luogo e un evento dove comunque i libri non saranno protagonisti. Protagonisti saranno altri che hanno fatto di tutto perché un evento si trasformasse in una prova muscolare politica.
È una prospettiva catastrofica? Forse. E allora consideriamo la fisionomia della discussione e delle opinioni che si sono assommate in questi giorni.
Molte ferite rimarranno sul campo. Rimarranno le parole grosse e gli spropositi di tutti coloro che hanno risposto a Valentino Parlato, insultandolo, considerandolo un «traditore». Rimarranno le considerazioni fuori luogo di molti intellettuali, tra cui quelle di Gianni Vattimo (pubblicate su La Stampa di lunedì 4 marzo).
Rimarrà il problema ancora non risolto nella testa di una parte consistente della sinistra italiana che Israele è un paese che non c'è. Infatti, la proposta che per poter parlare e discutere della realtà culturale di Israele alla Fiera del Libro occorra coinvolgere anche l'Anp solo apparentemente è una misura di par condicio culturale di due mondi che alla fine sono molto intrecciati. Essa si origina dalla convinzione che Israele ha diritto a esistere solo come parte di uno Stato che ancora non c'è e che si chiamerebbe «Stato binazionale di Palestina». Un disegno politico mai perseguito da nessuna forza politica - se non un gruppo ebraico di minoranza tra anni '20 e anni '30 - comunque dissolto settanta anni fa con la rivolta nel 1936-1939, la cui morte è stata sancita dall'Onu con il voto di spartizione del novembre 1947, che nell'elettorato israeliano ha avuto una rappresentanza nel Partito comunista israeliano, una forza pari al 2,5%, e che all'interno dell'Anp non ha avuto, né ha nessun sostenitore.
Ma non portiamo a casa solo un insieme di dati negativi. Qualcosa di positivo portiamo con noi che è bene non dissolvere.
Portiamo a casa di positivo il fatto che improvvisamente i libri sono stati percepiti come quel terreno pubblico della libertà senza i quali siamo un po' meno liberi. Non solo. Per la prima volta dopo molto tempo in modo trasversale si è prodotto uno schieramento per la libertà che sarà bene non dissolvere. Uno schieramento in cui le parole di David Grossmann su Repubblica di martedì aiutano. Perché non si tratta di trasformare la questione di Israele alla Fiera in una battaglia di civiltà e dunque dire niente spazio agli scrittori e agli intellettuali palestinesi. Si tratta di sapere discutere con cognizione di causa di che cosa significa l'immaginario letterario e culturale di una produzione saggistica e letteraria. E allora è bene ricordare che se una parte di Israele è l'espulsione dei Palestinesi, una parte di Israele è anche l'arrivo degli ebrei espulsi dai paesi arabi dopo il 1948. Di persone che da molte parti vivono sognando una casa da cui sono stati sbattuti fuori, o a cui è stato impedito di tornare e in cui è radicata una parte della propria storia e della propria persona.
Ma soprattutto portiamo a casa un dato su cui è bene riflettere, per noi e su di noi. Non tutto il mondo degli intellettuali arabi ha risposto compattamente al boicottaggio. Certo la stragrande maggioranza ha aderito, ma alcuni hanno dichiarato la loro contrarietà e lo hanno dichiarato apertamente, in solitudine, comunque in una condizione di minoranza. Khaled Fuad Allam e Tahar Ben Jallun hanno sfidato il muro di unanimità richiamato da Tariq Ramadan e dall'Associazione degli scrittori arabi al boicottaggio. Talvolta le minoranze consentono che si mantenga una soglia sottilissima ma imprescindibile di ragionevolezza.
Ma portiamo a casa anche una dimensione di disincanto. L'atteggiamento di Tariq Ramadan e dell'Associazione degli scrittori arabi va stigmatizzato non tanto per ciò che dice, ma soprattutto per la libertà che non difende. Negli stessi giorni in cui Tariq Ramadan chiedeva il boicottaggio della Fiera del Libro di Torino e di Parigi (che si svolgerà dal 15 al 19 marzo), Milan Kundera veniva censurato alla Fiera del Libro del Cairo e i suoi libri rifiutati. Ma nessuno di coloro che si sono presentati come grandi difensori della libertà e fustigatori dell'oppressione - primo Tariq Ramadan - ha trovato il tempo, le parole e il modo per uscire dal coro ed esprimere una parola di libertà per il libro. Altre guerre incombevano. Quella per Milan Kundera non era una guerra per la libertà, evidentemente. Comunque obbligava a litigare con i «propri».
Non sempre stare con il popolo è segno di libertà. Accreditarsi come intellettuali richiede produrre degli strappi con i «propri», spiegare, litigare e anche difendere dei principi se si crede e si predica il confronto; se si chiede come diritto affermativo non solo il dovere di ascoltare, ma il diritto di essere ascoltati. Altrimenti si è funzionari o megafoni del luogo comune o del «pensare pigro». Ma quella è un'altra storia. Si può egualmente scrivere libri, atteggiarsi a innovatori, ma è un «bluff».
Anche questo portiamo a casa di positivo. La convinzione che scrivere libri ed essere intellettuali sono due cose che non sempre coincidono. In un'epoca di falsi entusiasmi e di molti feticismi il disincanto è un antidoto prezioso.

