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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Daniel Mendelsohn Gli scomparsi 16/01/2008

Gli scomparsi                        Daniel Mendelsohn

 

Traduzione di Giuseppe Costigliana

 

Neri Pozza                                                                  Euro 20

 

 

Anoressia per le modelle ma bulimia per gli scrittori. Se non avete nel cassetto almeno settecento pagine filate, lasciate perdere, non potete aspirare a pubblicare il romanzo dell’anno.

 

Novecento e passa sono quelle di Le benevole di Jonathan Littel, che ha spopolato con la sua SS dai modi tanto (anche un po’ troppo) francesi. Ed ecco che, puntualmente, anche “Gli scomparsi” di Daniel Mendelsohn, pubblicizzato come l’anti-Littel, si presenta in size extra-large.

 

Per la verità, in questo caso, il genere letterario giustifica, almeno in parte, l’abbondanza di parole. Gli scomparsi è infatti una saga di famiglia, anzi la storia di una mishpacha, un clan ebraico, in cui – si sa – la reticenza verbale non è una delle virtù capitali.

 

La scena si apre su un mondo tenacemente anacronistico di vecchietti dal marcato accento yiddish e dalle abitudini un po’ strampalate. Se ne vanno in giro per la Florida a raccontare barzellette spinte e a ricoprire di baci nipotini ritrosi. Gli uomini hanno “baffi ispidi e barbe così bianche da sembrare di laniccio” mentre le signore ostentano “pesanti orecchini di cristallo azzurro o giallo”. Il piccolo Daniel li vede con occhi a un tempo incantati e infastiditi. Si sente americano, eppure subisce il fascino della vecchia Europa, che fa capolino dai racconti di quegli anziani immigrati. Un’atmosfera di pacato benessere, se non che, di tanto in tanto, qualcuno scoppia a piangere nel bel mezzo di una frase. Sono i fantasmi della Shoah, che affiorano dai lividi paesaggi dei ghetti nazisti e dei campi di concentramento.

 

Daniel impara a misurare i sospiri e a far tesoro delle frasi che i sopravissuti si lasciano sfuggire, ma ancor più si esercita nella lingua segreta del rammarico, nel linguaggio cifrato di quanti, ormai al sicuro negli Stati Uniti, dovettero assistere da lontano e impotenti allo sterminio dei familiari rimasti intrappolati al di là dell’oceano.

 

E’ senz’altro questa la parte migliore del libro, col racconto del nascere della vocazione letteraria, ancora fragile e inconsapevole, di Daniel. Il modello è il nonno, orgoglioso delle proprie radici europee come di “un territorio privato in cui era possibile essere, al tempo stesso, devoto e mondano, gaudente e religioso”. Un nonno cantastorie, capace di imbastire racconti che si avvolgono su sé stessi, dove “ogni evento ne contiene un altro”, in diagonale attraverso la spirale del tempo, quasi fosse un bonario Omero Yiddish.

 

La materia del narrare è affollata d’ombre, tra cui si stagliano lo zio Shmiel, la Tante Ester e le loro quattro figlie. All’inizio del libro sappiamo solo che tutti furono uccisi dai nazisti ma, pagina dopo pagina, il dossier dei ricordi, dei dettagli concreti e delle immagini strappate dagli album di famiglia s’ingrossa sino a raggiungere le dimensioni di un inarrestabile fiume in piena.

 

Sei vittime, tra i sei milioni di ebrei scomparsi nello sterminio: troppo poco per la Storia , ma abbastanza per una narrazione che dagli Stati Uniti segue a ritroso la geografia della Shoah, tra Ucraina, Israele, Polonia e – perché no? – Svezia.

 

Non sempre però la prosa di Mendelsohn tiene il ritmo, appesantita com’è da un gusto tipicamente americano per il didascalico, e da riassunti di cultura ebraica di non dissimulata derivazione enciclopedica. Sebbene Gli scomparsi sia stato accolto da critiche entusiastiche, e da un invidiabile successo di vendita, i lidi neo-proustiani, a cui l’autore aspira, rimangono distanti. Mendelsohn offre una gradevole narrativa di consumo e buone intenzioni: non è poi così poco.

 

Giulio Busi

 

IL Sole 24 Ore

 


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