martedi` 26 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
17.01.2008 Così funziona il piano Petraeus
la cronaca di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 17 gennaio 2008
Pagina: 5
Autore: la redazione
Titolo: «Pennarelli, lavagne e junk food. Il piano Petraeus visto in azione»

Dal FOGLIO del 17 gennaio 2008:


Baghdad. Ieri notte dal mezzo della boscaglia sono partiti due colpi di mortaio. Sono arrivati nel parcheggio della base. Gli americani riescono a identificare il punto di partenza dei colpi con i radar di terra e lo fanno in tempo reale, ma è buio, la visibilità a piedi è limitata, i soldati sono costretti a non uscire. Decidono di ispezionare la zona il mattino dopo, anche se è quasi certo che la squadra di guerriglieri non è rimasta ad aspettare. I computer alla base osservano le traiettorie dei mortai, risalgono al luogo di lancio e lo indicano sulla mappa. Tre mezzi blindati e una dozzina di soldati si dirigono verso Hawr Rajab. E’ una zona fertile, 8.000 abitanti, senza nessuno che la curi come meriterebbe. Il reticolo di canali d’irrigazione franosi, di campi, di case e di palmeti riduce le possibilità di movimento dei mezzi. Si viaggia su strade senza asfalto per 30 minuti. Sono così strette che quando la pattuglia imbocca la direzione sbagliata deve tornare al bivio a marcia indietro. “E’ tutto un percorso obbligato – dice il soldato alla guida dell’Humvee – questo è il posto ideale per aspettarci con gli Ied”. La terra è morbida, si scava con le mani, si piazza la bomba, si ricopre. La vegetazione nasconde i fili d’innesco. La campagna giustifica la presenza di depositi con quintali di fertilizzanti, da cui i guerriglieri ricavano esplosivo. Non è micidiale come quello al plastico usato dai militari, ma è abbastanza potente da distruggere un mezzo blindato e uccidere i suoi occupanti. Hawr Rajab è un paese così vicino a Baghdad che dai tetti si vede la periferia sud. Da febbraio, quando è scattato il piano di sicurezza, è diventato un punto di passaggio obbligato e lo scalo preferito dai terroristi. Questo lato della capitale è difeso da Lions Gate, la Porta dei Leoni, un sistema di deviazioni e blocchi che spinge il traffico su una strada sola. Camion e auto finiscono in colonna, come in una tonnara. Per limitare la mobilità di al Qaida gli americani hanno fatto saltare i ponti sul canale dietro a Hawr Rajab. Vogliono filtrare gli arrivi e bloccare gli Svbied – i Suicide vehicle born improvised explosive devices, i camion bomba – prima che entrino nella capitale, “intercettarli dopo diventa inutile, hanno già vinto”. Il paesello in passato è stato sciita al cento per cento. Ma Saddam Hussein aveva troppa paura di una ribellione sciita che dal sud marciasse sulla capitale, così lo trasformò in una zona cuscinetto sunnita, trapiantando in massa famiglie di veterani. Dopo la guerra, gli estremisti hanno proliferato senza disturbo per un paio d’anni. E quando al Qaida nel 2007 è stata spinta fuori da Baghdad è stato anche peggio, è arrivata per installarsi un’altra ondata di pezzi grossi. Ora al Qaida considera il paese l’ultima stazione per immettersi nella tonnara senza attirare attenzione. Poco oltre i palmeti si sente il riverbero al suolo del rumore dei jet. In dieci minuti due bombardieri B-1 e quattro F-18 scaricano venti tonnellate di bombe su 47 obiettivi. Nell’area compresa tra Hawr Rajab, Arab Jabour e Zanbreniyah, cinque chilometri più a sud, è cominciata Marne Thunderbolt. E’ l’operazione più grande dentro un’offensiva su scala nazionale, nome in codice Phantom Phoenix, per aggredire le aree sotto il controllo di al Qaida. “Dal tempo dell’invasione nel 2003 non si vedeva un’operazione di questa intensità”, dicono gli