La bandiera d'Israele alla Giornata della Memoria - La provocazione di Segre ora divide gli ebrei - Anna Frank con keffiyah:«Oltraggio» - Bufera sul nipote di Gandhi - La vera lezione di Auschwitz
Dal blog di Fiamma Nirenstein, una rticolo sulla Giornata della Memoria e sull'attualità della minaccia antisemita:
Sono passati più di 60 anni dalla Shoah e non abbiamo affatto la conferma che ci vorrebbe assicurare lo slogan preferito dalle commemorazioni:“Never again”. Mancano due garanzie fondamentali: la speranza che la vittoria della democrazia abbia confermato che la natura umana ha alla sua base una radice buona, che il destino umano sia magnifico e progressivo; e, in secondo luogo, che gli ebrei non siano di nuovo candidati allo sterminio.
Dal tempo della Shoah, nella somma indifferenza del mondo, altre stragi grandiose hanno avuto luogo, fra cui in Cambogia, in Ruanda, oggi in Darfur. Inoltre, si è consolidata una terribile invenzione nella persecuzione di massa dei civili: quella del terrorismo suicida e quella del lancio di missili su città inermi, azioni accompagnate e fomentate da valanghe di ideologia della morte.
La nostra civiltà è ancora imbelle di fronte alle nuove forme di crudeltà contemporanea; non rispondiamo adeguatamente alle forze del male. Anzi, cerchiamo giustificazioni al male stesso. Mentre, di fatto, promettiamo guerra eterna alla crudeltà in nome dei martiri della Shoah, cresce libero e persino teorizzato una specie di cannibalismo concettuale e pratico del nostro tempo: esso contempla la rivendicazione da parte di leader, applauditi da folle immense, del possesso di parte di corpi umani, di mani, di piedi, di teste; esso consente la promessa continua e reiterata da parte di vaste masse islamiche estremiste di fare a pezzi, di tagliare teste, di uccidere bambini come anticipo di soldati e quindi carne da macello per il prossimo terrorista suicida.
E gli ebrei sono innanzitutto l’oggetto preferito di minacce dirette di sterminio e di alleanze distruttive, come quella iniziata nel 2005 da Ahmadinejad con la Siria, gli Hezobllah e Hamas. L’esportazione in Europa dell’antisemitismo travestito da critica politica a Israele, è senza vergogna: il rifiuto della più alta autorità mussulmana a Roma di recarsi, invitato, in visita alla Sinagoga è insieme una negazione dell’importanza della Shoah - che del resto ormai è negata in gran parte del mondo mussulmano - ed una dichiarazione di guerra agli ebrei che hanno un rapporto affettivo con lo Stato d’Israele, ovvero quasi tutti.
Oggi, mentre commemoriamo la Shoah, l’odio antiebraico non è un fenomeno marginale, né un residuo del passato. Esso è un grande fenomeno contemporaneo con una nuova editoria, nuovi programmi televisivi, una grande produzione mediatica, nuovi slogan politici nella peggiore delle ipotesi apertamente genocidi e, in molti altri casi, sottilmente determinati a rimettere in discussione lo Stato ebraico, ovvero quel miracolo di vitalità che, unico, ci assicura davvero la promessa di quel “Never again”.
Dal CORRIEREdella SERA un articolo sull'emergere del passato nazista di Von Karajan:
BERLINO — Era, ed è, uno dei segreti aperti (e tollerati) della Germania. Il passato con simpatie — e protezioni — naziste di Herbert von Karajan, il più amato tra i direttori, quello che dopo la guerra è diventato il simbolo non solo d'un suono moderno, ma anche della rinascita, e non solo culturale, della Germania.
E mentre il Paese si appresta a festeggiare i 100 anni della sua nascita (1908-1989) con quello che sarà l'evento musicale dell'anno (festival, concerti, e l'edizione completa delle sue direzioni in 156 Cd), qualche giornale torna a rivangare il suo passato. Del quale il maestro — dice la biografia appena pubblicata dalla sua terza moglie, la modella Eliette, «Mein Leben auf seiner Seite» (la mia vita al suo fianco) — perfino con lei non ha mai voluto parlare. Ed ecco che la Welt, giornale conservatore, tira fuori quello che si sapeva, ma che il pubblico non aveva mai visto. Due tessere del partito nazionalsocialista di von Karajan, la prima del 1933, la seconda del 1935 quando s'era riscritto al partito di Hitler. «Camerata von Karajan », è il titolo di un lungo servizio. N. 1607525 il primo, quando ancora viveva a Salisburgo e l'Austria non era annessa dal Reich, n. 3430914 il secondo, iscritto alla sezione di Aachen.
Peccati di carrierismo, come s'è sempre detto? La voglia d'arrivare che lo portò a dirigere, a trent'anni, e sotto la protezioni di Göring e Goebbels, «Tristano e Isotta» di Wagner alla Staatsoper? Von Karajan pagò quella scelta, quando gli americani della Zona A gli impedirono fino agli anni Cinquanta di tornare sul palco. Né gli ebrei dimenticarono, se nel 1955 al Carnegie Hall lo accolsero con i manifesti «Lei ha aiutato Hitler a sterminare milioni di persone », e Israele si è rifiutata di ospitare i Berliner Philarmoniker, lui direttore, fino alla sua morte. Ma di questo, in Germania — nonostante qualche biografia — finora non s'è voluto parlare molto.
Da L'UNITA', un'intervista ad Elie Wiesel:
«Non possiamo, non dobbiamo dimenticare ciò che accadde nei lager nazisti. E che al fondo dell’Olocausto vi era il proposito di annientare gli ebrei, colpevoli di esistere: chi lo nega infligge alle vittime dei campi di sterminio una seconda morte». A parlare, nella Giornata delle Memoria, è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986, che nei campi di sterminio di Auschwitz (vi perse la madre, il padre e la sorellina) e Buchenwald trascorse 11 mesi.
