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La Stampa Rassegna Stampa
17.01.2008 Per fermare gli insediamenti l'America faccia così
Abraham B. Yehoshua consiglia George W. Bush

Testata: La Stampa
Data: 17 gennaio 2008
Pagina: 17
Autore: Abraham b. Yehoshua
Titolo: «Bush e le chiacchere (inutili) sui coloni illegali»
Da La STAMPA del 17 gennaio 2008, riprendiamo un articolo di Abraham B. Yehoshua

Agli inizi degli anni Sessanta, dopo l’elezione di John Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti d’America, il leader e fondatore dello stato di Israele e allora primo ministro David Ben Gurion, si recò negli Stati Uniti per incontrare le comunità ebraiche. In quegli anni il governo americano manteneva un rapporto cauto con Israele. Le relazioni fra i due stati erano corrette ma non particolarmente calorose e gli Stati Uniti si guardavano dal fornire armi allo stato ebraico. David Ben Gurion desiderava moltissimo essere ricevuto alla Casa Bianca. L'amministrazione americana tuttavia non diede il benestare al suo incontro con Kennedy per non suscitare la rabbiosa reazione degli stati arabi. Alla fine, grazie a enormi sforzi di collaboratori ebrei del giovane presidente, fu organizzato un rapido incontro fra i due in un albergo di New York, durante una sosta del presidente americano in città. Il colloquio probabilmente non fu un gran successo. Ben Gurion chiese che gli Stati Uniti fornissero a Israele missili Hawk per la difesa contraerea ma Kennedy era indeciso. Allora, così si racconta, Ben Gurion disse al collega statunitense una frase molto poco diplomatica: «Lei sa di avere battuto Nixon alle elezioni con l’esigua maggioranza di cento o duecentomila voti. Sappia quindi che i voti dell’elettorato ebraico potrebbero essere decisivi nelle prossime elezioni». Kennedy si infuriò, interruppe l’incontro e uscì dalla stanza. Solo in seguito alle insistenze di un suo collaboratore ebreo si convinse a riprendere il colloquio con il leader fondatore dello stato di Israele.
Ho ricordato questo episodio per sottolineare il lungo cammino compiuto nei rapporti tra Israele e Stati Uniti negli ultimi quarantacinque anni. Ecco che oggi un presidente americano arriva di propria iniziativa nello stato ebraico e trova il tempo di conferire con alcuni ministri di secondo piano, appartenenti a partiti di destra, per esortarli a sostenere il capo del governo israeliano nel processo di pace.
In effetti molte cose sono cambiate dai primi anni sessanta. La vittoria di Israele nella guerra del 1967 ha suscitato la sconfinata ammirazione degli americani. Il rafforzamento di una loro coscienza evangelica e messianica si è tradotto in una politica di grande sostegno a Israele, soprattutto da parte di presidenti originari del sud degli Stati Uniti. Ma più di ogni altra cosa l’efficiente lobby ebraica si è data molto da fare per rinsaldare l’amicizia tra i due stati. Quella stessa lobby alla quale Ben Gurion fece solo allusione è diventata uno strumento di grande influenza a favore di Israele all’interno dell’amministrazione americana. E così il presidente Bush, che non ha mostrato molta incertezza prima di imbarcarsi in una guerra avventurosa e dispendiosa in Iraq, già costata miliardi di dollari ai contribuenti americani (cinquanta milioni dei quali ancora non possiedono alcun tipo di assicurazione medica, un tasto dolente che viene toccato ora, durante le elezioni primarie del 2008) è venuto a supplicare personalità politiche israeliane di secondo piano di mantenere salda la coalizione di governo per poter portare a termine il suo problematico mandato con un successo in Medio Oriente.
Per dimostrare l’assurdità, o l’ingenuità, dell’atteggiamento degli Stati Uniti verso Israele è possibile portare come esempio la questione degli «insediamenti illegali».
Non essendo certo che i lettori italiani si raccapezzino in questo ginepraio permettetemi una breve premessa.
Tutti gli insediamenti eretti nei territori palestinesi-giordani conquistati nel 1967 sono da considerarsi illegali in base alla convenzione di Ginevra che proibisce la costruzione di stanziamenti civili in aree conquistate nel corso di operazioni belliche. Israele, tuttavia, cominciò a costruire, ufficialmente o ufficiosamente, colonie nelle zone occupate, in gran parte per la pressione di ebrei nazionalisti religiosi che, nonostante l’obiezione dell’esercito e dello stato, volevano mettere tutti davanti al fatto compiuto. L’opera di colonizzazione prosperava e vi fu investito molto denaro, malgrado la comunità internazionale (Usa compresi) vi si opponesse in quanto considerava quegli insediamenti un ostacolo alla pace. In anni recenti le autorità israeliane hanno vagamente promesso che, allorché la pace sarà veramente a portata di mano, una parte degli insediamenti potrebbe essere smantellata per concedere ai palestinesi la continuità territoriale necessaria per creare un loro stato. Col passare degli anni, però, quella promessa è diventata sempre più difficile da mantenere, nonostante un numero sempre maggiore di israeliani si renda conto di quanto sia insensata la presenza di colonie che rischiano di imprigionare israeliani e palestinesi in uno stato a doppia etnia il quale, col tempo, potrebbe anche diventare a maggioranza palestinese.
Oggi, ormai, non si costruiscono più nuovi insediamenti. Quelli esistenti, però, sono in costante espansione e giovani coloni, estremisti e avventurosi, hanno cominciato, di propria iniziativa - e in aperta sfida alla posizione del governo - a erigere «avamposti» in Giudea e Samaria, sia su terre palestinesi sia in zone disabitate. I ragazzi arrivano nei luoghi prescelti con qualche roulotte, si allacciano alla rete elettrica e a quella idrica con l’aiuto dell’esercito, e trasferiscono le loro giovani famiglie, stabilendo così «una nuova realtà». In Giudea e Samaria esistono già più di cento «avamposti» come quelli, che sebbene siano definiti «illegali» dalle autorità governative, non vengono smantellati per timore di scontri con elementi estremisti. Lo status di quegli avamposti è uno specchietto per le allodole che deflette l’attenzione dal cuore del problema. Infatti, anziché discutere dell’illegalità degli «insediamenti», si discute dell’illegalità degli «avamposti», rendendo così «legale» lo status della maggioranza delle colonie in cui vivono circa 250.000 israeliani.
Anche gli Stati Uniti sono caduti in questa strana trappola semantica e il loro governo chiede già da più di due anni a Israele di smantellare gli «avamposti illegali» in rispetto alla legge. Israele, dal canto suo, promette di farlo ma, incredibilmente, se ne rimane con le mani in mano.
Ed ecco che George Bush, con un nutritissimo entourage e centinaia di guardie del corpo, arriva personalmente a convincere Israele a mantenere la promessa. Ma se il presidente degli Stati Uniti avesse veramente voluto che Israele smantellasse gli «avamposti illegali» avrebbe fatto meglio a rimanere alla Casa Bianca a occuparsi dell’assicurazione medica dei suoi cittadini e a richiamare in patria il suo ambasciatore a Tel Aviv per consultazioni a tempo indeterminato. Posso assicurargli che se si fosse comportato così il governo israeliano avrebbe smantellato con grande rapidità gli avamposti illegali, gran parte dell'esecutivo israeliano avrebbe gioito in cuor suo della pressione esercitata e il governo americano avrebbe rinsaldato la fiducia di palestinesi e israeliani nel proseguimento del processo di pace.

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