ufficiali. Il comando vuole chiudere la partita in 140 giorni, perché questa è una guerra a scadenza. A giugno i soldati del surge finiranno i loro 15 mesi di turno e faranno i bagagli per tornare alle caserme americane (anche se il presidente Bush dice che vedrà le condizioni di sicurezza). Tutti gli airstrike sono stati concordati con osservatori iracheni. Mescolati alla popolazione, hanno raccolto informazioni sugli edifici abbandonati e occupati da al Qaida e sui depositi interrati di armi. Tre raid aerei sono stati fermati all’ultimo momento per evitare il rischio di vittime civili. Prima d’ottobre i soldati registravano un contatto con il nemico a ogni tentativo di missione. Poi anche qui è arrivata la svolta. L’aumento delle a sud, è cominciata Marne Thunderbolt. E’ l’operazione più grande dentro un’offensiva su scala nazionale, nome in codice Phantom Phoenix, per aggredire le aree sotto il controllo di al Qaida. “Dal tempo dell’invasione nel 2003 non si vedeva un’operazione di questa intensità”, dicono gli ufficiali. Il comando vuole chiudere la partita in 140 giorni, perché questa è una guerra a scadenza. A giugno i soldati del surge finiranno i loro 15 mesi di turno e faranno i bagagli per tornare alle caserme americane (anche se il presidente Bush dice che vedrà le condizioni di sicurezza). Tutti gli airstrike sono stati concordati con osservatori iracheni. Mescolati alla popolazione, hanno raccolto informazioni sugli edifici abbandonati e occupati da al Qaida e sui depositi interrati di armi. Tre raid aerei sono stati fermati all’ultimo momento per evitare il rischio di vittime civili. Prima d’ottobre i soldati registravano un contatto con il nemico a ogni tentativo di missione. Poi anche qui è arrivata la svolta. L’aumento delle truppe e l’alleanza con la popolazione sunnita, anche se molto in ritardo rispetto al resto dell’Iraq, hanno rovesciato il duello: ora è al Qaida a essere in svantaggio e a non controllare più il centro della zona. Il 22 novembre ha tentato il ritorno in massa: 50 uomini con uniformi dell’esercito iracheno – un ufficiale è sotto inchiesta per corruzione e tradimento – e un veicolo blindato rubato hanno assaltato il paese, hanno bruciato le prime case, hanno trucidato chiunque capitasse a tiro. Hanno ucciso anche mucche e pecore. Gli abitanti si sono difesi con le poche armi che ogni casa possiede e hanno chiamato in aiuto gli americani. Ci sono stati 34 morti, 19 di al Qaida. Il giorno prima del tentativo di rientro avevano sparso volantini in cui ammonivano la popolazione, meglio ritornare sulla retta via, “altrimenti vi taglieremo la testa”. Uno dei difensori è stato sorpreso da solo ed è stato decapitato. Arriva lo sceicco Mehir per scortare la pattuglia nell’ultimo tratto verso il posto di lancio. Guida un furgoncino, dietro sono aggrappati undici Clc’s, Concerned Local Citizen, i volontari locali che difendono il paese dai terroristi. A un chilometro circa di distanza si smonta e si prosegue a piedi assieme. Soldati e volontari camminano distanziati di almeno tre passi e si accovacciano a ogni sosta. Gli americani hanno le ginocchiere e potrebbero piantare un ginocchio per terra per ore. Gli iracheni hanno le sigarette. In teoria dovrebbero essere armati solo con l’Ak-47 di casa e un caricatore, in pratica hanno tirato fuori anche le vecchie mitragliatrici sovietiche dell’esercito di Saddam. Mehir taglia piano attraverso i campi e mostra i punti di passaggio, le vie di fuga, i viottoli in direzione sud che hanno usato per smaterializzarsi. “Con al Qaida continuiamo a inseguirci e a colpirci a vicenda, una volta qui e una volta là, come Tom con Jerry”. Come Tom e Jerry? “Saddam proibiva le parabole, ora stiamo scoprendo un mucchio di