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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Boris Pahor Necropoli 05/02/2008

Necropoli                                        Boris Pahor

 

Introduzione di Claudio Magris

 

Traduzione di Ezio Martin

 

Fazi                                                 Euro 16,00

 

 

 

E’ una domenica pomeriggio su un “nastro d’asfalto” che sale a stretti tornanti verso la montagna. Alture fitte di boschi. Turisti che vanno e vengono. Un uomo fa parte di questa processione motorizzata, sembra uguale agli altri, eppure non riesce ad “accettare fino in fondo l’idea che questo posto di montagna, cardine del mio mondo interiore, sia visitabile da chiunque”. Quando, giunto a destinazione, scende dall’auto, pare che “i visitatori …mi osservino come se di colpo fosse riapparsa sulle mie spalle la giubba a strisce e io stessi camminando sulla ghiaia con gli zoccoli”. Comincia il suo viaggio di ritorno. Qualche pagina oltre, quel viaggio sembra già finito. O forse mai cominciato: come se lui fosse rimasto lì. “Ecco, sono arrivato in fondo. Ci sono due baracche, intatte, due, come lassù vicino all’entrata. Questa qui con la porta aperta era la baracca della prigione, e ora c’è lo stesso silenzio che l’avvolgeva….”

 

Boris Pahor è un grande scrittore, oltre che un personaggio di rilievo politico e intellettuale. Nato nel 1913 in una Trieste che sente sua più di ogni altra cosa, è il primo testimone della letteratura slovena contemporanea. Durante la guerra fu deportato dai nazisti per la sua attività di resistenza. E’ passato da tanti luoghi di morte: Bergen, Dachau, Dora, Hartzungen. Nel 1966 torna, con una comitiva di turisti, al lager di Natzweiler-Struthof, nei Vosgi. Quella visita, quella specie di ritorno impossibile, innesca la memoria. Ne viene fuori il capolavoro dello scrittore, Necropoli.

 

E’ difficile definire questo libro tremendo che racconta la Shoah nell’unico modo possibile: attraverso lo sconcerto del ricordo, con l’ineludibile consapevolezza dei “limiti dell’intelligenza e della comprensione umana”, come scrive Magris. Necropoli non è infatti un romanzo in senso stretto. Non c’è trama. Il racconto si svolge infatti nel breve ma interminabile tempo della passeggiata che l’autore compie nel “suo” campo, divenuto meta turistica. Ma ogni angolo di quel luogo di cui Pahor si sente geloso (“perché occhi estranei percorrono uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi non potranno mai penetrare nell’abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana”) è una cascata di ricordi. La narrazione procede dunque sui due piani del tempo – presente e passato – che dentro la voce narrante si sovrappongono.

 

Più di un romanzo, Necropoli è una riflessione sull’impossibilità di capire quella storia. Pahor osserva le reazioni dei suoi “compagni” di visita e si rassegna al fatto che per quelle persone il male “non è così familiare e abituale come lo è per me. Non ne hanno un ricordo visivo”. Il suo, invece, si dipana nei volti dei compagni di prigionia, del soldato tedesco che gli regala mezzo bicchiere di riso bollito, nelle ossa e nelle carni dei prigionieri passati per l’infermeria dove Pahor lavorava. E’ un libro crudo, che non risparmia al lettore immagini di vita sfigurata, parole forti. Ma qui tutto è tremendamente vero, reale.

 

La scrittura non media il racconto, riproduce con assoluta fedeltà le immagini che Pahor legge dentro i propri occhi, nella memoria. Eppure non è solo cronaca, questo libro. Anzi. Vi è una continua indagine su quel male, sulla paura che per l’autore fu lo scudo contro il pericolo più grave, “quello di un totale adattamento alla realtà”. Sulla nostra incapacità di comprendere, per quanto armati delle migliori intenzioni.

 

 

Elena Loewenthal

 

Tuttolibri – La Stampa

 


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