Jean Samuel con Jean-Marc Dreyfus Mi chiamava Pikolo 18/01/2008
Mi chiamava Pikolo Jean Samuel con Jean-Marc Dreyfus Frassinelli
Ci sembrava di conoscerlo già, Pikolo. Ci sembrava di conoscere il giovane ebreo francese internato ad Auschwitz, il fattorino- scritturale del Kommando 98, perché Primo Levi ne aveva fatto l'eroe di un capitolo fra i più intensi di Se questo è un uomo. Quello dove il prigioniero piemontese recita e traduce per l'alsaziano il dantesco canto di Ulisse. Dove scava in quanto gli rimane della sua memoria di non-uomo per trasmettere al compagno il messaggio più urgente, decisivo: «Fatti non foste a viver come bruti, / Ma per seguir virtute e conoscenza». Dove si interroga con lui sul significato del disastro finale, «come altrui piacque». E dove, attraverso Dante, crede di intuire «qualcosa di gigantesco», addirittura il perché del loro essere nel Lager… Oltre sessant'anni dopo la pubblicazione di Se questo è un uomo, ci è dato adesso di meglio scoprire Pikolo: di ritrovare tutta intera la storia di Jean Samuel, scampato alla Shoah per vivere nell'Alsazia natale una lunga vita da farmacista di paese, dopo aver perduto ad Auschwitz il padre, il fratello, gli zii. Il m'appelait Pikolo si intitolano le sue memorie, recentemente pubblicate in Francia. Mi chiamava Pikolo: un titolo che basta da solo ad attestare la fedeltà di Samuel (oggi ottantacinquenne) verso colui che nel Lager osò parlargli di Ulisse. Combinando il suo bilinguismo di alsaziano con le sue nozioni di farmacista e con un'intraprendenza da tuttofare, Pikolo aveva potuto entrare nel Kommando di chimica di Auschwitz-Monowitz: la strana oasi nell'inferno che avrebbe finito per sottrarre lui, Levi, qualche decina di altri ebrei al destino comune delle «selezioni» e delle camere a gas. Tuttavia, diversamente dalla maggioranza dei Prominenten — i prigionieri- funzionari del campo: capibaracca, interpreti, medici, infermieri, scritturali —, Pikolo non aveva smesso di aiutare i compagni più sfortunati. Lui che era rimasto talmente vitale nel Lager da intestardirsi a studiare in baracca, nottetempo, l'analisi matematica! Ma più ancora che per quanto dicono di Pikolo, le memorie di Jean Samuel interessano per quanto dicono di Primo Levi. Contengono infatti la prima trascrizione integrale delle lettere che Levi e Samuel si scambiarono per molti anni dopo il 1945. Lettere che capitava a Levi di firmare con il numero di matricola tatuato sul suo braccio, preceduto dalla menzione «ex». «Primo, ex 174517»: una firma dove il sollievo dell'affrancamento dalla condizione di non-uomo faceva tutt'uno, evidentemente, con la prescienza che tale condizione lo avrebbe definito a lungo, o per sempre. Lo scambio epistolare risultò fitto soprattutto fra la primavera del 1946 e l'estate del '47, quando i due sopravvissuti di Auschwitz poterono reincontrarsi per la prima volta. Proseguì poi nei decenni, inframmezzato da nuovi incontri privati e pubblici, fino alla vigilia della morte di Levi nel 1987. E Levi stesso dovette misurare l'importanza delle cose da lui depositate nella corrispondenza con Samuel, se è vero che verso la metà degli anni Settanta richiese all'amico una copia dell'intero epistolario, non avendo conservato nel proprio archivio che la trascrizione di un paio di missive. Le lettere a Pikolo illuminano l'opera di Primo Levi di una luce tanto più utilmente laterale in quanto sono scritte in francese. Si tratta dunque di testi «franchi », liberi da quella formidabile esattezza, dalla mendeleviana precisione con cui il chimico si esprimeva nella propria lingua madre. Non che il francese di Levi fosse povero: al contrario, era meravigliosamente ricco per essere stato imparato sui banchi di scuola, prima che il prigioniero se ne impratichisse suo malgrado nella babele linguistica del Lager. Resta il fatto che Levi, esprimendosi in una lingua non sua, è condannato in queste lettere a una sorta di felice imprecisione. A un'arte del vago, quando non all'inciampo del lapsus rivelatore. Com'è seducente scoprire, in una lettera del 6 aprile 1946, che Levi definiva machins le scritture (poesie, saggi, racconti) ch'egli andava producendo su Auschwitz, e che sarebbero presto confluite in Se questo è un uomo! Machins, cioè aggeggi, così… Certamente, Levi lo diceva per modestia. Ma forse lo diceva anche per un'altra ragione. Forse lo scrittore intuiva, lucidamente, che i suoi diversi modi di declinare l'esperienza del Lager, coevi e contestuali, sfuggivano alla tipologia dei generi letterari tradizionali: sommandosi, avevano la qualità anfibia e ineffabile delle opere che fanno genere a sé. Una lettera di quindici anni più tarda, datata 31 luglio 1961, colpisce per qualcosa di più importante ancora. È la lettera in cui Levi, sulla base di appunti presi subito dopo il ritorno da Auschwitz, partecipa a Pikolo i nomi di ben quarantacinque internati ebrei del Kommando 98, accompagnando l'elenco con rapide (e sapide) annotazioni sulla loro rispettiva personalità. Di oltre la metà dei quarantacinque prigionieri, Levi sostiene di ricordarsi distintamente il volto e la voce. Quel che più conta, Levi si dice in grado di classificarli tutti, a colpo sicuro («sans hésitation»), in una delle tre categorie: «les bons, les mauvais et les musulmans». I buoni, i cattivi e i musulmani? Ecco una formulazione sorprendente per chiunque abbia familiarità con l'antropologia concentrazionaria di Levi, fondata sull'assunto che nel Lager esistevano soltanto due categorie di ebrei prigionieri: i sommersi (appunto, i cosiddetti musulmani: deboli, inetti, votati alla selezione) e i salvati (i Prominenten, ma in generale tutti quelli disposti, per sopravvivere, a farsi bruti fra i bruti). Antropologia rigorosamente binaria: «Una terza via esiste nella vita, dov'è anzi la norma; non esiste in campo di concentramento», si era letto in Se questo è un uomo. Antropologia indifferente ad altre coppie di contrari, a cominciare da quella buoni/cattivi: «Lo spazio per le scelte (in specie, per le scelte morali) era ridotto a nulla», si leggerà nel successivo I sommersi e i salvati. Giunge dunque inattesa la classificazione tripartita del 1961, nella confidenza epistolare di Levi a Pikolo. Inattesa, e benvenuta. Perché ci parla di un altro Primo Levi, meno severamente ristretto dentro il terribile aut aut dei salvati (fra cui, si badi, lui stesso) come i peggiori e dei sommersi come i migliori. Se ha senso dirlo, un Primo Levi più «umano». Un uomo come noi, questo, pronto ad ammettere che fra i salvati del Kommando 98 c'erano stati — banalmente — sia i buoni che i cattivi.