Morte o battesimo. Una storia dei marrani Fritz Heymann
Giuntina Euro 13
Morte o battesimo. Una storia dei marrani di Fritz Heymann è un relitto, il frammento residuo di una vasta indagine storica: uno dei tanti frammenti affioranti dal mondo sommerso della Shoah. Ed è un libro importante. C’è solo un particolare da correggere: la scelta editoriale del titolo. Bisognerebbe scrivere non “morte o battesimo”, ma “Battesimo e morte”. Perché nella storia dei marrani non ci fu un’alternativa se battezzarsi o morire, ma al contrario: proprio in quanto battezzati il tribunale religioso dell’Inquisizione li potè accusare di apostasia e condannarli a morte.
Marrano è un insulto: lo si usava per indicare ebrei e islamici all’interno del mondo cristiano. La cosa è, in generale, tutt’altro che insolita. La lingua di comunicazione registra, impassibile ma non imparziale, sconfitte e abiezioni. L’infamia dei vinti può sbiadire, può anche trasformarsi in un titolo glorioso se cambiano i rapporti di forza. Ma in questo caso insulto era e insulto resta. Viene in mente il Don Giovanni di Mozart: “Sta mangiando, quel marrano….”E viene in mente che chi scrisse questa frase, Lorenzo Da Ponte, era egli stesso un marrano, cioè propriamente un ebreo battezzato. Il sospetto e l’odio verso uomini come lui prendevano argomento dal fatto che quel battesimo era stato originariamente imposto a minoranze ebraiche in paese cristiano. Il ricordo di quella violenza alimentava il sospetto e l’odio. Si immaginava che tutti gli ebrei battezzati continuassero a serbarsi segretamente fedeli all’antica religione – tutti, anche a distanza di diverse generazioni. Così si giustificavano le vessazioni, i pogrom, le radici dell’antisemitismo. Oggi, finita l’epoca dei pogrom, il marrano continua ad essere nei libri di storia ancora quella stessa figura inquieta, portatrice di un’identità di confine, spinta a muoversi sul crinale di fedi diverse, perennemente in movimento tra paesi diversi – l’Ebreo errante, insomma, che battezzato cerca di tornare all’antica fede e intanto abbandona e tradisce ogni fede.
Azzardiamo un’ipotesi rozza e grossolana: il senso di colpa collettivo, alimentato dalle radici cristiane europee, ha portato a cancellare i sentimenti antichi ma non gli antichi pensieri. Il marrano degli storici è ancora l’ebreo mascherato da cristiano che vedevano in lui gli uomini dell’Inquisizione.
L’opera di Fritz Heymann propone una tesi diversa: questo libro andrà letto perciò non solo come quel messaggio da un continente inabissato che di fatto è ma anche come un punto di vista nuovo e importante. Intorno al 1937, Fritz Heymann, pubblicista affermato, si dedicò a ricerche sulla storia dei marrani. Aveva lasciato quella Germania a cui aveva dedicato tutto se stesso e per la quale, giovanissimo, era andato volontario nella prima guerra mondiale. Si era rifugiato ad Amsterdam. Considerava la persecuzione antisemita tedesca iniziata nel 1933 come uno di quei grandi cicli della storia ebraica segnati dall’esodo: dall’Egitto, da Gerusalemme, dalla Spagna nel 1492 e ora, dal 1933, dalla Germania. Dove sarebbero andati ora non era chiaro: forse in America, forse in Eretz Israel.
Con questi pensieri si dedicò alla storia dei marrani: esplorò molti archivi soprattutto spagnoli, raccolse una gran quantità di documenti in vista di una storia esauriente della questione che però non scrisse. Scelse la forma di una narrazione storica in forma di conferenze che tenne – forse – ad Amsterdam davanti ad altri emigranti come lui. Dopo l’occupazione tedesca visse nascosto in Olanda finchè catturato nel 1942 dalle SS, finì i suoi giorni ad Auschwitz.
Ci resta il testo delle conferenze: sua madre, per la quale Heymann riuscì a ottenere un visto per l’Argentina, lo portò con sé e lo mise a disposizione del Leo Baeck Institute nel 1959.
Il libro è importante per l’idea che lo regge. Per Fritz Heymann era evidente un fatto: i marrani erano generalmente dei cristiani cattolici, vivevano in un mondo cristiano e chiedevano soltanto di fare il loro lavoro.
Perché emigrarono? Non per motivi religiosi, ma per motivi economici e sociali. Ve li costrinse l’ostilità del contesto spagnolo e portoghese, dove un popolo miserabile e una nobiltà invidiosa del loro livello di ricchezza e di cultura si servirono dell’Inquisizione per eliminarli. E dove andarono? Anche qui Heymann rovescia lo stereotipo tradizionale che, vedendo nell’ebreo il diverso, lo associava al vitello d’oro della Bibbia e immaginava che il marrano creasse ricchezza dove andava:
la Spagna
decadde economicamente perché i marrani se ne andarono? No: i marrani lasciarono
la Spagna
fiutando la decadenza del paese; Livorno e Amsterdam fiorirono perché gli ebrei vi si trasferirono? No: i marrani seguivano le correnti del commercio e della finanza di cui erano esperti e se lasciavano un luogo per un altro era perché percepivano tempestivamente i mutamenti in atto. Gli argomenti concreti e gli esempi che l’autore ricava dalle fonti che ha esplorato meritano di essere attentamente considerati.
Ma il libro è una lettura emozionante per la tensione che lo percorre. La domanda che apre la quinta conferenza ha risonanze forti nel nostro presente: “Perché grandi gruppi etnici emigrino, abbandonino la loro patria e ne cerchino una nuova è una domanda che anche oggi, in questo stadio della guerra, mi sembra sia attuale….”
Heymann era un uomo coraggioso e dotato di grande libertà intellettuale. Se si dedicò alla ricerca storica lo fece perché – scrisse – “il destino degli ebrei dell’Europa centrale aveva spazzato via la polvere dai documenti e gettato un raggio di luce nell’oscurità”. Con parole quasi identiche un altro ebreo tedesco – Walter Benjamin – definiva proprio allora la sua idea della ricerca storica.
Adriano Prosperi
La Repubblica