Ricordare non è solo un tributo ai milioni di donne e uomini annientati nei lager. «L’antisemitismo e l’odio razziale - riflette Wiesel - segnano anche questo inizio secolo. Non posso perdonare gli aguzzini e coloro che ne esaltano le gesta». Parla a ragion veduta, il grande scrittore, Lui il mostro nazista l’ha visto negli occhi: «Non credo - afferma - che esista il Bene assoluto, nella mia vita, almeno, non l’ho mai incontrato . Ma il Male assoluto l’ho conosciuto e da allora non mi ha più abbandonato: l’ho visto negli occhi dei nostri carnefici, e nelle pietose giustificazioni di chi ripeteva: “Io non c'entro, non sapevo” e lo ritrovo anche oggi in chi nega che l'Olocausto fu innanzitutto il tentativo di annientare gli ebrei». Oggi ricorda Elie Wiesel, lo spettro di una nuova Shoah torna ad essere agitato da «una figura che non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare “persona non grata”, per ciò che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità. Il nome di questa persona è Mahmoud Ahmadinejad: costui rappresenta la parte più buia dell'orizzonte politico odierno». «Spero che il 2008 - afferma Elie Wiesel - possa essere davvero l’anno della pace in Medio Oriente», ma lo scenario internazionale, e non solo quello mediorientale, è segnato pesantemente dalla crescente insicurezza globale dovuta al terrorismo. «Stiamo lasciando alle nuove generazioni un mondo pieno di paura - riflette il grande scrittore della Memoria - cosa ne faremo, lo trasformeremo in una fortezza?».
Nella Giornata della Memoria, è importante raccontare soprattutto ai giovani cosa è stato l'Olocausto. Compito a cui lei non si è mai sottratto. A un ragazzo di oggi che le chiedesse: cosa è stato l'Olocausto?, che risposta darebbe?
«È stato il Male assoluto. Ecco cosa è stato. Ciò che ha caratterizzato quel periodo fu una determinazione assoluta nel pianificare e condurre a compimento l’annientamento di un popolo. Questo è stato l’Olocausto, in questo consiste la sua novità rispetto al passato: per la prima volta nella storia, si intendeva eliminare completamente dalla faccia della terra un popolo. Gli ebrei non furono perseguitati e sterminati per motivi specifici, perché credevano o non credevano in Dio, perché erano ricchi o poveri, o perché professavano ideologie nemiche: no, gli ebrei venivano uccisi, umiliati, torturati per il semplice fatto di essere tali. Perché erano colpevoli di esistere: questo è l’orrore incancellabile della Shoah».
La memoria dell'Olocausto sembra smarrirsi: c'è chi afferma che ciò è un bene, che ricordare serve solo a perpetuare antiche divisioni.
«No, no, sono assolutamente contrario. Dimenticare le vittime significa null’altro che infliggere loro una seconda morte! Una vera riconciliazione, inoltre, non può avvenire che a partire dal ricordo, preservando la memoria di ciò che furono quegli anni. È vero: oggi c’è chi esalta l’oblio, chi ritiene giunto il momento di archiviare il passato. A questa operazione sento il dovere morale di ribellarmi, ieri come oggi: perché per nessuna ragione al mondo è possibile cancellare la distinzione tra il carnefice e la sua vittima. Ed ancor oggi l’Olocausto insegna che quando una comunità viene perseguitata tutto il mondo ne risulta colpito».
Molti dei suoi libri hanno trattato il tema della memoria, del ricordo e dell'oblio, e di come la tragedia dell'Olocausto si è trasmessa di padre in figlio nel popolo ebraico, in Israele e nella Diaspora.
«È il tema dell’identità ebraica, della sua specificità che non va smarrita ma che non deve mai essere vissuta come “separazione” dal mondo dei “Gentili”. In uno dei miei libri, L'oblio, (Bompiani), il protagonista sintetizza così il suo essere ebreo: “Se sono ebreo, sono un uomo. Se non lo sono, non sono nulla. Solo così potrò amare il mio popolo senza odiare gli altri”. Questo mi ripetevo allora, nei giorni di Buchenwald, quando i nostri aguzzini volevano cancellare la nostra identità, prima di negarci la vita, per ridurci solo a numeri, quelli marchiati a fuoco sulle nostre braccia. Ma non ci sono riusciti: hanno ucciso sei milioni di ebrei ma non sono riusciti a cancellare la nostra identità. Ed è per questo che oggi, nella Giornata della Memoria, posso dire con il mio Malkiel (il protagonista dell'Oblio, ndr.): è proprio perché amo il popolo ebraico che trovo in me la forza per amare quelli che seguono altre tradizioni. Un ebreo che nega se stesso non fa che scegliere la menzogna».
Signor Wiesel, per chi ha vissuto l’esperienza dei lager nazisti ha un senso la parola «perdono»?
«È la domanda che ha accompagnato la mia esistenza di sopravvissuto. Ma parole come perdono o misericordia non trovano posto nell’inferno di Auschwitz, di Buchenwald, di Dachau, di Treblinka…. No, non è possibile perdonare gli aguzzini di un tempo e coloro che ancora oggi ne esaltano le gesta. In questi sessantatre anni, ho pregato più volte Dio e la preghiera è la stessa che recitavo quando ero rinchiuso nel lager: “Dio di misericordia, non avere misericordia per gli assassini di bambini ebrei, non avere misericordia per coloro che hanno creato Auschwitz, e Buchenwald, e Dachau, e Treblinka, e Bergen-Belsen…Non perdonare coloro che qui hanno assassinato. Ma questo non vuol dire condannare per sempre il popolo tedesco, perché noi ebrei, le vittime, non crediamo nella colpa collettiva. Solo il colpevole è colpevole».
Dal passato che non passa, ad un presente inquietante. Lei ha usato parole durissime contro il presidente iraniano Ahmadinejad. Perché?
«Perché costui, nel ridicolizzare le verità storicamente accertate, nell’offendere la memoria dei sopravvissuti all'Olocausto ancora vivi, glorifica l’arte della menzogna. Da numero uno dei negazionisti al mondo, da antisemita con una mente disturbata, dichiara che la “soluzione finale” di Hitler non è mai esistita. E non basta. Secondo Ahmadinejiad, non c’è stato un Olocausto nel passato, ma vi sarà nel futuro. Elucubrazioni di un fanatico? Sì, ma il fanatico si rivolge a folle che plaudono alle sue idee. Parole vuote? Lui non parla per nulla. Sembra impegnato nel mantenere le sue “promesse”. Sarebbe un errore mettere in dubbio la sua determinazione. Una persona non predica odio per niente. Appartengo a una generazione che ha imparato a prendere sul serio le parole del nemico. Anche perché queste parole sono accompagnate da fatti: chi c’è dietro l’organizzazione terrorista degli Hezbollah? L'Iran. L'Iran li fornisce di tutte le armi più sofisticate e degli ufficiali che addestrano le loro milizie. Ma cosa vogliono gli Hezbollah? Concezioni territoriali? No. La creazione di uno Stato palestinese che viva fianco a fianco con Israele, cosa che personalmente mi auguro? No. L’unico obiettivo di questo movimento - e del presidente iraniano - è la distruzione di Israele. Ecco perché io sostengo che Ahmadinejad non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare “persona non grata”, per quello che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità».
