Il processo di pace in Medio Oriente è soltanto un processo, e non c’è traccia di pace David Frum spiega perché. E il Jerusalem Post riporta da fonti palestinesi: Siria e Iran contro Abu Mazen
Testata: Il Foglio Data: 16 gennaio 2008 Pagina: 2 Autore: David Frum Titolo: «Ci riprova Bush - “Siria e Iran contro Abu Mazen”. Raid, razzi e cecchini a Gaza»
Da pagina 2 del FOGLIO del 16 gennaio 2008, un articolo di David Frum:
Si aspetta ormai da troppo tempo la fondazione dello stato di Palestina. Il popolo palestinese ne ha pieno e meritato diritto. Uno stato palestinese contribuirebbe alla stabilità della regione e alla sicurezza del popolo israeliano. L’accordo di pace può e deve essere stipulato entro la fine di quest’anno”. Così ha detto il presidente Bush giovedì scorso, a Gerusalemme. Queste parole sono state la conclusione di una lunga giornata, in cui George W. Bush si è impegnato nella causa palestinese in modo più profondo e personale di qualsiasi altro suo predecessore alla Casa Bianca. In una conferenza stampa rilasciata all’inizio di questa stessa giornata, il presidente Bush, alla presenza del presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, aveva dichiarato: “Sono convinto che la soluzione di due stati democratici che vivono reciprocamente in pace sia nell’interesse non solo dei palestinesi e degli israeliani, ma di tutto il mondo. Il problema è se le questioni più critiche possano essere risolte e se si possa far emergere una nuova visione, in modo che ai palestinesi la scelta appaia chiara; e la scelta è questa: volete questo stato, oppure lo status quo? Volete un futuro basato su uno stato democratico oppure volete continuare ad avere la solita vecchia situazione? E sono convinto che se si offre loro questa scelta, i palestinesi sceglieranno la pace”. Ora, se si legge con attenzione questa dichiarazione, si può notare che George W. Bush ha parlato in modo da lasciarsi un certo spazio di movimento. Ha infatti detto che il trattato di pace “può” e “deve” essere stipulato, e non semplicemente che “sarà stipulato”. Ha espresso la sua “convinzione” personale sul fatto che i palestinesi sceglieranno la pace: ossia, una semplice opinione e nulla di più. Ma, come ho detto, per accorgersi di queste scappatoie è necessario leggere con attenzione. Se invece si ascolta più distrattamente, il messaggio che ne risulta è grosso modo questo: “BUSH: PACE IN MEDIO ORIENTE ENTRO LA FINE DELL’ANNO” (ABX News.com). “BUSH ANNUNCIA UN TRATTATO DI PACE” (Associated Press). “BUSH PREVEDE L’ISTITUZIONE DI UNO STATO PALESTINESE PRIMA DELLA FINE DEL SUO MANDATO” (Usa Today). “BUSH CONCLUDE LA SUA VISITA NELLA TERRA SANTA CON L’ANNUNCIO DI UN TRATTATO DI PACE” (Agence France Presse). Bush ha messo in gioco gran parte della credibilità degli Stati Uniti per ridare vita a un nuovo processo di pace israelo-palestinese. Malgrado tutte le scappatoie che si è lasciato, non gli sarà affatto facile imboccarne una. Se il processo fallisce, avrà fallito anche lui. Quindi, ecco la domanda: c’è qualche motivo per pensare che il processo di pace non finirà in un fallimento? Il presidente Bill Clinton aveva dedicato gli ultimi mesi della sua presidenza alla stessa missione in cui si è ora impegnato Bush. Fitte sessioni di negoziati sono però finite nel nulla, anzi, in definitiva, nella seconda Intifada scatenata da Yasser Arafat nell’ottobre 2000. Clinton aveva offerto ad Arafat uno stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, una parte di Gerusalemme, il reinsediamento di alcuni profughi palestinesi in Israele e generosi aiuti finanziari. Ma Arafat all’accordo preferì la guerra. Ora il presidente Bush cerca di convincere il successore di Arafat ad accettare l’accordo che Arafat aveva rifiutato. Abu Mazen ha la capacità di farlo? Finora le prospettive non sembrano affatto promettenti. Lo schieramento