Un brano del libro di Marek Halter "La mia ira" sul terrorismo e sulla possibilità che possa sconfiggerci
Testata: La Repubblica Data: 05 febbraio 2008 Pagina: 29 Autore: Marek Halter Titolo: «IN UN MONDO ALLA ORWELL BIN LADEN HA GIÀ VINTO»
Da La REPUBBLICA del5 febbraio 2008:
Non so che cosa mi abbia preso di accendere così presto il mattino la televisione. Ancora e ancora morti in Iraq, in India, in Israele… Alcuni individui si fanno esplodere, altri muoiono a diecine: il terrorismo. Due secoli dopo il Terrore di Robespierre e più di cento anni dopo Necaev, personaggio centrale dei Demoni di Dostoevskji, il terrorismo uccide sempre, e di preferenza gente che non ha niente a che vedere con la politica. L ´odio che ho verso quelli che seminano la morte scoppia quel mattino davanti al mio interlocutore con maggiore veemenza del solito. A ciò si aggiunge la detestabile tendenza dei nostri intellettuali e dei nostri giornalisti che, prima di condannare, cercano delle spiegazioni, persino delle scusanti. Niente mi fa adirare quanto la parola "disperazione" usata dopo ciascun cieco attentato, a Baghdad, a Nuova Delhi o a Gerusalemme. Niente m´indigna quanto la frase «Bisogna essere disperati per arrivare a questo» che in televisione accompagna spesso le immagini dei corpi devastati, compresi quelli dei kamikaze. Era un disperato, Robespierre, quando scriveva: «Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile»? Non ho mai potuto ammettere che in nome di un ideale, quale che sia, ci si arroghi il diritto di togliere una vita o di asservire un´esistenza. Pensavo e continuo a pensare che nessuna ideologia, nessun sogno, fosse pure universale, valga una vita umana. Tra i molteplici autori che ho visitato, soltanto Chateaubriand pare condividere così completamente e senza restrizioni la mia ira. In Memorie d´oltretomba scrive: «Mai l´assassinio sarà ai miei occhi un oggetto di ammirazione e un argomento di libertà; non conosco niente di più servile, di più disprezzabile, di più vile, di più ottuso di un terrorista».
Il terrorismo moderno vide la luce nel 1869 con Necaev e il suo Catechismo del rivoluzionario, Kropotkin e i nichilisti russi. Il terrorismo contemporaneo invece è nato negli anni Sessanta del novecento tra i rivoluzionari anticolonialisti del Nordafrica. Molto prima della mondializzazione sia degli attentati sia dell´economia: all´epoca, ciascun paese affrontava il proprio terrorismo. In Spagna, l´Eta, pur facendo la guerra contro il fascismo, con i suoi atti terroristici persegui va un obiettivo nazionale. Il terrorismo gauchista o fascista che colpì l´Europa degli anni Settanta segnò un cambiamento di generazione: nato nel dopoguerra, i suoi autori sognavano rivoluzioni o controrivoluzioni sociali. Nella scia degli anarchici dell´ottocento, le organizzazioni quali la Raf in Germania, le Brigate rosse in Italia o Action directe in Francia partivano dal principio che ogni Stato è uno Stato terrorista. Si arrogavano allora il diritto di opporre il terrore al terrore al fine di costringere le democrazie borghesi a rivelare il loro vero volto e lanciare una repressione che, per contraccolpo, avrebbe provocato finalmente quella presa di coscienza popolare così a lungo sperata. Era per loro il primo passo verso la rivoluzione. Non riuscirono tuttavia a sconvolgere i loro Stati né a trascinarsi dietro una frazione rilevante della classe operaia. Soltanto alcuni intellettuali, fra cui Jean-Paul Sartre, mostrarono una compiacente attenzione ai loro discorsi. Il filosofo arrivò fino a fare visita a Andreas Baader, nel dicembre 1974, nella prigione di Stammheim, in compagnia dell´avvocato Klaus Croissant e di Daniel Cohn-Bendit. Il terrorismo usa l´assassinio come mezzo politico o ideologico. Non ho mai gustato queste gioie, nemmeno quando gli ebrei vi fecero direttamente ricorso contro l´occupazione britannica della terra di Israele. Le bombe messe dall´Irgun zwai leumi e dal gruppo Stern, che uccidevano alla rinfusa ufficiali britannici e passanti innocenti, mi rivoltavano. In compenso, ammiravo il sangue freddo dei combattenti dell´Haganah e del