Reportage tra gli ebrei di Odessa ripreso da Le Monde
Testata: La Stampa Data: 14 gennaio 2008 Pagina: 13 Autore: Simolar Piotr Titolo: «A Odessa il miracolo della rinascita ebraica»
Da La STAMPA del14 gennaio 2008:
Arrivando a Odessa, calda e confusa città portuale sul mar Nero, un viaggiatore curioso deve diffidare del suo carattere. Meglio non partire alla ricerca di un tempo perduto, di un mondo inghiottito che non rimane se non nelle pietre e nei libri, quel mondo nel quale questa città si era guadagnata il soprannome di «Porta del Sion». Un tempo, alla fine dell’800, gli ebrei erano quasi la metà della popolazione, e i successi intellettuale e l’importanza economica di questa comunità non avevano eguali in questa parte dell’Europa. Meglio rinunciare a questa ricerca impossibile, e ricordare che da anni gli ebrei di Odessa si sono sparpagliati per tutto il mondo. Qual è la prima cosa che fa un rabbino ljiubavitch dopo aver poggiato le sue valigie nella terra che deve conquistare? Si prenota un posto al cimitero. La battuta fa ridere Avraham Walff, un rabbino della più stretta osservanza hassidica. Ha 37 anni, 6 figli e tanto ottimismo da poterlo distribuire a tutti gli abitanti di Odessa. A sentirlo, in città ci sono ancora 50 mila ebrei. «Qui, ogni famiglia ha un legame molto diretto con la comunità», dice con malizia: «Un cugino o una sorella sposati con degli ebrei, o qualche parente che ha partecipato ai pogrom». Il sindaco Eduard Gurviz, esponente illustre della comunità, possiede statistiche diverse: «Secondo il censimento del 2001, in città ci sono 13 mila ebrei. Nel 1989 erano 90 mila. Il paradosso è che, mentre non abbiamo mai avuto così pochi ebrei a Odessa, la vita della comunità è diventata molto più attiva». Avraham Wolff è qui per questo. Nato in Israele, è arrivato a Odessa nel 1992 «con un biglietto di sola andata». Il suo obiettivo era ripopolare la sinagoga: sviluppare le strutture di istruzione, sociali e culturali. Il risultato è stato impressionante: nei quartieri-dormitorio della periferia sono stati aperti due luoghi di preghiera, tre scuole materne e due primarie, un’università economica, due rifugi per orfani, tossicodipendenti e prostitute. Il bilancio mensile per far funzionare tutto questo, grazie alle organizzazioni ebraiche internazionali e a donatori generosi, è di 350 mila dollari. «E’ un vero rinascimento», gioisce il rabbino, mostrando il suo giornale, che esce in 15 mila copie: «Sono come un gioielliere che taglia e pulisce i diamanti. Faccio splendere la bellezza degli ebrei di Odessa alla luce del giorno». La realtà dei numeri, a livello nazionale, non porta molti motivi di felicità. Oggi in Ucraina non restano che 100 mila ebrei. Dai tempi degli zar, che gli toglievano pezzo dopo pezzo i territori da abitare, sono stati emarginati sempre di più. Alla fine del ‘700, gli zar hanno deciso di confinare gli ebrei in zone limitate. Imposta dall’imperatrice Caterina II nel 1791, la «zona di residenza» è esistita fino al 1917, anche se i suoi confini sono cambiati nel tempo. Si estendeva su un vasto territorio a cavallo tra la Polonia, l’Ucraina, la Bielorussia la Russia e i Paesi Baltici. Al suo apogeo avrebbe ospitato circa 5 milioni di ebrei. Solo con deroghe speciali un pugno di ebrei poteva ambire a risiedere nelle grandi città imperiali come Mosca e Pietroburgo. Avraham Wolff si accomoda nella sua poltrona. Sulla parete, uno schermo trasmette le immagini della videosorveglianza interna, installata «a titolo preventivo». Siamo nel suo ufficio sopra la sinagoga Shomrei-Shabbos. Costruita all’inizio del ‘900 grazie a un’opera di carità, è stata chiusa nel 1927, e le autorità ne hanno proibito l’utilizzo fino al 1992. Oggi gli odessiti vengono numerosi per lo shabbat e le feste. La maggioranza non è praticante, ma desidera l’iniziazione culturale e apprezza il legame identitario che si crea in questo luogo. La vita della comunità è diventata più intensa, ma resta sostanzialmente laica. L’impatto dell’assimilazione forzata, a Odessa come nel resto dell’ex Urss, ha ridotto l’identità a rituali culturali. Nel centro della città, la via Evreiskaja, degli ebrei, non mostra nessun segno particolare. Per misurare il cammino difficile di questa comunità, basta ascoltare Alexandr Rozenbaum. Lo si trova al primo piano dell’Istituto degli studi ebraici, subito dietro il ristorante «Rosmarino», che serve i piatti più classici della cucina kasher e offre il Wi-Fi per collegarsi a tutto il mondo. In Ucraina come in Russia, i vecchi edifici universitari hanno un odore particolare, fatto di umidità, polvere sulle pile di giornali ingialliti, parquet che scricchiola a ogni passo. Intorno, oggetti senza valore che vorrebbero essere testimoni del passato. Qui lo storico resuscita i morti: «Alla fine dell’800 c’erano almeno 200 mila ebrei in città, 50-60 sinagoghe e luoghi di preghiera, dozzine di enti di beneficenza, due cimiteri. Si poteva trascorrere tutta la vita sotto la protezione della comunità, che però non si ripiegava su se stessa, salvo i più ortodossi». Poi è arrivato il XX secolo e li ha decimati. «Non posso dire quanti sono stati i morti. Non meno di 100 mila, tra i pogrom della fine dell’800, la guerra civile, le purghe staliniane e la seconda guerra mondiale», elenca Rozenbaum. Dopo l’Olocausto, molti hanno ucciso anche la memoria dei morti, negando la propria identità ebraica. I soli monumenti ammessi rendevano omaggio al sacrificio dei «combattenti sovietici». A Odessa non ci sono più molti giovani ebrei con bambini. Si trovano più facilmente a Gerusalemme o a New York. Anatoli Kesselman, 35 anni, è un’eccezione: doveva partire anche lui, ma il destino a deciso altrimenti. Nel 1993 è rientrato a Odessa dopo il servizio militare. L’Urss era stata la sua patria, era finita, regnava la confusione, le frontiere si stavano aprendo. Ha pensato di partire, ma i genitori si sono rifiutati di seguirlo. E’ rimasto. Molti stavano emigrando in Israele, mettendo radici, creando famiglie. «I miei amici sono partiti. Parlo con loro via Skype, promettono di venire qui, ma non arrivano mai. Mi mancano collaboratori giovani e competenti». Kesselman dirige Gmilus Hesed, un’organizzazione di assistenza sociale molto attiva nella comunità, che aiuta circa 8 mila persone, il 75% anziani e poveri. La solitudine li cuoce a fuoco lento. Guardano e riguardano le foto, e parlano da soli fino a che non gli va via la voce. Gmilus Hesed li assiste a domicilio e offre cure mediche d’urgenza, pasti caldi o buoni per mangiare gratis. Organizza anche corsi di storia e tradizioni ebraiche, di danza e di scacchi, in un club dove vedersi ogni giorno e dove gli anziani vanno volentieri: «Si guardano i film e ballano con le canzoni degli anni ‘50», sorride Kesselman. Copyright Le Monde
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