novità, guardiamo tanta tv”, spiega l’interprete. Gli americani ridono, ma neanche tanto. Mehir, che sotto il mantello ha una mitraglietta israeliana Uzi da 9 mm, è un survivalist, cerca di sopravvivere. Quando al Qaida era più forte nella zona, lui ne ha fatto parte. Ha passato due anni ad Abu Ghraib per un deposito clandestino di armi. Poi, come il 95 per cento dell’Iraq sunnita, ha cambiato idea. Sua moglie tra quattro mesi avrà il primo figlio. Quando la pattuglia mista arriva alla radura usata da al Qaida per sparare con i mortai non c’è nulla, torna indietro fino alle prime case per interrogare gli abitanti. I contadini escono volentieri, hanno sentito i bombardamenti, ma ieri notte non hanno visto nulla, “dopo le sei di sera fa buio, qui nessuno si azzarda a uscire”. Offrono pane schiacciato caldo e brocche d’acqua a ogni uomo. Tutti cortesi nel paese dei mortai. Conquistare la popolazione A Hawr Rajab si combatte ancora la prima fase della counterinsurgency del generale David H. Petraeus: si compete non per controllare un campo di battaglia, ma per conquistare la popolazione. Dentro il Tactical operative center dei marine a Ramadi c’è una citazione manifesto di questa guerra. “Tutti i buoni operatori rivoluzionari – la Resistenza francese, quella norvegese e ogni altra resistenza europea contro i nazisti – hanno usato tattiche di guerriglia non per battere l’esercito tedesco, cosa di cui erano profondamente incapaci, ma per stabilire un sistema competitivo di controllo sulla popolazione. Per fare questo, hanno anche dovuto uccidere qualche appartenente alle forze d’occupazione e attaccare qualche loro obiettivo militare. Ma soprattutto hanno dovuto ammazzare la loro stessa gente quando collaborava con il nemico”. E’ di Bernard Fall, geniale professore francese che vide entrambi i lati della guerra asimmetrica. Entrò nel 1942 nella Resistenza francese, quando le sorti della battaglia non erano per nulla decise, per prendere il posto del padre ucciso dai nazisti. Alla fine della guerra divenne professore nelle università americane, ma seguì per studio i suoi connazionali nella disastrosa spedizione in Indocina. Ne previde la sconfitta. Dieci anni più tardi scrisse saggi sconsolati sull’inconcludenza masochistica delle tattiche americane in Vietnam, troppo simili a quelle francesi. Spesso accompagnava i soldati americani in missione, in una specie di embed prima del tempo, anche se era un critico. Morì per una mina che esplose al passaggio del suo mezzo. Anche prima di morire dimostrò il suo intuito eccezionale, le sue ultime parole incise sul registratore degli appunti furono: “C’è qualcosa che non va, temo un’imboscata”. A Ramadi, accanto alla foto sorridente di Bernard Fall – un francese! – gli ufficiali americani hanno messo una citazione dall’Enrico V di Shakespeare. “Quando la mitezza e la crudeltà si battono per un regno, il giocatore più gentile è anche il primo a vincere”. I marine ad Anbar sono così avanti con “il sistema competitivo di controllo sulla popolazione” che i soldati girano per la città lamentandosi: “Qui ormai ci annoiamo. Vogliamo andare in Afghanistan”. Petraeus ha girato il mastodonte della macchina militare americana nella direzione giusta. Ma sono idee che stavano già circolando con prepotenza, e lui stesso le aveva applicate su scala minore quando era solo un generale a due stelle a Mosul. Del resto prima di arrivare in Iraq nel 2003 l’America aveva già truppe al lavoro in 65 paesi. In Nepal, in Georgia, in Colombia, nel Ciad, nelle Filippine. Fort Bragg è il centro delle forze speciali, i reparti più flessibili e più sgobboni quando si tratta di tattiche nuove. E vi si legge John Hersey, “Una campana per Adano”. E’ un romanzo su un ufficiale