Le testimonianze dei sopravvissuti di Terezin dopo la Shoah si sparsero per il mondo, ma restarono uniti
Testata: La Repubblica Data: 18 gennaio 2008 Pagina: 43 Autore: Andrea Tarquini Titolo: «I ragazzi di Terezin»
Da La REPUBBLICA del 18 gennaio 2008:
Erano bambini, erano destinati alle camere a gas e poi ai forni crematori. Il gas Zyklone-B, vanto tecnologico della IG Farben, avrebbe dovuto porre fine alle loro piccole vite, i perfetti forni made in Germany avrebbero ridotto i loro resti in cenere. Invece sopravvissero, in più di settecento. 732 per l´esattezza. E dopo la guerra, rimasti orfani delle famiglie sterminate nell´Olocausto, si aiutarono a vicenda. Con un networking straordinario fondarono tra di loro una comunità ante litteram, decenni prima di internet. E oggi un libro li ricorda, e nell´avvicinarsi della ricorrenza della Giornata della memoria scuote le coscienze della Germania e di tutto il Mitteleuropa. Sie waren die Boys. Die Geschichte von 732 jungen Holocaust- Ueberlebenden, cioè «Erano i Boys. La storia di 732 giovani sopravvissuti all´Olocausto», s´intitola il volume dello storico britannico Martin Gilbert, appena uscito in Germania per i tipi dell´editore Verlag fuer Berlin-Brandenburg. L´opera ha colto una delle ultime occasioni di ottenere dal vivo testimonianze, racconti e ricordi di quella generazione di bimbi e adolescenti ebrei d´Europa, una generazione giovane spezzata dal nazismo. Oggi quelli di loro ancora in vita sono tutti anziani. I 732 dei "Boys of Terezin" vivono sparsi per il mondo: chi nel Regno Unito, altri in Europa orientale, altri ancora nel nuovo mondo. Ma ancora oggi si aiutano a vicenda, e ricordano quello spirito straordinario di solidarietà che li unì nel dopoguerra. E consentì loro di sopravvivere all´incubo. «Rammento ancora quando il figlio di uno di noi Boys, ormai maggiorenne, cresciuto nel dopoguerra pacifico a differenza del papà, s´innamorò e volle sposarsi», narra Ben Helfgott, uno dei sopravvissuti che più ha aiutato Gilbert a raccogliere le testimonianze del libro, al Tagesspiegel, il quotidiano liberal di Berlino che ieri ha dedicato un´intera pagina alla storia. «Il padre gli disse: "bene, organizziamo una bella festa di matrimonio, ma sai già che ben pochi della nostra famiglia sono rimasti vivi, quindi ben pochi verranno". "No, ti sbagli, papà", gli rispose il ragazzo. "Io ho almeno settecento zii o fratelli: gli altri Terezin Boys, gli altri bimbi sopravvissuti ai forni. Ecco la mia famiglia». Terezin, Theresienstadt in tedesco, luogo così registrato negli archivi del Reichssicherheitshauptamt (Ufficio Centrale per la sicurezza del Reich, il supremo supervisore della Shoah), è una cittadina cèca. I nazisti occupanti vi costruirono un Lager speciale: riservato quasi solo ai bambini ebrei d´Europa. Fame, torture, lavoro forzato, malattie, e poi lo sterminio, separati dalle famiglie che venivano eliminate altrove, o erano state già massacrate dalle Ss. «Dopo quello che abbiamo vissuto», dice Helfgott, «avremmo dovuto diventare giovani criminali, o casi di psicopatologia sociale. Invece siamo riusciti a realizzare il sogno: sopravvivere». L´idea di organizzare il network dei Terezin Boys sopravvissuti nacque in parte grazie a Paul Yogi Mayer, ebreo berlinese scampato anche lui alla Shoah. Era un atleta di grido, ma come ebreo fu escluso dalla squadra delle olimpiadi del 1936. Due anni dopo fuggì in Gran Bretagna. Nel 1945, si prese cura lui dei 732 sopravvissuti. Oggi è ancora vivo, 95 anni ben portati. Si pose subito un compito: dare ai boys una vita normale. Lui ideò il termine boys, anche se tra i sopravvissuti c´erano pure molte ragazze. Era la parola-slogan più facile da ricordare, dette subito un´identità e un senso d´appartenenza a una comunità e una famiglia agli scampati che non avevano più nulla e nessuno alle spalle. «Io dissi subito a ciascuno di loro: vorrei per voi una vita come tutte le altre persone