palestinese continua a richiedere non solo la creazione di uno stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza ma anche il diritto dei palestinesi a trasferirsi entro i confini dello stato d’Israele. E’ il cosiddetto “diritto al ritorno” dei palestinesi, e spiega perché il negoziatore palestinese Saeb Erekat ha categoricamente rifiutato la richiesta fatta dagli israeliani nel dicembre 2007 di un riconoscimento ufficiale di Israele come stato ebraico. In qualsiasi processo di pace, Israele dovrà concedere territori, acqua e altre risorse materiali. In cambio, Israele chiede soltanto una cosa: una vera e completa pace e il riconoscimento da parte dei propri vicini come stato alla pari di tutti gli altri, con il diritto di definirsi come decidono i suoi stessi cittadini. Ma anche questo è più di quanto qualsiasi leader palestinese possa permettersi di concedere. Lo hanno ribadito più e più volte: un Israele inteso come stato ebraico non può aspettarsi alcuna pace. Come dice la vecchia battuta, il processo di pace in medio oriente è soltanto un processo, e non c’è traccia di pace. E, come lo stesso presidente Bush scoprirà suo malgrado, è proprio questo che vogliono i leader palestinesi. O meglio, non è esattamente questo che vogliono, ma sanno che non possono sopravvivere in altro modo. Insomma, il presidente viene esortato a concentrare gli ultimi suoi giorni da presidente su un’impresa già fallita in partenza. Non gli sarà di alcun beneficio, e distrarrà le sue energie da altri settori in cui invece avrebbe potuto essere molto utile. Forse Bush può pensare che promettendo una grandiosa soluzione per la Palestina riuscirà a ottenere l’appoggio dei paesi arabi del Golfo per un intervento contro l’Iran. Ma molto più probabilmente scoprirà che la possibilità di un intervento contro l’Iran è ormai diventata ostaggio di una previa soluzione per la questione palestinese. Il processo di pace in medio oriente è una macchina in panne, un enigma senza risposta, un labirinto senza uscita. Il solo modo per vincere è quello di non partecipare al gioco.
Da pagina 3:
Gerusalemme. Abu Mazen è un leader a rischio, dicono fonti dell’Autorità nazionale palestinese al Jerusalem Post. Secondo il giornale israeliano, Siria e Iran starebbero lavorando per delegittimare il presidente appoggiato da Stati Uniti e comunità internazionale. Hamas accusa il rais di “collaborazionismo” nel raid israeliano che ieri a Gaza ha ucciso 19 persone, 14 membri di gruppi armati palestinesi, tra cui il figlio ventiquattrenne dell’ex ministro degli Esteri del movimento islamista, Mahmoud Zahar. Acuni funzionari del governo di Ramallah denunciano Damasco e Teheran, responsabili di “incoraggiare” Hamas – che controlla la Striscia da giugno – e altri gruppi radicali di voler creare un’entità parallela all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), feudo per tradizione del partito del rais Abu Mazen, Fatah. Sarebbe infatti in programma, per il 23 gennaio, una conferenza a Damasco cui sono invitati dieci gruppi palestinesi. Il movimento del presidente e altri due partiti dell’Olp, il Fronte popolare per la Liberazione della Palestina e il Fronte democratico per la Liberazione della Palestina, hanno già fatto sapere che in Siria non ci saranno. Secondo la fonte del Jerusalem Post, Siria e Iran starebbero inoltre finanziando i gruppi armati palestinesi in funzione anti Abu Mazen per destabilizzare il governo di Ramallah, intento a portare avanti trattati ve per la ripresa di un processo di pace con l’esecutivo del premier israeliano Ehud Olmert. Domenica, davanti alla commissione Affari esteri e Difesa della Knesset, il Parlamento israeliano, Yuval Diskin, capo dello Shin Bet, i servizi segreti interni israeliani, ha rivelato che Hamas avrebbe fatto entrare a Gaza attraverso il valico di confine di Rafah, dall’Egitto, almeno 