per gli affari civili che vince la diffidenza di un paesino della Sicilia nel 1944 dimostrando che è possibile una convivenza fruttuosa. Chiede ai superiori di sgombrare dalle mine tedesche il porticciolo dei pescatori, si mette in coda per il pane dietro i siciliani, aggiusta le relazioni fino a far rimettere al suo posto la campana della chiesa danneggiata dai bombardamenti. Oggi a sud di Baghdad gli ufficiali leggono “I centurioni” di Jacques Larteguy, fuori stampa, la disperata ammissione da parte dei militari francesi in Algeria che antiguerriglia e politica alta e bassa sono mischiate. “La counterinsurgency – dice Petraeus – è la versione laureata della guerra”. La pattuglia rientra a PB Stone, PB sta per patrol base. E’ una casa nel mezzo di una zona disabitata, protetta da una barriera di grossi contenitori riempiti di terra. Questi avamposti sparsi per il paese sono la mossa vincente degli americani. Quando comandava il generale William Casey, il predecessore di Petraeus, i militari lavoravano con intensità all’addestramento dell’esercito iracheno, ma uscivano poco dalle basi. Alcuni reparti iracheni freschi, fuori dalle caserme, si dissolvevano in pochi giorni. Le grandi basi in Iraq sono un non-luogo, come gli aeroporti o le stazioni nella vita civile, del tutto impermeabili a quello che succede a 50 metri dal perimetro di guardia. Dentro si è molto pensato al benessere fisico e spirituale del soldato, meno alle urgenze di una guerriglia d’attrito per riconquistare il paese metro per metro. Ci sono i corsi di yoga e il club di modellismo. Nella cappella militare c’è una meravigliosa messa Gospel cantata, con piano e batteria. E se qualche soldato se la cava meglio a leggere il tagalog, dialetto filippino, che l’inglese? C’è la Bibbia in tagalog. Fuori Abu Mussab al Zarqawi e i suoi uomini scorazzavano per le strade, ma dentro i campi da beach volley sono fatti con una qualità di sabbia importata perché il gioco ha bisogno di quella pastosa e non di quella fine e polverosa che in Iraq si trova dappertutto. Gli americani hanno importato sabbia in Iraq. Ma non riuscivano a fermare le perdite, due soldati in buona forma fisica e spirituale ammazzati al giorno. Poi è arrivata la nuova counterinsurgency. Un assioma amaro dice: “Certe volte più proteggi le tue truppe e più le stai mettendo in pericolo”. Gli avamposti come Pb Stone non hanno nemmeno l’acqua corrente e sono più esposti agli assalti. Non troppo lontano sulla strada si passa vicino ai resti di un altro avamposto, Pb Dog. L’anno scorso è stato attaccato da al Qaida con due camion bomba: il primo ha aperto un varco nel muro, il secondo è entrato dentro. Anche se i difensori hanno reagito sparando, il guidatore è riuscito a farsi esplodere e l’onda d’urto ha ucciso due di loro e stordito gli altri. Pb Dog era bersagliato così di frequente che hanno dovuto abbandonarlo. Dopo la ritirata, è stato occupato da al Qaida, ed è stato subito bombardato dagli stessi americani. Ora è una macchia di cemento forato e terra fresca. “E’ stato come ficcarci in un nido di vespe, qua e in tutto il paese – dicono – Poi, passata la prima fase, ha funzionato”. Il paradosso ha vinto. L’intensità dei combattimenti in Iraq è crollata e i soldati oggi sono più al sicuro dentro gli avamposti precari senza bagni di quanto lo erano prima dentro le grandi basi. E hanno messo in piedi un network sociale di conoscenze prezioso, oggi prenderebbero Zarqawi in metà tempo. Il cuore di questi avamposti è sempre il Cp, il command post. Sono uguali dappertutto. Dentro ai Cp, la counterinsurgency ha bisogno soprattutto di tre cose: pennarelli colorati, lavagne e junk food. Patatine in busta, doritos, nachos, roba croccante al formaggio, snack