Pubblichiamo un’intervista di Monica Capuani pubblicata sul settimanale Donne -
La Repubblica allo scrittore israeliano Abraham Yehoshua in occasione dell’uscita del suo prossimo romanzo “Fuoco amico” da Einaudi, prevista intorno alla metà di febbraio.
E’ stanco, Abraham Yehoshua. Negli ultimi anni ha speso tante parole per commentare sui giornali il conflitto israelo-palestinese, nel fuoco del quale vive da sempre, per prefigurare una pace che oggi pare un miraggio. Nei suoi romanzi quegli stessi temi caldi scendono dalla testa dell’autorevole analista politico al cuore dello scrittore, tingendosi di sfumature più indistinte, contrastate, ambivalenti. E’ senz’altro così in Fuoco amico, che esce fra pochi giorni in Italia da Einaudi. All’apparenza è una finestra d’una settimana sulla vita di una coppia di israeliani di mezza età che abita a Tel Aviv: Yaari, progettista di ascensori, ha ereditato l’attività del padre, e ora, vecchio e malato di Parkinson, è accudito con affetto da una famiglia di filippini; Daniela, insegnante, ha un talento speciale nel capire la gente. Hanno due figli: Moran, al lavoro nell’impresa fiorente di famiglia, sposato con una donna bella e inquieta che gli ha già dato due bambini, Nofar, ragazza un po’ intrattabile, fa il suo servizio civile in un ospedale di Gerusalemme. Dopo tanti anni di matrimonio, i coniugi si separano durante la settimana della festa ebraica di Hanukkah. Daniela ha perso la sorella in Africa e ha deciso di fare visita al cognato per accedere a quel lutto che le pare sia ingiustamente attutito dalla lontananza. Yirmiyahu, però, è diventato un altro uomo: la morte del figlio per un “fuoco amico”, poi quella della moglie, hanno lavorato in lui rivoluzionando la sua visione della vita. E Israele non vuol più neanche sentirla nominare. Così, tra le pieghe della quotidianità d’una famiglia come tante, si legge una stanchezza grave, insolita per un fautore della pace quale è sempre stato Yehoshua, risultato d’una delusione generalizzata. La soluzione del conflitto pare irraggiungibile, e ognuno cerca il suo privato riparo consolatorio: chi nella rabbia d’un altezzoso esilio, chi nell’oblio rassicurante dei legami di famiglia. Istituzione che oggi solo nel contesto d’una guerra insidiosa, agghiacciante come quella del Medio Oriente, gode di una ferrea salute.
La coppia protagonista del libro è un buon osservatorio sul matrimonio: come si fa a mantenere un rapporto come quello di Yaari e Daniela?
Il segreto è conservare la condizione di parità. Negli anni uno dei due coniugi tende a diventare più forte, e l’altro a cedere a questa superiorità. Niente di più rischioso: i due devono continuare a funzionare ognuno per sé, nel rispetto dell’altro. Quello del matrimonio è un equilibrio delicatissimo, la parità è una condizione. E mai dare per scontato nulla, anche dopo 40 anni insieme: la noia irrompe nel matrimonio se il partner diventa così prevedibile che si indovina cosa farà, dirà. La condivisione d’un mondo culturale può costruire un territorio d’intesa che resiste al tempo. Avere nuovi progetti insieme, come la ristrutturazione d’un bagno, impedisce di cader nella ripetitività. Il matrimonio è un duetto musicale (è il sottotitolo di Fuoco amico): ciascun coniuge canta la sua parte.
Lei alterna molto la narrazione tra Africa e Israele. Perché?