Nella sua visita in Israele, il presidente Usa Bush, al museo dello Yad Vashem, si è chiesto del perché gli Alleati non avessero bombardato prima Auschwitz. Secondo un filone storiografico, ciò non avvenne perché gli Alleati temevano che bombardando avrebbero ucciso migliaia di prigionieri del campo.
«Questa motivazione non regge. Prima però mi lasci dire che ho molto apprezzato le parole del presidente Bush. Il suo è stato un atto di coraggio che è mancato ai suoi predecessori…».
Lei parlava di una scusa…
«Io ero ad Auschwitz. E posso dirle che ogni volta che assieme ai miei compagni di sventura sentivamo gli aerei sorvolare Auschwitz, pregavamo che bombardassero: sarebbe stata una morte preferibile alle camere a gas. La verità è che non solo gli angloamericani ma anche i russi, avrebbero potuto bombardare i binari della ferrovia che portava ad Auschwitz. In tal modo si poteva salvare la vita di decine di migliaia di ebrei. Così non è stato. E credo che il rimorso per non aver dato l’ordine di bombardare abbia accompagnato i responsabili per tutta la loro vita».
Di seguito, scritto per Informazione Corretta, un articolo di Giorgia greco sulla Lectio Doctoralis di David Grossman all'Università di Firenze:
Firenze, 27 gennaio 2008
Non bastano le parole per raccontare l’orrore della Shoah.
Il Giorno della memoria, che ricorda il 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche dell’Armata Rossa giunsero ad Auschwitz, in Polonia, liberando i pochi superstiti del campo di sterminio è stato celebrato in tutta Italia con molte manifestazioni: visite guidate alla Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio italiano, a Fossoli, al binario 21 della Stazione di Milano il luogo dal quale seicento ebrei italiani furono caricati su vagoni bestiami e deportati ad Auschwitz, nonché reading e letture a cura di testimoni della Shoah.
Una menzione a parte merita l’iniziativa dell’Università di Firenze che in occasione di questa giornata ha conferito a David Grossman, uno dei massimi esponenti della letteratura ebraica contemporanea, la laurea honoris causa in Studi letterari e culturali internazionali.
Lo scrittore israeliano che vive a Gerusalemme è laureato in Filosofia e Teatro all’Università ebraica di Gerusalemme; dopo l’esordio alla Radio israeliana come autore e conduttore di programmi culturali e come corrispondente impegnato in servizi di carattere sociale e politico, si è dedicato completamente alla scrittura dalla fine degli anni Ottanta. Conosciuto e molto amato dal pubblico italiano, Grossman ha ricevuto numerose onorificenze tra cui ricordiamo la Medaglia del Senato e il premio Roma per la Pace e l’Azione Umanitaria mentre nel suo paese è stato insignito del Premio del Primo Ministro d’Israele per la letteratura ebraica.
Alla presenza di giornalisti e di un folto pubblico in attesa fin dalle prime ore del mattino, nella stupenda cornice dell’Aula Magna dell’Università di Firenze il rettore Augusto Marinelli ha conferito a Grossman il titolo accademico "quale riconoscimento per le sue alte qualità artistiche e il suo illuminato impegno civile".
Ed è proprio su queste tematiche oltre che sul valore del messaggio che traspare dalla narrativa dello scrittore israeliano che si è concentrata la Laudatio della professoressa Ida Zatelli, ordinario di Lingua e Letteratura ebraica.
Gli scrittori sono oggi i nuovi profeti di Israele secondo l’accezione autentica del termine: messaggeri, araldi e anche portavoce e l’ebraico nella città di Firenze vanta un’antica tradizione di studio. A confronto con il latino e il greco, usati in ambiti geografici relativamente omogenei, l’ebraico della diaspora si estendeva trasversalmente costituendo un legame interculturale, un ponte tra il mondo mussulmano e quello cristiano.
Seppur usato da una minoranza trascurabile l’ebraico come lingua franca fu l’idioma degli intellettuali che seppero fornire un contributo di indiscutibile valore al sapere moderno e alla cultura in generale.
Con i nuovi scrittori di Israele questa lingua è tornata oggi a diffondere ampiamente il suo messaggio.
Grossman, i cui lavori sono tradotti in moltissime lingue, fra le quali una particolare rilevanza riveste l’italiano, ha sperimentato nella sua narrativa considerata esemplare sia sul piano artistico che etico, diversi generi letterari: dal romanzo psicologico, a quello epistolare, a quello di formazione.
Con il suo capolavoro "Vedi alla voce: amore" – sottolinea la professoressa Zatelli – Grossman ha aperto la via del successo agli scrittori israeliani in Italia. In questo complesso volume lo scrittore ha proposto il tema della Shoah in una prospettiva nuova: la tragedia raccontata per allusioni, attraverso gli occhi di un bambino figlio di sopravvissuti, che cerca di raffigurarsi la "belva nazista" e il "paese di là".
L’autore persegue il suo scopo attraverso una ricerca linguistica originale, dimostrandosi uno dei più profondi interpreti della tragedia del popolo ebraico.
Per il protagonista bambino Momik, l’autore non ricorre al registro delle favole; il passato che Momik sente di dover rivivere per comprendere se stesso è fatto di umiliazioni, sofferenze e annientamento: un passato che nella letteratura ebraica israeliana era stato rimosso fino a quel momento.
L’autore crea un modello narrativo in grado di superare gli schemi convenzionali per dare espressione a qualcosa che è estremamente drammatico, capace di annientare chiunque ne voglia comprendere la lettura.