normali, perché voi siete normali», dice Mayer. Fu la sua terapia, funzionò come collante del networking dei ragazzi di Terezin. Meglio da Mayer che dallo psichiatra, meglio da Mayer che restare nell´Europa orientale sovietizzata e investita dal risorgere di vecchi e nuovi odii antisemiti. Incontri, dibattiti, aiuto reciproco dalla scuola al lavoro e alla vita. I boys avviarono il loro networking nel mondo libero degli anni Cinquanta, e con le loro forze ne hanno fatta di strada. Ben Helfgott divenne sportivo olimpionico britannico, premiato dalla Regina. Kurt Klappholz è stato professore di rango alla London School of Economics, Hugo Gryn fu il rabbino che dai microfoni della Bbc parlava all´ebraismo della nuova diàspora. Roman Halter, architetto e artista, progettò lo Yad Vashem, il memoriale dell´Olocausto in Israele. Successi e gioie, settecento vite normali costruite dal nulla sparsi per il mondo, grazie al networking di quella loro famiglia immaginaria e insieme reale e ben viva che si erano inventati e costruiti da soli. Al posto delle famiglie che avevano visto assassinare dai nazisti. Con Paul Yogi Mayer non si parlava del passato, ma tra loro sì, ogni volta. Come se ne parla ancora oggi nei loro incontri annuali, un tragico "come eravamo" dei sopravvissuti al genocidio. Ben Helfgott era tra i ventiduemila ebrei di Piotrkow, città polacca occupata dai nazisti, che furono deportati prima nel ghetto, poi a gruppi nei campi di sterminio. «Non potete immaginare cosa abbiamo vissuto», narra a Markus Hesselmann del Tagesspiegel. «Cercavano con accanimento ognuno di noi, davano la caccia a chiunque si nascondeva. Uno dopo l´altro, vedemmo morire tutti i nostri cari». Per dieci giorni, i nazisti rinchiusero 560 persone, quasi tutte donne e bambini, in una sinagoga. Sara, la mamma di Ben, e la sorellina di lui Lusia, erano tra quei prigionieri. Ben, papà Moshe Jakov e l´altra sorella Mala riuscirono a restare nascosti nel ghetto. «Dai fili spinati che circondavano il ghetto, scorgevamo da lontano la sinagoga. Era una domenica mattina, il 20 dicembre 1942, quando vedemmo i nazisti portar via le persone dal tempio. A gruppi di un centinaio, l´uno dopo l´altro, venivano condotti verso una foresta poco distante. Cento, poi cento, poi altri cento, e poi rumori e voci lontane». Mamma Sara e la piccola Lusia furono assassinate col colpo alla nuca là nel bosco. Ben e papà Moshe Jakov furono portati nelle marce della morte verso Terezin, poco prima della fine della guerra. Il padre era combattivo, tentò di fuggire per unirsi a gruppi partigiani. «Fu catturato da alcuni anziani del Volkssturm, la milizia degli ultimi giorni del Reich. Lo uccisero, sebbene sapessero benissimo che la loro guerra era già perduta». Oggi i Terezin boys sopravvissuti sono diverse centinaia. Di loro, secondo Helfgott, saranno morti di vecchiaia o malattia sì e no duecento. Più di duecento si rivedono all´incontro annuale, si confortano con le loro storie di vite ricominciate, dopo. «I loro successi sono stati resi possibili proprio dal loro Gemeinschaftsgefuehl, da quel sentimento di comunità che forgiarono da soli». Nelle baracche di Terezin, confortandosi a vicenda, poi l´8 maggio 1945 l´Armata rossa liberò il campo, poi da adulti nel dopoguerra in Occidente. Pure, non tutti i ricordi del dopo-liberazione sono belli. Ben Helfgott e suo cugino tentarono di tornare a piedi nella natìa Polonia. Ufficiali polacchi li fermarono, e imposero loro l´atroce supplizio di una fucilazione simulata. «Al muro, ebrei di merda, vi eliminiamo!», gridarono. Poi decisero di lasciarli andare, «via, sono solo ragazzini». Con questo passato alle spalle, dice Helfgott, «la vendetta avrebbe potuto diventare il nostro primo obiettivo. Invece no». Decisero di ricominciare, tenendosi per mano a distanza, aiutandosi tra ragazzi. In un mondo in cui Hitler era stato spazzato via dalla macchina da guerra alleata, eppure l´antisemitismo non era morto.