I candidati alle presidenziali americane e la loro posizione sul Medio Oriente
Testata: Il Foglio Data: 15 gennaio 2008 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «Così la fredom agenda di Bush entra nel menù delle primarie americane»
Dal FOGLIO del 15 gennaio 2008:
New York. George W. Bush non s’è dimenticato della “freedom agenda” e ha ribadito che la sua politica estera, la famigerata “dottrina Bush”, è un misto di tensioni idealiste e di soluzioni pragmatiche da dosare caso per caso. Volato in Israele per esplorare i progressi tra israeliani e palestinesi al tavolo della pace apparecchiato due mesi fa ad Annapolis, Bush ha concluso il viaggio mediorientale continuando a saldare le fondamenta di un’alleanza arabo-americana in funzione anti iraniana. La Casa Bianca prova a sfruttare a suo vantaggio la crescente preoccupazione nelle capitali arabe per l’influenza e il potere che l’Iran sta guadagnando nella regione e, in particolare, nelle comunità sciite che vivono in nazioni prevalentemente sunnite come l’Arabia Saudita. Il discorso di Bush ad Abu Dhabi, che pubblichiamo nell’inserto, è stato il punto centrale del visita di Bush, perché ha descritto la promozione della libertà come un pilastro fondamentale della politica estera americana: “La stabilità può arrivare soltanto con un medio oriente libero e giusto”. Bush ha detto ai suoi interlocutori arabi che non saranno credibili fin quando non consentiranno libere elezioni, critiche e spazi all’opposizione. In America, intanto, la corsa alla sua successione si svolge anche intorno all’eredità della sua politica estera. Con l’eccezione di John McCain, nessuno dei principali candidati di entrambi i partiti ha grande esperienza. Hillary Clinton è la più tosta tra i democratici, può contare sul team di esperti del marito e giudica “ingenui” certi inviti di Barack Obama al dialogo con i nemici. Obama replica definendo Hillary una “Bush e Cheney minore”. Mitt Romney ha un approccio da businessman, Rudy Giuliani è di gran lunga il più falco, Mike Huckabee il più critico, tra i conservatori, della “mentalità da bunker” della Casa Bianca. Chiunque vincerà le elezioni del 4 novembre difficilmente abbandonerà i principi cardine della dottrina Bush. Sul primo, la promozione della democrazia come strumento di stabilità e sicurezza, sono tutti d’accordo, senza eccezioni. Sul secondo, cioè sull’idea di considerare responsabili quegli stati che offrono asilo, aiuto e finanziamenti ai terroristi che attaccano l’America, le proposte di Giuliani sono considerate più bushiane di quelle di Bush, quelle di John McCain simili, mentre all’ultimo dibattito presidenziale Hillary ha detto che “dobbiamo far sapere chiaramente a quegli stati che garantiscono un rifugio ai terroristi” che “anche loro dovranno aspettarsi una nostra risposta molto pesante”, mentre Obama ha ribadito di essere pronto a invadere il Pakistan occidentale, anche senza l’approvazione di Islamabad, se la Cia gli dicesse che in quelle zone trovino rifugio Osama bin Laden e i capi di al Qaida.
Meno consenso sul terzo pilastro C’è meno consenso sul terzo pilastro della dottrina Bush, quella del cambio di regime, con John McCain, Fred Thompson e Rudy Giuliani favorevoli, e gli altri più o meno silenti per non apparire troppo bushiani (malgrado il cambio di regime a Baghdad sia diventata la politica ufficiale degli Stati Uniti sull’Iraq durante la presidenza Clinton). Ciò che è diverso, in generale, è l’approccio ai rapporti internazionali, più che l’obiettivo. I democratici credono che le istituzioni internazionali siano uno strumento, più che una trappola, e vorrebbero chiudere al più presto la guerra in Iraq, ma sanno che non è affatto semplice. Hillary, Obama e John Edwards si sono impegnati a far rientrare le truppe per il 2013, una data credibile soprattutto se la nuova strategia Bush/Petraeus continuerà a funzionare. I repubblicani prima di andarsene vogliono assicurarsi di aver vinto e appoggiano senza riserve il generale Petraeus. Romney propone di continuare a fare pressione sui paesi arabi per aiutare la ricostruzione dell’Iraq, McCain dubita che Iran e Siria vogliano dare una mano, Giuliani non sembra interessato al nation building. Tutti, democratici e repubblicani, sono preoccupati dall’Iran, Giuliani e Hillary in particolare. Obama è l’unico del gruppo a proporre un dialogo diretto con il presidente Ahmadinejad, una politica che a livelli inferiori e meno enfasi sta già percorrendo l’Amministrazione Bush. Nessuno esclude l’opzione militare, ma i democratici sottolineano con più forza la necessità della strada diplomatica. Tutti vogliono aumentare le dimensioni dell’esercito, nessuno farà pressioni su Israele. L’eccezione, l’unico che s’è potuto permettere di chiedere a Gerusalemme di abbandonare la Cisgiordania, è Bush.
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