Al tema dell’infanzia e dell’adolescenza l’autore dedica una attenzione costante e vivissima. E’ esemplare a questo riguardo il volume "Ci sono bambini a zig zag" dove il protagonista alla vigilia del suo Bar Mitzvah, la maggiore età religiosa, compie un viaggio premio che lo porta attraverso un’incredibile serie di incontri e sorprese, vero percorso iniziatico, alla presa di coscienza di sé e degli altri.
Grazie al suo straordinario impianto strutturale, questo testo si inserisce nella migliore narrativa di iniziazione. I bambini che emergono dalle pagine di Grossman sono precoci, dotati di sensibilità straordinaria e si muovono a volte in un mondo surreale.
Un altro tema privilegiato dall’autore è l’amore vissuto sia come relazione interpersonale effettiva oppure sognata, sia come dramma dell’assenza ma sempre con un ampio rilievo alla corporeità.
David Grossman sostiene che la scrittura è la traduzione verbale di sensazioni fisiche: le espressioni mute del corpo e le sue vibrazioni trovano parola nei suoi libri. Da qui traspare anche la sua particolare attenzione al linguaggio. Nelle sue pagine compaiono codici segreti, lessici intimi privati che se condivisi con l’altro portano alla vera, unica comprensione.
La ricercatezza formale è temperata dal lirismo che si manifesta nell’indagare le più intime pulsioni dell’animo umano con puntiglio e meticolosità. La sua scrittura è sostenuta da un costante afflato etico, che pervade contenuti di scottante interesse e urgente attualità. L’ingiustizia e il disagio come fenomeni umani sono i temi portanti nella narrativa di Grossman, siano essi determinati da una particolare condizione socio-economica o da ossessione psicologica.
Ispirandosi a Sartre egli pone la libertà come argomento alla base dello scrivere, la considera l’anima stessa dell’opera letteraria: "la libertà di pensare diversamente, di guardare in modo nuovo a situazioni e persone, anche se sono i nostri nemici". Dobbiamo "permettere al nemico di essere ‘prossimo’ – foss’anche per un solo momento – con tutto ciò che questo comporta". Bisogna arrivare a "conoscere l’altro dall’interno": qui si esplica l’arte più sottile e coinvolgente dello scrittore. In questa sollecitudine dovrebbe accostarsi a lui anche l’uomo politico.
Ora che i testimoni stanno scomparendo, il compito di trasmettere la memoria, di parlare al cuore degli uomini oltre gli ambiti della ricerca specialistica, sarà sempre di più affidato all’arte dello scrittore, nuovo portavoce, nuovo profeta. Grossman che scrive spinto da una forte esigenza interiore, si è assunto questo compito, che tutti ormai ci riguarda.
All’oscurità del male ha rivolto la luce del suo lavoro e noi oggi – termina Ida Zatelli – all’arte affidiamo la memoria.
Giorgia Greco
Riportiamo di seguito un ampio stralcio della Lectio Doctoralis di David Grossman
"Il colombo viaggiatore della Shoà"
"Qui, oggi, vorrei parlare di cose sulle quali ho scritto molto, che vivo incessantemente in veste di ebreo, di israeliano e di scrittore. Cose che toccano la ferita aperta tra gli ebrei e gli altri popoli del mondo, soprattutto quelli europei.
Oggi ricorre la Giornata internazionale della Memoria. Sei milioni di ebrei morirono sul suolo d’Europa in un eccidio senza precedenti nella storia dell’umanità e dopo il quale l’umanità non fu più la stessa.
Ecco alcuni interrogativi che questa giornata risveglia: esiste oggi un dibattito sulla Shoà in quanto avvenimento dal significato universale e non esclusivamente "ebraico"? Tale dibattito è significativo, e autentico, oppure, con l’andar degli anni, si è trasformato in una sorta di obbligo formale, di tributo che il senso di colpa europeo si sente in dovere di pagare una volta all’anno agli ebrei e ai patimenti da loro subiti durante la Shoà? E noi, rappresentanti di questa generazione, di tutti i popoli e le religioni, comprendiamo l’incisività e l’attualità degli interrogativi che la Shoà ci prospetta e la rilevanza che hanno ancora oggi, soprattutto oggi?
Queste domande concernono, peraltro, anche il nostro rapporto con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione del globo; concernono l’indifferenza che il mondo mostra, di volta in volta, verso episodi di massacro in Ruanda, in Congo, in Kosovo, in Cecenia, nel Darfur; concernono la malvagità e la crudeltà del genere umano che nel periodo della Shoà si profilarono come concreta possibilità di comportamento. In che modo trovano espressione nella nostra vita e quale influenza hanno sulla conformazione e sulla condotta del genere umano?
In altre parole: la memoria che serbiamo della Shoà può essere veramente una sorta di segnale d’avvertimento morale? E siamo noi in grado di trasformare i suoi insegnamenti in parte integrante della nostra vita?
A causa del poco tempo a disposizione vorrei parlare solo di un determinato aspetto della memoria della Shoà, e di come, a mio parere, sia possibile rivitalizzare il dibattito intorno ad essa e renderlo più rilevante nella vita di ciascuno di noi.
Quanto più ci allontaniamo dall’epoca degli avvenimenti, quanto più il numero dei sopravvissuti diminuisce, tanto più cresce il timore che il dibattito sulla Shoà rimanga circoscritto a un ambito accademico e astratto e perda gradualmente il legame con una dimensione umana, personale, privata.
Apparentemente questo è un processo naturale: coloro che ricordano si allontanano dalla sofferenza personale delle vittime a favore di una prospettiva storica più ampia, generale, teorica. In un certo senso è più facile, e persino "comodo", occuparsi di un evento storico traumatico con gli strumenti del pensiero astratto e del dibattito concettuale piuttosto che esporsi, di volta in volta, alle atrocità, all’insopportabile sofferenza del singolo, dell’individuo, dell’uomo, della donna e del bambino vittime di quel trauma.
