In Iraq si prepara la Norimberga di Al Qaeda la corrispondenza di Rolla Scolari
Testata: Il Foglio Data: 10 gennaio 2008 Pagina: 2 Autore: Rolla Scolari Titolo: «Così gli iracheni preparano la Norimberga di al Qaida a Ramadi»
Dal FOGLIO del 10 gennaio 2008:
La norimberga di Al Qaida inizia a Ramadi, città scelta in passato dai terroristi come loro capitale. Oggi somiglia molto a Beirut al termine della guerra civile: case e palazzi crivellati di colpi di proiettile; intere aree distrutte, dimesse, disabitate; i primi negozi aperti sotto insegne ancora da aggiustare; carcasse di autobomba sul ciglio della strada. Proprio da qui è partito il colpo più potente ricevuto dall’organizzazione in Iraq: tribù e cittadini hanno preso le armi unendo le forze con esercito iracheno e americano per spingere lontano le violenze. Ora i tribunali hanno riaperto dopo anni d’inattività e alla sbarra ci sono i terroristi denunciati dalla stessa popolazione. Il Palazzo di giustizia è un basso edificio color sabbia, dai brutti mattoni a vista. E’ affollato e ci sono lunghe code disordinate agli sportelli. Il giudice Habib (nome di fantasia perché il magistrato preferisce rimanere anonimo) siede in una stanza triste dove tutto odora di pesante burocrazia. E’ l’equivalente iracheno di un giudice per le indagini preliminari. Racconta che il tribunale di Ramadi ha smesso di lavorare ai casi penali nel 2003-2004 e ha ripreso durante l’estate. “Non è possibile – dice – avere un sistema giudiziario funzionante in assenza di polizia”. Le forze di polizia irachene sono state sciolte poco dopo l’invasione americana. Ma c’è dell’altro: i giudici erano minacciati da al Qaida. “Era proibito portare avanti un processo o un’inchiesta”. Per anni, durante le violenze, il Palazzo di giustizia è rimasto aperto soltanto per i casi civili, per matrimoni, divorzi, funerali, firme di contratti. “I terroristi non credevano in questo”, dice il piccolo giudice agitando il volume del Codice penale iracheno del 1969. Oggi, in città, ci sono 22 stazioni di polizia funzionanti e due giudici che lavorano soltanto a casi di terrorismo. Ad agosto è stata inaugurata un’aula speciale per i processi ad al Qaida e gruppi affini. Non si trova nel Palazzo di giustizia, bensì nella sede del governatorato della provincia di al Anbar, edificio simbolo degli scontri. I suoi muri esterni sono mangiati dalle pallottole e devastati dai colpi di mortaio. Un maggiore americano ricorda che fino a gennaio scorso non si poteva camminare nel cortile interno senza essere l’obiettivo di cecchini appostati sui tetti. L’aula per giudicare i terroristi è piccola e stretta, buia perché mancano le finestre. Dice il giudice Habib che ci sono almeno duemila casi di terrorismo aperti ad al Anbar. C’erano giorni, ricorda, non più di un anno e mezzo fa, in cui qui morivano almeno quindici persone, sgozzate. “A voi giornalisti allora avrebbero tagliato la testa”. Le indagini aperte e i processi in realtà sono meno, dicono i dossier americani: 400 in tutta la provincia. Finora, dall’estate, tre persone sono state condannate e mandate in carcere. Non è facile trovare le prove di atti avvenuti anni fa, anche se il giudice Habib fa molto affidamento sulla popolazione. “Oggi collabora e i cittadini vengono a raccontarci di aver visto il vicino seppellire corpi nel giardino dietro casa. Per cosa indaghiamo i sospetti?”. Alza due gonfi dossier gialli e azzurri. “Per omicidio, omicidio, omicidio”. Racconta il caso di un uomo che ha ucciso un quindicenne, tagliandogli la testa, accusandolo ingiustamente di aver nascosto armi di al Qaida. E’ celebre, nelle cancellerie, il caso “del macellaio”, un terrorista che avrebbe decapitato oltre venti persone, tutte a Ramadi. Una legge in sei articoli Nel 2005 il governo di transizione iracheno ha promulgato una legge, in sei articoli, sul terrorismo. Terrorismo è “ogni attività criminale compiuta da individui o gruppi contro individui, gruppi o organizzazioni; il causare danno a proprietà nazionali e private con l’obiettivo di minare la sicurezza, o alla società causando rivolte e disturbi tra la popolazione”. Secondo la legge, che fa presa sul senso dell’onore delle tribù e sul nazionalismo di una parte del paese, “il terrorismo è considerato immorale e disonorevole”. La stazione della polizia al Warar è ormai leggendaria anche fuori città per essere stata il primo focolaio di resistenza contro i terroristi a Ramadi, dopo la sollevazione delle tribù nelle aree circostanti. Oggi ospita il più grande centro di detenzione temporaneo della città, gestito da iracheni e supervisionato dai marine. Attraverso una pesante porta in metallo blu si entra in una specie di hangar, un spazio aperto in cui le celle sono delimitate da pareti in muratura alte un paio di metri. Ci sono novanta detenuti. Sessanta sono sospettati di aver commesso atti di terrorismo e sono in attesa di presentarsi in tribunale. Secondo le nuove norme, non potrebbero passare più di quattordici giorni in carcere senza un processo, ma tutto è ancora poco