100 milioni di dollari negli ultimi mesi, approfittando del ritorno di pellegrini dalla Mecca. Un summit simile a quello in programma il 23 gennaio, sempre organizzato da Hamas a Damasco, era stato annunciato in concomitanza con la conferenza di Annapolis e si era poi tenuto con la sola partecipazione di gruppi radicali palestinesi a Gaza, mentre le telecamere dei mass media internazionali passavano le immagini dell’incontro americano: il leader palestinese e il premier israeliano Ehud Olmert, con la mediazione di George W. Bush, tentavano di riavviare un processo di pace in stallo dal 2001. La conferenza è stata sponsorizzata dal leader degli Stati Uniti che pochi giorni fa è stato in Israele e nei Territori palestinesi per la sua prima visita nella regione da presidente. Ieri, Mahmoud Zahar, uno dei capi di Hamas, ha accusato proprio il leader americano e il presidente palestinese della morte del figlio Hussam, ucciso in un raid dell’esercito israeliano a Gaza. Zahar, ex ministro degli Esteri del gruppo islamista, ha perso un altro figlio nel 2003 in un raid che aveva proprio lui come target. Accusa il rais Abu Mazen di “complicità” nell’operazione israeliana, nonostante le dichiarazioni scritte del governo di Ramallah: “I brutti crimini israeliani sono uno schiaffo in faccia agli sforzi di Bush” di riprendere il processo di pace. Da Damasco, il leader di Hamas in esilio Khaled Meshaal sostiene Zahar (che ha annunciato una pronta risposta del gruppo), e definisce l’azione militare di ieri “un crimine frutto della visita di Bush”. Tsahal ha portato a termine una massiccia operazione militare entrando nel nord della Striscia con carroarmati ed elicotteri per fermare il lancio di razzi Qassam sul territorio israeliano da parte di cellule terroristiche. I morti palestinesi sarebbero 19, la maggior parte membri di gruppi armati, secondo fonti israeliane, 50 i feriti. Hamas ha indetto oggi tre giorni di lutto e uno sciopero generale nell’intera Striscia di Gaza. Ieri sono caduti due razzi sui centri abitati israeliani confinanti, nella zona della cittadina di Sderot: cinque persone sono rimaste ferite. Per la prima volta da mesi, Hamas ha rivendicato il lancio di razzi su Israele. Lo ha fatto l’ala militare del gruppo islamista, le Brigate Ezzedine al Qassam, che ha anche annunciato di aver sparato venti colpi di mortaio oltre confine. Un volontario dell’Ecuador di ventun’anni è stato ucciso da un cecchino palestinese mentre lavorava in un campo di patate di un kibbutz a pochi chilometri dalla Striscia. Anche quest’attacco è stato rivendicato da Hamas. La massiccia operazione israeliana segue una serie di raid ormai a frequenza quotidiana mirati a fermare il continuo lancio di razzi sui centri urbani confinanti con la Striscia. La situazione a Gaza peggiora proprio a poche ore dall’inizio di nuove trattative tra i negoziatori palestinesi e quelli israeliani a Gerusalemme e mentre il primo ministro palestinese, Salam Fayyad, chiede da Ramallah la possibilità di far gestire all’Autorità nazionale, e non più a Israele, i valichi di confine con Gaza. Per la prima volta in anni, le parti hanno deciso di sedersi a un tavolo e discutere delle “questioni fondamentali” del conflitto israelo-palestinese: i confini, i rifugiati e lo status di Gerusalemme, grandi tabù dei negoziati. Lo hanno fatto proprio lunedì. Lo stesso giorno il premier Olmert ha incontrato il suo ministro per gli Affari strategici, Avigdor Lieberman, leader del partito ultranazionalista Israel Beitenu (Israele Casa Nostra), che si oppone alle trattative sulle questioni chiave del conflitto e minaccia di ritirare i suoi undici deputati dalla coalizione. Il primo ministro rischierebbe in tal caso di perdere appoggio al governo, ma rimarrebbe comunque con 67 seggi sui 120 della Knesset.
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