Noi ebrei non abbiamo altra scelta che toccare direttamente con mano la Shoà in quasi ogni circostanza o congiuntura significativa della nostra vita.La Shoà ha elaborato in noi schemi di pensiero e di condotta ravvisabili in quasi ogni ambito della nostra esistenza: dal modo in cui alleviamo ed educhiamo i figli a quello in cui lo stato di Israele affronta i problemi di sicurezza e di politica estera. Ma la Shoà è più che altro presente nel modo occulto, tragico, con cui gli israeliani e gli ebrei percepiscono la loro esistenza in quanto popolo, la loro diversità, l’agghiacciante peculiarità del loro destino, la loro estraneità fra gli altri popoli, l’esperienza della loro esistenza che appare immancabilmente fragile, incerta, sempre in bilico, e sulla quale incombe l’ombra di una qualche minaccia.
Mentre gli altri popoli possono, con relativa facilità, evitare di riflettere sulle conseguenze della Shoà – e dunque sfuggire a un dibattito profondo che le concerne – noi, in Israele, siamo condannati a dibatterle ripetutamente, a cadere talvolta nella trappola dell’angoscia esistenziale che la Shoà ha scavato in noi, a definire gli aspetti significativi della nostra vita nei termini categorici, estremi, che la Shoà ha lasciato impresso in noi. In un certo senso si può dire che il popolo ebraico, e di fatto quasi ogni ebreo, sia un colombo viaggiatore della Shoà, che lo voglia o no.
Ma affinché questa disquisizione non rimanga a un livello puramente teorico, non appaia come una sorta di dissertazione filosofica distante dagli esseri umani, vorrei raccontarvi una storia di quel periodo. Non è una storia particolarmente traumatica. Ne ho sentite di più brutte e terribili. Eppure racchiude una tale sofferenza e un tale dolore che da anni non mi dà pace.
Si tratta della vicenda di un giornalista ebreo polacco di nome Leib Rochman. Negli anni trenta del secolo scorso Rochman scriveva per un giornale in yiddish pubblicato a Varsavia. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale fece ritorno alla cittadina nella quale era nato, Minsk Mazowiecki, situata a est di Varsavia, dove si attivò come "assistente sociale" tra gli ebrei del ghetto, facendo meraviglie nel procacciare cibo agli affamati. Nel 1942 sposò Ester, anch’ella nativa del luogo, e tre mesi dopo i nazisti sterminarono la comunità ebraica. Dei seimila ebrei della cittadina ne rimasero meno di venti.
Leib ed Ester, insieme con la sorella minore di quest’ultima, riuscirono a mettersi in salvo e a trovare rifugio presso una donna polacca il cui soprannome era "Ciotka", zia in polacco, un’anziana prostituta cordiale e piena di vita. Nel suo salotto Ciotka costruì per Leib ed Ester una parete-nascondiglio, a poca distanza da quella originaria. Leib, sua moglie e sua cognata vissero nell’intercapedine tra le due pareti per quasi due anni. A un certo punto decisero di portarvi anche Haim, il fratellino minore di Ester, tenuto prigioniero in un campo dei dintorni, e consegnarono a Ciotka del denaro affinché si recasse al campo, corrompesse le guardie, liberasse Haim e lo conducesse da loro.
Ciotka si mise in viaggio ma strada facendo bevve un po’, divenne allegra, passò accanto a una fiera, salì su una giostra, si divertì e quando finì di spendere tutto il denaro che aveva con sé tornò a casa senza Haim.
Quella notte i tedeschi giustiziarono tutti i prigionieri del campo e anche Haim morì.
Quando Leib ed Ester vennero a sapere che Haim non era più in vita decisero di salvare un altro ebreo che, per quanto non fosse loro amico stretto, possedeva una vasta cultura ebraica e parlava la lingua della Bibbia. Poiché credevano che non fossero quasi rimasti ebrei al mondo, ritennero indispensabile tentare di salvare chi potesse perpetuare lo spirito e la tradizione ebraica.
A volte penso: tre ebrei vivevano dietro una parete, ignari di ciò che avveniva nel mondo, eppure decisero di salvare qualcuno in grado di tramandare l’ebraismo. Questa fu la loro considerazione a quell’epoca.
Così fecero arrivare Efraim e dopo di lui un altro ebreo, più anziano di tutti loro. Ora erano in cinque. La distanza tra le pareti era di pochi centimetri. Di notte uscivano strisciando dall’intercapedine e dormivano sul pavimento del salotto di Ciotka. La mattina, prima che il sole si levasse, rientravano strisciando attraverso un pertugio nascosto dietro a un letto, si infilavano tra le pareti e rimanevano lì, in piedi. Cinque persone, schiena contro schiena, faccia contro faccia. A causa della mancanza di spazio non potevano girarsi, né muoversi. Non potevano vedere nulla: tra le pareti regnava l’oscurità. Restavano in piedi fino al calare della notte. (….)
Rimasero nascosti fino alla fine della guerra, quando poterono uscire. Leib Rochman era molto malato e debole. I cinque abbandonarono il nascondiglio e si misero in viaggio, senza sapere per dove. Cinque ebrei pressoché nudi. Gli abiti che indossavano si erano logorati in quei due anni. Attraversarono i villaggi intorno a Lublin, bussarono a porte, supplicarono per un tozzo di pane, per un po’ d’acqua. Nessuno aprì, nessuno diede loro né pane né acqua. Ovunque andassero la gente li indicava e diceva stupita, in tono di scherno: ma come, sono rimasti così tanti ebrei? (…)
Leib ed Ester Rochman ebbero molte altre vicissitudini, attraversarono numerose nazioni e alla fine giunsero nella terra di Israele. Si stabilirono a Gerusalemme ed ebbero un figlio e una figlia. Quest’ultima, la poetessa Rivka Miriam Rochman, è una mia cara e buona amica ed è da lei che ho appreso questa storia.
Leib Rochman fu giornalista dell’emittente radio israeliana "Kol Israel" ma per gran parte della sua vita si dedicò alla scrittura. Pubblicò due romanzi e una raccolta di racconti che ritengo esempi meravigliosi di letteratura innovativa, profonda, che discende negli abissi dell’animo umano. Questa è la storia sua e di sua moglie Ester. Ci sono altre milioni di storie come questa. Ogni persona morta, o sopravvissuta, è una vicenda a sé e tutte queste storie, in apparenza, si mantengono su un piano totalmente diverso da quello su cui sono dibattute oggi, in apparenza, si mantengono su un piano totalmente diverso da quello su cui sono dibattute oggi le grandi "questioni" relative alla Shoà, sempre che siano dibattute. Tali questioni vertono soprattutto sulla negazione della Shoà, sull’incremento del numero dei neo nazisti in diverse nazioni e sul rafforzamento dell’antisemitismo nel mondo. Negli ultimi anni la discussione circa il diritto dei tedeschi di considerarsi vittime di quella guerra al pari di altri popoli, o addirittura di creare una simmetria –errata e inammissibile a mio parere – tra la loro sofferenza e quella degli ebrei durante la Shoà, si fa sempre più accesa.