codificato, e alcuni prigionieri sono ad al Warar da mesi. Il colonnello Rafah racconta che uno dei detenuti è accusato di aver ucciso due ragazzini di quattordici anni. Vendevano frutta e verdura all’angolo della strada. Il sospetto avrebbe sparato loro e portato i corpi al fiume. Li accusava di fornire informazioni alle forze della Coalizione. In un’altra stazione di polizia, nel quartiere di Ta’amim, a Ramadi, oltre l’Eufrate, il colonnello Haytem ha creato una squadra investigativa che collabora con l’esercito americano. I marine, infatti, hanno i propri giudici e avvocati in uniforme, che si occupano di consigliare e assistere i poliziotti iracheni, ripassando assieme i casi meno chiari. Il colonnello Haytem ha dato loro una lista di nomi, lunghi e difficili da pronunciare: ci sono sospetti per furto, assassinio, contrabbando e uso di droga, terrorismo. Per il poliziotto iracheno, il problema è semplice: troppi eventi criminali risalgono a uno, due, tre anni fa, in piena crisi e nel mezzo delle violenze. Molte vittime hanno avuto il coraggio di fare causa soltanto ora che i tribunali hanno riaperto e la situazione della sicurezza è migliorata, ma spesso è difficile raccogliere qualsiasi tipo di prova. Inoltre, racconta, spesso su alcune denunce pesa l’ombra della vendetta personale, covata negli anni di guerra. Haytem, un grosso iracheno dai muscoli pompati, alle mani guanti per il sollevamento pesi con il nome di una palestra di Ramadi, racconta un caso aperto su cui ha molti dubbi, di cui vuole discutere con gli avvocati-soldati americani. La vittima è Ahmed (i nomi delle persone coinvolte nell’inchiesta sono stati cambiati), un rispettato cittadino del quartiere. E’ stato minacciato dai terroristi, due anni fa, nel pieno delle violenze. E’ un ex colonnello nell’esercito di Saddam Hussein. Un gruppo armato della zona in cui abita lo teneva d’occhio, ha raccontato l’uomo alla polizia. Un giorno, quattro miliziani hanno fatto irruzione nella sua casa. Era notte. Lui non poteva riconoscerli, perché erano mascherati. Erano tutti armati di AK47. Lo hanno rinchiuso in una stanza, separato da moglie e figli, isolati in due ale diverse dell’abitazione. Lo hanno Teleologia Perché gli studi di Gingerich, novello Keplero, c’entrano col disegno intelligente e con la speranza Stato laico La scoperta del Lupercale e le teorie conseguenti ci inducono a pensare che Romolo fosse un genio politico messo davanti a un bivio: o ci dai i soldi o ti uccidiamo. Volevano 12 milioni di dinari iracheni, diecimila dollari. Lui gli ha dato tutto quello che aveva. Il capitano Kopka, avvocato di Boston in uniforme da marine, gli chiede se ha trovato le armi usate durante l’operazione. Risposta negativa. Mancano troppe prove. Come si fa oggi, si chiede il colonnello Haytem, a collezionare abbastanza materiale per aprire un processo e perché, dice scettico, la vittima è venuta soltanto oggi, dopo così tanto tempo, a sporgere denuncia? “Gli interessati non si piacevano fin dagli inizi – è la sua conclusione – Un certo Munir è venuto da me e mi ha raccontato tutta la storia, dopo che la vittima aveva già fatto denuncia. Ha detto di conoscere i quattro che hanno fatto irruzione nella casa. Secondo me, ha rancori contro queste persone e le sue dichiarazioni sono false. Era infatti sposato con la sorella di un sospetto, c’è stato un divorzio difficile, insomma le solite questioni familiari”. Munir ha raccontato in dettaglio la scena dell’irruzione, esattamente come aveva già fatto la vittima. “Soltanto una persona presente al fatto poteva spiegarmi con tanta precisione l’accaduto. C’era anche lui. Ma non posso fermarlo, la vittima non lo ha denunciato. Non abbiamo prove contro i quattro, non meritano di finire in galera senza certezze”. Il colonnello investiga sui legami dei sospetti con gruppi terroristici. Se ci fossero, allora l’inchiesta andrà avanti, altrimenti sarà costretto a lasciarli stare. All’inizio del Risveglio, quando le tribù e i cittadini hanno cominciato a sollevarsi contro al Qaida, Haytem e i suoi uomini hanno messo in piedi la stazione di polizia. A quel tempo, durante le violenze, essendo il tribunale aperto soltanto per i casi civili, il colonnello aveva nominato il suo parigrado Mohammed a giudice, “una specie di giudice, in modo da non andare completamente contro la legge, in assenza di istituzioni”. Racconta di un’inchiesta su un sospetto, prima della riapertura della corte di giustizia, quando la polizia aveva ricominciato a funzionare. Le informazioni in suo possesso andavano tutte contro di lui. “Sono andato a cercare il giudice Habib. Non ha accettato di venire al quartiere generale. Ma dopo aver visionato il dossier, mi ha dato l’autorità d’imprigionare l’uomo”. Allora era troppo pericoloso portare i sospetti dalla stazione oltre il fiume, a Ramadi: i terroristi potevano tendere un’imboscata lungo la strada per liberare i detenuti. E i giudici non si recavano di loro spontanea volontà alle stazioni di polizia.
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