Tredici soldati Ron Leshem
Traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi
Rizzoli Euro 17
Leggete Tredici soldati dell’israeliano Ron Leshem edito da Rizzoli perché affronta di petto e con infinita passione la materia più scottante della realtà d’Israele, la guerra. Sì, proprio quella cosa di lacrime e sangue, morte, menomazioni, coraggio, sacrificio, cameratismo, paura, panico, senso di perdita di sé o viceversa di volontà, da cui i più noti autori israeliani in genere si tengono lontani, se non, e non tutti, per qualche eco lontana: come non fosse abbastanza intimo e dunque universale, come non fosse accettabile, e normale (la grande aspirazione è che Israele sia un paese normale, ma normale purtroppo per ora non lo è), come se non fosse accettabile, dicevamo, parlare dei militari che perdono la vita, o che tornano a casa sfigurati, senza un braccio, una gamba.
Ed ecco che Ron Leshem, trentunenne, telavivino, liberal, dirigente in un importante canale televisivo, mai stato militare sul campo ma attento ai racconti di chi c’è andato, lo fa: senza giudicare, entrando nelle teste dei soldati, sia quando sono dei combattenti intrepidi e convinti, sia quando intrepidi lo sono lo stesso ma dubitano dell’utilità dei pericoli che corrono.
Tanta è l’empatia trasmessa, e certo non per piaggeria o retorica, ma al contrario attraverso il baratro e l’assolutezza della guerra (anche se con alcuni momenti forse ingenui usati per raccontare il lessico per altro sboccatissimo dei protagonisti), che Leshem è stato chiamato da numerose famiglie che hanno perso i loro figli nel conflitto in Libano del 2006, a tenere un discorso al funerale. Grossman ha detto di Leshem che “con la sua prosa ha creato un intero mondo”. Il prestigioso premio Sapir l’ha scelto come vincitore. E il regista Joseph Cedar ne ha tratto il film Beaufort, che ha vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino 2007 (in Italia però non è stato acquistato da nessun distributore – del resto anche il libro è rimasto in disparte – come toccasse tasti troppo sensibili e devastanti dell’esplosiva realtà israeliana per i torpidi e prevenuti palati nostrani).
Ed è a Beaufort, la fortezza crociata avamposto degli israeliani in Libano, che si svolge il romanzo, proprio nelle settimane che precedono il ritiro del 2000. “Se esiste il paradiso, il panorama è questo, se esiste l’inferno, ci si vive così” ci avverte l’io narrante , l’ufficiale Erez, che comanda una squadra di 13 uomini di stanza insieme ad altri al forte, luogo impervio e colpito continuamente dai missili e dai cecchini Hezbollah, che controllano ogni movimento e minano ogni cespuglio fuori dal grande bunker: durante le guardie (lunghe a volte fino 72 ore) proibito lasciare tracce di pipì dunque (portarsi sempre dietro una bottiglia) o di altro (portarsi sempre dietro un sacchetto di plastica), farebbero capire i propri percorsi e postazioni. Ricordarsi, se si ha fame, che “I Fonzies fanno rumore. I Dizies fanno rumore. Il Kit Kat no, se togli la carta”, e se si scioglie, pazienza.
Molti dei ragazzi non fanno parte dell’èlite del paese: vanno al fronte, odiano quelli che restano dietro le scrivanie dell’esercito, combattono per difendere il Nord Israele che potrebbe altrimenti essere raggiunto (come nell’ultima guerra o come sta avvenendo in questi giorni) dai razzi nemici, sanno di poter morire e muoiono, ma è una generazione che talvolta guarda con scetticismo la leadership e le sue scelte. In questo caso soprattutto quella del ritiro: per alcuni, come Erez, lasciare la striscia del Libano è una follia. Per altri invece il ritiro è solo troppo lento, mal diretto, mal coperto.
Erez scrive quasi un diario che apre una finestra su chi sono oggi i diciottenni israeliani: descrive i suoi compagni, il loro slang, i loro pensieri fissi – sesso, soprattutto -, l’appartenenza o meno alla propria missione, l’amicizia, la loro capacità o incapacità di controllare le emozioni di fronte alla morte: il gioco ricorrente per esorcizzarla e piangerla è dire quel che il commilitone scomparso non farà più, tipo “Ziv non canterà più “In un mare di spighe”….non si arraperà più sfogliando il catalogo di biancheria intima Lovable….e non dirà “Domai è finita”.
“Yonathan non saprà che merda ti senti quando non tira più….non piscerà con noi dalla cima più alta del Sudamerica, non fotterà la peruviana più bollente di casa Fistuk”.
Sono ragazzi: Spitzer, troppo tranquillo per il suo comandante, il grasso Itama, Bayliss così religioso, quell’esaltato di Boaz, e Eldad, un presuntuosone, Pinchuk ancora con il suo orsacchiotto in quella base da rambo, l’intellettuale di sinistra Bar-Noy, Zion ignorante come una capra, Koka semplicemente palloso. E poi Oshri, il vice di Erez, disposto a tutto per lui, e Zitlawi, un’invenzione verbale dopo l’altra, un dizionario a sé che si comunica presto ai compagni.
Cos’è Baufort per loro? Tutto. Ci si arriva con delle mutande portafortuna e magari non si tolgono più per tutto il turno di 32 giorni, a costo di puzzare come uno sterco mentre ci si raccontano i propri amori. E’ una caverna sotterranea con muri rivestiti di metallo arrugginito e letti a tre piani. E’ l’infinito oceano verde che si apre davanti agli occhi cisposi all’alba. E’ non avere un secondo di privacy, è riconoscere nel sonno l’odore degli anfibi di ciascuno. E’ non avere il tempo per fare una doccia. E’ tre ore di sonno al giorno, sedici di turno di guardia, il freddo da ghiacciaia. I colpi di mortaio che ti piovono addosso. I fruscii a un metro da te, nel buio più assoluto, la mina che scoppia. La pancia sempre sudata per la paura. Le bugie alla mamma per non farla preoccupare. La convinzione di farcela, e invece non è vero, perché si muore, i compagni cadono dilaniati di fronte a te, e tu devi trovare la forza di fermargli il sangue, o peggio di ritrovare un pezzo di corpo andato a finire lontano. Sì, muoiono, come mosche. E’ un incubo che li tiene legati, fusi, solidali fino alla fine, e oltre.
Susanna Nirenstein
La Repubblica