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La Stampa Rassegna Stampa
21.01.2008 Cambiare il padiglione italiano del Museo di Auschwitz
nega "ogni specificità all'orrore del Lager": un articolo di Giovanni De Luna

Testata: La Stampa
Data: 21 gennaio 2008
Pagina: 33
Autore: Giovanni De Luna
Titolo: «Se questo è un memorial»
Da La STAMPA del 21 gennaio 2008, un articolo Giovanni De Luna

Vecchio, così vecchio da essere oggi quasi incomprensibile per i visitatori. Ad allestire il padiglione italiano del Museo di Auschwitz furono chiamati Primo Levi per i testi, Luigi Nono per la colonna sonora, Ludovico di Belgioioso per l'architettura, Mario Samonà per l'affresco che decora le pareti, una lunga spirale che copre cinquecento metri quadrati, avvolgendosi per tutta la lunghezza delle vecchie camerate poste al piano terreno del Blocco 21. Si tratta di alcuni dei più bei nomi della cultura italiana, che sposarono quel progetto con una forte carica di passione politica e un profondo coinvolgimento personale. Il «memorial» fu inaugurato il 13 aprile 1980, ma la progettazione si protrasse per tutti gli Anni Settanta, restando profondamente segnata dagli aspetti politici e culturali di quel tempo. E si vede.
Oltre a Primo Levi, anche Ludovico di Belgioioso era stato deportato per motivi politici a Mauthausen. Proprio nel loro vissuto si annidano probabilmente le ragioni di un allestimento che privilegia più l'astrazione simbolica che la narrazione, più la suggestione estetica che la completezza documentaria. Ludovico di Belgioioso confessò allora l'esigenza «di dover spersonalizzare certi aspetti individuali del cumulo dei ricordi», il suo timore di usare un linguaggio retorico, «cadendo nell'episodico o nel patetico». Questa scelta, che certamente 30 anni fa aveva un suo significato e una sua valida motivazione, oggi si traduce in un percorso espositivo freddo, che non comunica né emozioni, né informazioni.
È importante adesso mettervi mano. Ogni anno circa cinquantamila italiani visitano Auschwitz (per numero di presenze siamo al terzo posto dopo tedeschi e francesi). La banchina del binario di Birkenau (la «rampa» dove avveniva la prima selezione tra chi doveva morire subito e gli altri), le macerie dei crematori III e IV fatti saltare con la dinamite dalle SS per cancellare le tracce dei loro delitti, la spianata monumentale che si affaccia sul prato dove venivano bruciati i corpi che i forni non riuscivano a smaltire sono ormai diventati «luoghi» della nostra memoria nazionale. E così anche per altri Paesi, molti dei quali hanno una propria sezione nel Museo internazionale che è stato allestito nelle baracche dei deportati. Il crollo dei regimi comunisti dell'Europa dell'Est ha portato alla chiusura dei padiglioni dell'Urss, della Repubblica democratica tedesca, della Bulgaria e alla radicale ristrutturazione di quelli dell'Ungheria, della Polonia e dell'ex Cecoslovacchia. Più in generale, la fine della guerra fredda ha comportato una drastica revisione della memoria pubblica europea, nuove ipotesi storiografiche e una diversa rappresentazione culturale della Shoah, sollecitando l'esigenza di nuovi allestimenti anche per i padiglioni della Francia (inaugurato nel 1980 e ristrutturato completamente nel 2002) e del Belgio (2003).
Così, nei padiglioni di più moderna concezione (quello dedicato allo sterminio degli zingari, inaugurato nel 2001, ma anche quello ungherese e quello francese) l'intento di documentare Auschwitz si sposa con un'esposizione che privilegia nettamente la dimensione audiovisiva e gli aspetti didattici. Nel memorial italiano nessuna documentazione; resta ancora quel grande affresco, impolverato come le ipotesi storiografiche che ne influenzarono allora la realizzazione. La spirale racconta l'occupazione delle fabbriche, l'Ordine Nuovo, Gramsci, l'antifascismo, in un discorso reso difficile dal linguaggio simbolico e comunque arduo da capire anche sul piano storico. Il timore di un eccesso di enfasi sulla ferocia della deportazione e dello stermino si tradusse in un insieme eterogeneo di episodi che alla fine negava ogni specificità all'orrore del Lager.
«Figure appena abbozzate», scrisse allora Mario Samonà per descrivere il suo affresco, «emergono dai colori che dominarono le singole epoche. Si inizia col nero del fascismo e dell'oscuro periodo della violenza più spietata e su questo colore si innestano via via il rosso del socialismo, il bianco del movimento cattolico, e il giallo col quale si tentò di disprezzare gli ebrei, mentre alla fine questi tre colori, il rosso, il bianco e il giallo trionfano, perché coloro che essi rappresentano uscirono vincenti nel terribile confronto storico con le forze oscure del totalitarismo nazifascista». È una visione che c'entra molto con lo spirito degli Anni Settanta, molto poco con Auschwitz.

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