al cioccolato, poptarts al mirtillo/fragola, caffè acquoso, bevande energetiche. I command post sono sempre aperti, sono le sinapsi più ricettive dell’intero sistema. Tutte le comunicazioni via radio, sulla linea telefonica militare o via Internet passano da lì. Chi ci lavora deve smaltire in qualche modo le attese, ma per fumare bisognerebbe assentarsi, infilarsi l’elmetto, andare sul tetto, il cibo spazzatura serve bene allo stesso scopo. Alle pareti sono appese fotocartine ad alta risoluzione, scaricate dal satellite, e lavagne bianche. Le strade sulle mappe satellitari sono state rinominate dai soldati. A Ramadi la nuova toponomastica è fondata sulle star della musica, “due km su per PDiddy, gira a sinistra, supera Bowie, Ozzie e Megadeth, fermati a Prince”. A Hawr Rajab vanno forte i marchi automobilistici, “dopo Bmw giri ad angolo retto su Ferrari”. I pennarelli colorati servono a distinguere i diversi compiti. Lista della spesa. Agenda degli appuntamenti. Foto dei ricercati. Bolo, che sta per “be on the look out”, “stare all’occhio”. Bolo su una Opel verde che da due giorni gira sul lato sud del quartiere, secondo gli informatori è un’autobomba suicida che aspetta un momento di disattenzione. Bolo su questo pick up bianco quattro porte che si muove da est verso ovest. I soldati prima di uscire studiano le segnalazioni – la maggior parte arriva dalla popolazione – e al ritorno ne aggiungono altre. I computer dentro il Cp sono portatili, divisi in due categorie. Quelli con lo schermo rosso sono “classified”, riservati, e sono usati per le comunicazioni segrete. Quelli con lo schermo verde. Sono unclassified. Sopra capita di leggere una lista di progetti così: la scuola maschile e la clinica medica hanno bisogno di riparazioni, provvedere; scuola professionale per idraulici, elettricisti, carpentieri, ancora allo zero per cento, chiedere fondi al comando; rete elettrica giù in città; progetto allevamenti di polli; edificio nuovo per il municipio; progetto spazzatura in cambio di denaro, pesare i sacchi e pagare i raccoglitori. A lato di ciascun progetto c’è una percentuale che indica a che punto è la realizzazione e, in migliaia di dollari, la cifra già pagata e quella necessaria. I due ufficiali per gli affari civili a Pb Stone fumano il sigaro, sono grossi e tatuati. A pochi chilometri ci sono bombardamenti contro i resti di al Qaida, ma loro si occupano di microprestiti agli agricoltori per far partire allevamenti di pollame. “E’ il business ideale, si può cominciare con pochi pulcini e pochi dollari, l’attività cresce in fretta e il mercato è apertissimo”. L’esercito americano ha conoscenze specifiche nel campo dell’allevamento di pollame? Come fanno a sorvegliare che gli iracheni non stiano usando per altri scopi il denaro? “Ovviamente non capiamo nulla di galline. Abbiamo chiamato degli esperti negli Stati Uniti. Ci siamo fatti dire quali sono i parametri che dobbiamo controllare, i polli, i tempi, i costi. Per ora nessuno ha mai tentato di fregarci. Anzi, temono il momento in cui ce ne andremo”. E’ un altro modello di “sistema competitivo di controllo sulla popolazione”. Sheikh Ali, leader carismatico della milizia che protegge Hawr Rajab, batte sulla spalla del cappellano militare, capitano Elder. Ha appena finito di offrirgli una bottiglia di liquore, proibitissimo, che l’americano non può accettare per regola di servizio. “Stiamo discutendo della prossima apertura di un bel locale con spogliarelliste a Hawr Rajab. Niente male come idea, no? Invitiamo quelli di al Qaida. Loro devono lasciare le armi all’ingresso. Poi li uccidiamo tutti”.

Per inviare una e-mail alla redazione del Foglio cliccare sul link sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT