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La città delle rose Dalia Sofer
Traduzione di Caterina Lenzi
Piemme Euro 16,50
Quando Dalia Sofer lasciò l’Iran, nel 1982, aveva appena dieci anni. La sua famiglia, ebrea, aveva vissuto e prosperato sotto lo scià. Cambiato il regime, il padre, dopo avere conosciuto la prigione, si trasferì con moglie e figli negli Stati Uniti, dove Dalia, vive ormai da 25 anni. Quando si è sentita pronta a raccontare la sua storia, ha scelto di scrivere La città delle rose, segnalato dal New York Times come uno dei cento libri più significativi del
Perché ha scelto di scrivere un romanzo e non un memoir?
Perché desideravo ricostruire il passato reimmaginandolo. La finzione mi concede più libertà. Il memoir mi avrebbe costretto a ripercorrere il passato fedelmente, come un detective: troppo restrittivo, anche se il libro si ispira alla mia storia. Spero invece di avere dato del mio Paese una descrizione più ampia.
A quali fonti ha attinto per descrivere gli interrogatori dei guardiani della rivoluzione?
Mio padre prima di tutto, anche se lui, a differenza di Isaac, non è stato mai torturato. Ho letto diversi interrogatori per capire i metodi, ma anche i sentimenti dei prigionieri, sempre in bilico tra disperazione e speranza. Ho anche trovato delle registrazioni audio su Internet. E’ stato terribile ascoltare le voci terrorizzate dei prigionieri e il sadismo dei carcerieri.
Eppure le non dà giudizi. Per esempio del torturatore Moshen.
Ritengo che anche le persone più crudeli abbiano una loro umanità. Moshen è capace di uccidere a freddo un uomo, ma sa essere un padre affettuosissimo.
Cosa significa per un ebreo vivere in un Paese mussulmano?
Essendo cresciuta sotto il regime dello scià non ho percepito alcuna differenza. Con la rivoluzione tutto è cambiato. Nonostante il regime ufficialmente riconoscesse il giudaismo come religione, la retorica contro Israele era costante.
Tornerà in Iran?
Sì, ma non con questo regime.
Il Venerdì –
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