L’incessante altalena nel racconto tra Yaari e Daniela fa sì che si possano creare tra le vicende connessioni che neanch’io immaginavo: i venti che ululano nella cabina di uno degli ascensori installati da Yaari in un condominio di Tel Aviv, sono per me le voci degli spettri delle vittime civili dell’Intifada che non trovano riposo. Negli ultimi 5 anni le morti di palestinesi e israeliani innocenti sono aumentate in maniera esponenziale: se sei nell’esercito metti in conto di morire, se sei in un caffè o su un autobus, la tua vita è spazzata via ingiustamente. Proprio nel momento in cui Yaari cerca la fonte di quei rumori, Daniela arriva in Africa: e Sijn Kuang, la giovane sudanese che l’accompagna al campo della spedizione scientifica in cui lavora il cognato, le racconta d’aver perso l’intera famiglia nei massacri del Sudan. E’ un’animista, dice, crede negli spiriti. In un contesto totalmente realistico, ci sono quindi continue eco metaforiche tra le due narrazioni. Un altro esempio divertente è quando i ricercatori africani mostrano a Daniela la mandibola d’un primate trovato nel loro scavo. E a Tel Aviv la nonna materna dei nipotini di Yaari li raggiunge in ritardo al caffè perché il dentista ha dovuto estrarle un dente, che lei ha portato con sé per mostrarlo. Insomma, gli ebrei vengono dalle scimmie come tutti gli altri.
Rorale, l’esperta di acustica, ricorda Ariel della Tempesta di Shakespeare. Minuscola, efebica, pare quasi un folletto…
Ogni anno io e mia moglie andiamo al festival di musica da camera del kibbutz Kfar Blum: i concerti organizzati dall’ente radiofonico sono belli. Il personaggio è nato lì: ha affinato il suo orecchio grazie alla musica, poi lo mette al servizio della tecnica. Volevo far entrare un personaggio spiazzante nell’esistenza borghese, normale, di queste famiglie di Tel Aviv. Suggerire che la vita si può organizzare nei minimi dettagli ma l’imprevedibile è dietro l’angolo. Rorale alla fine scopre il guasto tecnico che fa dannare Yaari: dovrà trattare lei con gli spettri dell’ascensore.
Il cognato Yirmiyahu è un personaggio difficile, matura una posizione di rifiuto totale per Israele.
Sì, è un personaggio nuovo nel mio universo: vuole staccarsi dalla storia, dagli ebrei. Quando Daniela arriva coi giornali israeliani, li brucia. Ma questo rifiuto non è né un atteggiamento critico né nostalgico: è la determinazione di chi dice: “Ora basta”. Ho la sensazione che questo senso di nausea di Yirmiyahu, che ho iniziato ad analizzare grazie al suo personaggio, stia crescendo molto in Israele. La gente è stanca, non guarda più il tg. Il destino ebraico, l’Olocausto, le guerre in Israele, la striscia di Gaza…: è un peso troppo grande. Siamo un popolo al quale la storia non ha mai concesso un periodo di pace, mai abbiamo vissuto in armonia col mondo. La gente sta cominciando a credere che ciò non finirà mai. Alla fine del romanzo Yaari e Daniela si rivedono all’aeroporto. Lui racconta cosa ha fatto durante la settimana, lei commenta sorridendo: “Allora ti sei goduto la vita”. Lui le chiede: “cos’hai fatto tu? Ti sei goduta la morte?” “Ho lottato contro la morte”, risponde seria. In realtà, in luoghi così lontani, i due hanno fatto la stessa cosa: Yaari ha custodito la vita in Israele, Daniela in Africa ha cercato di sconfiggere la fine spirituale che sta inghiottendo Yirmiyahu.
La minaccia della guerra rende più forte la famiglia?
Certo. Anche per i palestinesi la famiglia è importante. I miei figli maschi sono stati nell’esercito: in quel periodo erano più attaccati a noi che mai. Ricordo lo shock della morte di Uri, il figlio di David Grossman: chiamavo ogni 2-3 giorni chiedendo notizie, avevamo firmato una petizione al governo per cessare la guerra, avviare i negoziati. Rispose sua moglie, disse che Uri era stato ucciso nella notte. Sono sempre stato ottimista, confido nel potere della volontà, della ragione, della morale per cambiare l’uomo in meglio, gestire l’imprevedibile della vita. Non credo nel mistero, nel destino. Ora sono sfiduciato, fatalista sul conflitto in Israele. Ci serve l’aiuto del mondo: solo un intervento esterno assertivo, che imponga la soluzione alle parti più che suggerirla, può salvare la situazione.
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