Le vicende personali di Leib ed Ester Rochman, così come quelle di altri milioni di persone, si mantengono, come ho detto, su un piano diverso, ma senza di esse un dibattito sulla Shoà non sarebbe completo e sarebbe impossibile creare un legame emotivo tra le generazioni future e ciò che avvenne allora. Dirò di più: senza quelle storie personali il dibattito sulla Shoà potrebbe talvolta apparire un tentativo inconsapevole di difendersi dall’orrore palese. E, spingendoci oltre, si potrebbe ipotizzare che senza di esse il dibattito generico, di principio, si spegnerebbe lentamente.
Proprio le vicende individuali, private, sono il "luogo" più universale, la dimensione entro la quale è possibile creare il senso di identificazione umana e morale con le vittime che permette a chiunque di porsi ardui interrogativi: come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell’epoca, in quella realtà? Come mi sarei comportato se fossi stato una delle vittime, o un connazionale degli aguzzini? Ho l’impressione che fino a che non risponderemo a queste domande – ognuno per conto proprio – fino a che non ci sottoporremo a questo auto interrogatorio, non potremo dire a noi stessi di aver affrontato pienamente ciò che avvenne laggiù. E se non lo faremo, dimenticheremo.
Più si assottiglia il numero dei sopravvissuti – e malgrado il lavoro di documentazione portato avanti da "Yad vaShem", il museo israeliano dedicato alla memoria delle vittime della Shoà, e, nell’ultimo decennio, dall’archivio Spielberg – più cresce l’importanza dell’arte quale possibile mezzo per affrontare questi interrogativi. La letteratura, la poesia, il teatro, la musica, il cinema, la pittura e la scrittura sono i "luoghi" in cui l’individuo moderno può affrontare la Shoà e sperimentare le sensazioni e la particolare esperienza umana che la ricerca e il dibattito accademici solitamente non sono in grado di far rivivere.
Stalin disse una volta che la morte di un uomo è una tragedia, quella di milioni è statistica. Grazie all’arte noi siamo in grado di redimere la tragedia dalla "statistica", di riscattarla da una visione astratta, accademica, di studio. L’arte è lo strumento più accessibile e comprensibile con il quale gran parte di noi può oggi venire a contatto, direttamente e lucidamente, con la memoria della Shoà e con gli insegnamenti che da essa derivano.
E’ una grossa responsabilità per gli artisti: presentare le cose in modo immediato, non manipolativo, sentimentale, volgare o esaltato. E’ molto difficile penetrare in quelle tenebre, nel luogo dove tutte le bussole impazzirono, e mostrare chiaramente la follia di ciò che avvenne.
Mediante l’arte possiamo ravvivare il linguaggio col quale descrivere ciò che avvenne, non sedimentarci in cliché di parole e di sentimenti intesi, in verità, a proteggerci da quell’insopportabile sofferenza. Ancora e ancora, in un’infinità di varianti, dobbiamo raccontare a noi stessi e agli altri quella storia terribile, con tutte le sue atrocità ma anche con le sue scintille di luce e di pietà e di compassione e di coraggio. Raccontarne i substrati con gli strumenti della coscienza, dell’intelletto, del sentimento. Raccontarla basandoci sulla conoscenza dei fatti storici, facendo riecheggiare gli interrogativi morali, sociali e filosofici che essa risveglia, ma mantenendo sempre un legame con le vicende personali degli esseri umani che la vissero; ponendo noi stessi laggiù al posto loro, con loro.
Ancora e ancora dobbiamo tornare laggiù, identificarci totalmente con la donna, con l’uomo, con il bambino costretti a spogliarsi gli uni davanti agli altri un attimo prima di essere giustiziati e gettati in una fossa. Tornare a essere con i due bambini ebrei presi prigionieri durante un rastrellamento, mentre giocavano a pallone con i oro amici cristiani. E quando il treno che li trasportava via passò accanto al campo di calcio videro, attraverso le fessure del vagone, i loro compagni che continuavano a giocare. Tornare a essere con i residenti del ghetto di Lodz ai quali i nazisti ordinarono di scegliere ventiquattromila tra vecchi e bambini che venissero inviati allo sterminio ma ai quali promisero che se avessero scelto piccoli sotto i dieci anni, altri quattromila bambini avrebbero potuto essere salvati. Tornare a essere con le due donne e i tre uomini che per giorni e settimane e mesi e anni rimasero in piedi, al buio, tra due pareti.
Il mio modo di tornare a raccontare questa storia è stato scrivendo "Vedi alla voce: amore". Scrissi quel libro perché ero arrivato a un momento della mia vita in cui sentivo di non poterne più fare a meno. Di non poter più vivere e comprendere appieno la mia vita di essere umano, di padre, di ebreo, di israeliano e di scrittore, fintanto che non avessi sperimentato – grazie alla scrittura – l’esistenza che non avevo avuto laggiù, all’epoca della Shoà. Dovevo capire se, e in che modo, sarei stato in grado di mantenere una parvenza umana qualora mi fossi trovato laggiù, come una delle vittime, o, Dio non voglia, uno dei carnefici. Volevo sapere cosa un uomo deve cancellare – o rimuovere – dentro di sé per poter essere parte di un meccanismo omicida. In altre parole cosa avrei dovuto sopprimere di me stesso per poter sopprimere altri, o anche "soltanto" accettare quella situazione in silenzio.
E’ evidente che tali interrogativi sono pertinenti non solo al periodo della Shoà ma anche a situazioni meno estreme. La vita moderna e la società umana costituitasi intorno a noi – aggressiva, anonima, aliena – ci sfidano a porci questi interrogativi in un’infinità di contesti e di circostanze.
Ognuno di noi può rispondervi a modo proprio. Io lo faccio scrivendo. Immagino che questo sia il motivo per il quale avete deciso di concedermi oggi questa laurea ad honorem. Prometto che i miei libri continueranno a porre questi interrogativi, e cercheranno di darvi risposta. Ancora e ancora e ancora.
