Elena Loewenthal Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio 16/01/2008
Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio Elena Loewenthal Einaudi, pagine 93, e 14,50
N on suonasse come una sorta di ironica blasfemia, verrebbe da sorridere osservando che con Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio (Einaudi, pagine 93, e 14,50) Elena Loewenthal ha davvero fatto suo il popolare principio per cui «non si butta mai via niente, come nel maiale». Arrivata forse a una svolta nell'affascinante cammino attraverso le parole e i segni e le magie del millenario alfabeto, la 48enne studiosa, scrittrice, esegeta, traduttrice torinese sembra avere voluto mettere un punto che segni, a un tempo, ciò che ha dato e ciò che ha avuto dalla decennale attività — ma meglio sarebbe dire esistenza — di ebraista. Gli studi di Torà, la passione per l'umorismo e lo jüdischer Witz, l'eccellenza e poi il primato nella traduzione dell'Israele letteraria, un po' di divulgazione rivolta ai figli e agli amici non ebrei, un mettersi generosamente in gioco per mezzo del romanzo, l'orgoglio perenne di essere donna moderna e donna della Bibbia. La somma di tutto ciò è, per Elena Loewenthal, vivere l'identità che ha bisogno di parlare di sé. «Guardarsi allo specchio, darsi un nome, un colore è il modo per scendere a patti con quella cosa scomoda e dolorosa che è l'essere ebrei. Una cosa bella finché si vuole, piena di storia e di vocazione, unica. Ma così difficile da portare che ogni tanto viene voglia di accompagnare Umberto Saba nel suo percorso di beneficenza: aiutare gli ebrei a non sentirsi — a non essere? — più tali». Scrivere di sé parla di identità allo specchio. Di Ezechiele e di Philip Roth, di Saba e di Amos Oz, Arthur Miller, Saul Bellow, Yaakov Shabtai e Paul Celan, e di Elena Loewenthal. Come sa fare lei. Con il suo linguaggio. «L'ebraico è una lingua antica. Non ha dimestichezza con l'astrazione, è molto avara di proverbi, ha svariate parole per dire "silenzio": anche questo è un segno della sua propensione alla concretezza. È una lingua corporea, fatta non di simboli ma di cose. Dotata di una straordinaria onomatopea del significato: l'ebraico parla da sé». Così, in queste pagine, nel medesimo specchio si riflettono e chiacchierano — fors'anche talvolta ridacchiano — scrittori e profeti, ebrei di ogni varietà e grandezza. E sopra, a mezz'aria, piccola piccola e un poco chagalliana, a guardare e raccontare lo spettacolo c'è lei, Loewenthal.
Stefano Jesurum Corriere della Sera del 16 gennaio 2008