Riportiamo infine la presa di posizione contro il boicottaggio di Khalid Chaouki dei Giovani musulmani italiani, che gliha procurato a attacchi denigratori da parte dei filopalestinesi più intolleranti.

“Cercate la conoscenza anche se si trovasse in Cina”. Questo è un celebre detto (hadith) del profeta Muhammad (Maometto) che contrasta drasticamente con gli appelli lanciati da alcuni esponenti musulmani e non solo per il boicottaggio della Fiera del Libro di Torino a causa della presenza di uno stand riservato agli scrittori israeliani e allo Stato di Israele come ospite d’onore.

E così dopo lo stop alla visita della delegazione musulmana alla sinagoga di Roma nei giorni scorsi, si registra una nuova crisi, questa volta a mio avviso ancora più grave perché riguardante la cultura in generale e il diritto degli intellettuali di esprimersi e confrontarsi con il loro pubblico.

Credo sia in atto oggi una evidente strumentalizzazione delle vicende politiche drammatiche in Medio Oriente al fine di evitare e boicottare non la Fiera di Torino o lo Stato di Israele, ma il confronto e il dialogo tra le persone di buona volontà facendo cadere così man mano stereotipi e pregiudizi reciproci.

Cosa impedisce a Tariq Ramadan o ad altri esponenti della cultura o della politica di confrontarsi apertamente con i loro interlocutori ebrei o israeliani? E che colpa hanno gli intellettuali ebrei o israeliani di fronte alla politica talvolta criminale portata avanti da alcuni governi israeliani come sta avvenendo a Gaza per esempio?
E d’altra parte, perché gli intellettuali arabi o musulmani non condannano esplicitamente gli attacchi contro la popolazione civile israeliana portati avanti da Hamas? Perché sono stati in silenzio di fronte alla vergognosa guerra civile tra Hamas e Fatah che ha portato a decine di vittime palestinesi? Non è forse lo stesso “double standard” che si rimprovera spesso e volentieri alla politica americana o occidentale in genere nei confronti dei paesi arabo-islamici?

Senza iniziare a fare la verifica delle reciproche responsabilità, il mio appello a Ramadan e a tutti coloro che stanno speculando su un evento come la Fiera di Torino, che ha coinvolto in passato decine di intellettuali arabi e musulmani, è quello di smetterla di far di tutto per dare ragione a Huntinghton. Lo scontro di civiltà non esiste se noi musulmani, ebrei, cristiani, laici, credenti e non credenti non lo vogliamo creare. E allora da musulmano italiano dico ai fratelli ebrei: siete i benvenuti!

 
 "In verità, nella creazione dei cieli e della terra
  e nell'alternarsi della notte e del giorno,
  ci sono certamente segni per coloro che hanno intelletto"
                                                                    Corano III, 190


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