Dalle pagine milanesi de La REPUBBLICA del 27 gennaio, un articolo di Davide Romano
Anche quest'anno la comunità ebraica milanese porterà al corteo del Giorno
della Memoria le bandiere israeliane. Ma qual è il legame tra lo sterminio
di sei milioni di ebrei e lo Stato ebraico?
Molti credono che Israele sia "figlio della Shoah", una forma di
risarcimento agli ebrei a seguito dell'Olocausto. La realtà è invece
opposta: già dal 1917 l'Onu di allora aveva riconosciuto allo Stato ebraico
il diritto di nascere. Se non lo si fosse impedito, Israele sarebbe stato
il miglior "antidoto" alla Shoah.
Si pensi ai tanti ebrei disperati che dal 1938 - quando il regime nazista
iniziò a bruciare le sinagoghe - facevano la fila davanti alle ambasciate
straniere per i pochi visti disponibili. Se ci fosse stata un'ambasciata
israeliana, avrebbe spalancato le porte alle centinaia di migliaia di ebrei
che chiedevano asilo, salvandoli da Auschwitz.
C'è poi la storia di un mio conoscente, scomparso di recente, che forse
aiuta ancora meglio a capire il legame tra ebrei, Israele, e Shoah.
Si chiamava Tuvia. Nato in Romania, giovanissimo fu catturato dai nazisti e
deportato in un campo di concentramento, da dove riuscì miracolosamente a
fuggire. Alla fine della guerra non aveva nulla: né una famiglia, né una
casa dove tornare. L'unica speranza era partire per Tel Aviv per rifarsi una
vita. Lo fece, ma da clandestino. L'Inghilterra infatti continuava a
limitare fortemente, anche nel dopoguerra, l'immigrazione ebraica. La sua
nave fu una delle tante che la marina britannica riuscì ad intercettare. Si
ritrovò così internato, insieme a tanti scampati dai campi di concentramento
nazisti, in un campo di raccolta a Cipro. Rimase detenuto in quell'isola
fino al 1948, quando fu riconosciuta l'indipendenza di Israele. Quell'anno
cambiò la storia: finalmente esisteva un rifugio per tutti gli ebrei del
mondo. Tuvia poté così arrivare nello Stato ebraico, dove coronò il suo
sogno socialista: fu infatti tra i fondatori del kibbutz (cooperativa
socialista) Hafikim, nel nord del paese. Fu proprio lì che lo incontrai,
qualche anno fa, quando mi accennò la storia della sua vita. Gli chiesi
perché non avesse mai scritto un libro con le sue memorie. Mi rispose: "chi
lo leggerebbe? Qui in Israele quasi ogni famiglia ha una storia simile".
È tragicamente vero. Israele è lo Stato ebraico, e in quanto tale è una
nazione fatta di profughi. I primi ad arrivare furono gli ebrei che
fuggivano dai pogrom dell'Europa dell'est e della Russia, a cavallo tra
l'800 e il '900. Poi fu la volta degli scampati alla II guerra mondiale. E
ancora, nel 1948, furono quasi un milione i profughi ebrei che lasciarono i
paesi arabi per raggiungere Israele. Arrivò poi il turno degli ebrei
persiani (con l'avvento di Khomeini), degli etiopi e infine, dal 1989, del
milione di russi.
Per questo la bandiera israeliana sventola nel Giorno della Memoria: per
ricordare come si sarebbe potuta evitare la morte di tanti di quei sei
milioni di ebrei, e perché è la bandiera dei profughi più antichi e più
moderni del mondo.
Il GIORNALE pubblica due interviste sull'articolo di R. A. Segre sulla Giornata della Memoria, pubblicato il 27 gennaio.
Una ad Alfonso Arbib e una Gabriele Nissim che riportiamo:
Gabriele Nissim presiede il Comitato per la Foresta Mondiale dei Giusti, è scrittore, saggista e autore di numerosi libri legati alla Memoria, tra cui «Il Tribunale del Bene», storia di Moshé Beiski, l’uomo che creò il Giardino dei Giusti e «Una bambina contro Stalin».
Lei pensa che ci sia una forma di «vittimismo» da parte degli ebrei?
«Sono assolutamente d’accordo con il concetto di responsabilità di cui Segre parla. Oggi che il mondo nei confronti degli ebrei è cambiato, che esiste la forza di uno Stato ebraico e di una solidarietà internazionale a favore degli ebrei, oggi per loro è possibile rivendicare un’identità ebraica. Io vado tuttavia oltre al concetto di Segre e mi chiedo: cosa significa un concetto di responsabilità degli ebrei? Di più: cosa significa il Giorno della Memoria?».
Cosa significa?
«In primo luogo ritengo che la giornata della Memoria debba avere come punto di riferimento la Shoah, ma che deve essere aperta al ricordo di tutti i genocidi e i crimini nei confronti dell’umanità. Il motivo è che si fa “memoria vera” soltanto quando si vuole impedire che il Male si ripeta nella storia. Questa esperienza e questo tragedia, come sottolinea Segre, rende gli ebrei più sensibili ai drammi umani, e quindi questo patrimonio deve emergere chiaramente nel corso della Giornata della Memoria, mentre si tende a guardare con fastidio chi cerca di dare uno sguardo più trasversale (penso allo sterminio degli zingari o degli omosessuali). Secondo punto: condivido la sua osservazione di far valorizzare i Giusti perché sono uomini che si sono assunti una responsabilità del Male e sono un esempio morale per tutta Europa. Terzo punto: è fondamentale di non vedere il Giorno della Memoria come una ricorrenza che riguarda soltanto il rapporto tra ebrei e non ebrei. Gli ebrei dovrebbero dire chiaramente che l’antisemitismo non riguarda soltanto loro ma che avvelena il tessuto morale ed etico di un’intera nazione. Così la battaglia per la memoria diventa universale e non si ghettizza in un rapporto tra ebrei e non ebrei».
Esiste oggi un antisemitismo?