Palmach che avvertivano la popolazione e anche le famiglie dei soldati britannici dell´imminenza di un attentato, così come ammiravo i racconti dei nostri resistenti che non hanno mai attaccato le famiglie degli ufficiali della Wehrmacht, peraltro numerose sotto l´Occupazione. Sarebbe la differenza fra il terrorismo e la Resistenza? Questione di morale? Era, ricordo, il parere di Lucie Aubrac. Il terrorismo contemporaneo ha trovato alcuni riferimenti nel Piccolo manuale del guerrigliero urbano del brasiliano Carlos Marighela, forse il primo ad avere capito a che punto il terrorismo potesse servirsi dei media. Régis Debray ha ripreso questa idea in Rivoluzione nella rivoluzione. Quante volte ho visto la sua teoria confermarsi in occasione della prima e della seconda Intifada in Palestina? Ricordo gruppi di giovani armati di pietre che attendevano l ´arrivo dei reporter televisivi, allertati per telefono, per incominciare a molestare i militari israeliani. Si può rimproverare ai giornalisti di fare il loro lavoro? Potrebbero astenersi dal filmare un evento con il pretesto che le loro immagini rischiano di amplificare e di incoraggiare le azioni terroristiche? Vedendoli fare, ho capito perché il terrorismo era impossibile nei paesi totalitari. Non perché i terroristi siano mancati all´appello, ma perché la stampa era controllata. A farmi adirare ancora oggi è il vocabolario di certi giornalisti sulle sconvolgenti immagini delle madri che si graffiano il volto davanti ai corpi dilaniati dei figli. «Risultato di un attacco di ribelli», dicono taluni. Sì, usano spesso la parola "ribelle" e talora anche "combattente" o "resistente". In che cosa gli iracheni che massacrano centinaia di iracheni sono dei ribelli? È uccidendo i loro fratelli che resistono all´esercito americano? Ho sempre detto e ripetuto che la violenza incomincia dove termina la parola, ma le parole non devono mai giustificare la violenza. Con la mondializzazione e la delocalizzazione, il terrorismo ha cambiato ancora volto. È diventato transnazionale. La lotta palestinese per esempio interessa i suoi alleati e i suoi seguaci solo perché serve loro a mobilitare per altre cause. Niente di più. La questione dello Stato palestinese, in compenso, non li mobilita gran che. Il terrorismo moderno non mira a Israele in particolare, ma al mondo. Non si riferisce a tale o talaltra rivendicazione nazionale, ma al Corano. Al Qaeda ha rimpiazzato il Komintern, e Maometto Karl Marx. Gli ex comunisti che ho conosciuto al Cairo o a Alessandria pregano oggi per i Fratelli musulmani, con il rosario in mano. Francis Fukuyama scrive: «Il conflitto attuale è sintomatico di una battaglia di retroguardia condotta da quelli che si sentono minacciati dalla modernizzazione e quindi dalla sua componente morale, il rispetto dei diritti dell´uomo». Osserva inoltre che, per i terroristi islamici, il nemico assoluto è «il carattere laico della concezione occidentale dei diritti».
Sono sul punto di vincere? Dipende da noi, non da loro. Infatti, curiosamente, incominciano ad arrivare a quello che gli anarchici e poi i gauchisti non hanno mai ottenuto: «Trasformare la crisi politica in un conflitto armato tramite una serie di azioni violente che forzeranno il potere a trasformare la democrazia in situazione militare», scrive Marighela. Basta prendere l´aereo per accorgersene. Incominciamo dai nostri aeroporti. Il numero di soldati e di poliziotti armati che li pattugliano ci dà già l´impressione di vivere in un paese in stato di guerra. I controlli, le perquisizioni, la tensione che vi regna, la dipendenza dei viaggiatori soggetti all´umore dei servizi di sicurezza privati ci fanno dimenticare i benefici della libera circolazione degli uomini stabilita dalle democrazie occidentali. E, se si aggiungono, sempre per il nostro bene e la nostra sicurezza, i controlli sulle strade, nei negozi, all´ingresso delle discoteche, dei ristoranti e la videosorveglianza, si deve concludere che Bin Laden e i suoi amici, che forse hanno letto Orwell, se la stiano davvero ridendo, in fondo alle loro grotte afgane. Hanno già vinto? Sono furibondo.