«Il vero problema è quello del fondamentalismo islamico e del diffuso odio nei confronti degli ebrei nel mondo arabo. L’Europa non dovrebbe più tollerare che una persona di origine ebraica non possa visitare né la Siria per esempio o l’Arabia Saudita. Come non dovrebbe più tollerare che in Iran non si possa parlare della Shoah. Riguardo invece all’Europa, la vera questione si pone nei Paesi dell’ex area sovietica: bisogna dire che non c’è stata mai una percezione dell’antisemitismo del mondo comunista e che proprio in questi Paesi la battaglia per la memoria della Shoah è ancora in corso. Passi in avanti sono stati fatti in Europa centrale, ma il tema è ancora molto complicato e scottante in Russia e in altri Paesi dell’area ex sovietica. Ancora nella Russia di Putin non c’è una Memoria pubblica per gli ebrei che furono massacrati durante l’occupazione nazista. Per non parlare poi dell’altro grande oblìo: la memoria dei Gulag che sono il tema portante dei miei ultimi libri».
Dal CORRIERE della SERA, due articoli di Alessandra Coppola su una cartolina olandese che rappresenta Anna Frank con una keffiyah, istituendo un inaccettabile paragone tra Israele e il nazismo, e su un'intervista ad Arun Gandhi , nipote del Mahatma, che rilancia accuse antisemite.
GERUSALEMME — C'è un innocuo chef con le cuffie che frigge un vinile, una ragazza in lacrime, l'ombra della bimba che vola con i palloncini disegnata da Banksy sul muro israeliano in Cisgiordania, un coniglio gigante, la riproduzione di una vecchia caricatura di Hitler che porta all'altare Stalin vestito da sposa. E c'è pure il volto di Anna Frank, la riproduzione della celebre foto in cui sorride e guarda di lato, con un'aggiunta: al collo porta una keffiyah bianca e rossa palestinese. Ironia e politica, arte e comunicazione.
Provocazione e basta secondo il Centro dell'Aja per l'Informazione e la Documentazione su Israele (Cidi): quella cartolina, infilata tra le altre in offerta nei bar e nei ristoranti olandesi, deve essere ritirata perché «offensiva, falsa, di cattivo gusto». «Anna Frank è il simbolo dell'Olocausto e della persecuzione— spiega a nome del Cidi Tuvit Shlomi al quotidiano israeliano Haaretz —. La keffiyah rappresenta la resistenza palestinese all'occupazione dello Stato ebraico. Troviamo questo accostamento inaccettabile». Il comunicato emesso dal Centro è anche più esplicito: «Israele e i palestinesi sono coinvolti in un conflitto. I palestinesi non sono perseguitati, non ci sono campi di sterminio, non c'è genocidio». L'editore delle cartoline, Boomerang, non è d'accordo. Non tanto su quest'ultimo punto, quanto piuttosto sul «cattivo gusto» dell'immagine che ha scelto di stampare. Il ritratto rivisitato della bimba del Diario morta a Bergen-Belsen, già da tempo graffito sui muri di Amsterdam, è stato realizzato da un artista conosciuto come T. con tutt'altro obiettivo, spiega ancora ad Haaretz il caporedattore Pascale Bosboom: «Creare un'immagine ideale, in cui entrambi gli Stati esistono, l'uno accanto all'altro, in pace. Un simbolo di fraternità e di riconciliazione».
GERUSALEMME — Gandhi nella trappola del conflitto mediorientale. C'è caduto anche il discendente del Mahatma, il nipote che ha ereditato la dottrina della nonviolenza e che nel nome del nonno ha fondato negli Stati Uniti un centro per la pace e il dialogo. Pure Arun Gandhi è inciampato nelle insidie della guerra tra israeliani e palestinesi. A tendergli involontariamente l'agguato è stato un forum sul sito del Washington Post, lo scorso 7 gennaio. La comunità ebraica, scrive Gandhi, «è rimasta chiusa nell'esperienza dell'Olocausto, l'ha sovraccaricata». Israele è «una nazione convinta che la propria sopravvivenza possa essere assicurata solo dalle armi e dalle bombe... Abbiamo creato una cultura della violenza che sta distruggendo l'umanità. E Israele e gli ebrei sono i principali attori». Il tempo di mettere in rete l'intervento e la comunità ebraica è insorta. «Riprovevole», accusa Larry Fine, leader della Federazione ebraica di Rochester, dove ha sede l'Istituto Gandhi.
«Penso che sia vergognoso che un centro per la pace sia guidato da un uomo gretto», si scaglia il direttore dell'Anti-Defamation League, Abraham H. Foxman. Arun Gandhi si scusa: «La mia intenzione era di generare una sana discussione sulla proliferazione della violenza. Invece le mie parole hanno provocato dolore, rabbia, imbarazzo. Mi dispiace profondamente». E si dimette dalla guida dell'Istituto. Una «notizia triste» commenta a Gerusalemme Mohammed Attar. Documentarista, Attar è stato tra gli organizzatori del viaggio di Arun Gandhi in Cisgiordania nel 2004. «Dal palco ci disse: condanno la violenza di Israele, ma allo stesso modo condanno la vostra violenza. E ad Arafat chiese: conduci il tuo popolo in modo pacifico. Quell'uomo mi ha insegnato molto. Lo conosco bene è so che neanche nel più piccolo osso del suo corpo è antisemita.
Non si è espresso in modo delicato forse, ma attaccarlo è ingiusto».
Tony Judt sul Domenicale del SOLE 24 ORE del 28 gennaio 2008 sostiene che la difesa di Israele faccia perdere alla memoria della Shoah il suo significato unversale e che, almeno in Occidente, non ci si debba preoccupare troppo dell'antisemitismo, perché le minoranze realmente discriminate e minacciate sarebbero altre.
Judt dimentica, forse volontariemente, la crescita dell'antisemitismo tra le comunità islamiche in Europa, sfociata anche in episodi di violenza, e la volontà di stati e organizzazioni terroristiche di cancellare Israele dalla faccia della terra.
Secondo la sua visione, opporsi a tutto questo è sbagliato, perché la memoria della Shoah giustifica la difesa di tutti i gruppi perseguitati, tranni che degli ebrei vivi oggi.
Una visione chiaramente ispirata dall'odio di sè, che non stupisce in un autore antisraeliano e antisionista come Judt. Piuttosto stupisce che il Domenicale del SOLE dedichi alla Giornata delle Memoria un testo di questo genere.
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