Gli scomparsi Daniel Mendelsohn
Traduzione Giuseppe Costigliola
Neri Pozza Euro 20
The lost. A search for six of six million è il titolo originale che racchiude perfettamente l’essenza del meraviglioso libro di Daniel Mendelsohn, critico letterario e studioso di greco, pubblicato in questi giorni dalla casa editrice Neri Pozza.
“Gli scomparsi”, è un libro di memorie, la storia di una mishpacha, una famiglia ebraica, ma è anche la narrazione dei numerosi viaggi che l’autore ha intrapreso per conoscere il destino di “sei” di quei sei milioni di ebrei che non sono sopravvissuti alla tragedia dell’Olocausto: Shmiel Jager, il fratello del nonno materno, Ester sua moglie e le loro quattro bellissime figlie, Lorka, Frydka, Ruchele e la piccola Bronia.
“Tempo fa, avevo fra i sei e gli otto anni, appena entravo in una stanza capitava che qualcuno cominciasse a piangere”, è l’incipit del libro che spalanca al lettore le porte di un mondo popolato di anziani signori che parlano con accento yiddish, giocano a poker, bevono whisky mentre le signore sono agghindate con “collane di finte perle a tre fili e gli orecchini di cristallo dai colori tenui”.
Daniel con i dolci occhi azzurri ricorda a quegli anziani Shmiel, l’unico della famiglia Jager a non essere sfuggito ai nazisti emigrando in America, e con quel dolore ancora conficcato nel cuore, unito al rimpianto di non averlo potuto aiutare, non riescono a trattenere le lacrime alla vista del piccolo Jager.
Nella prima parte del libro il nonno Abraham “conoscitore di innumerevoli storie” rinomato per il senso dell’umorismo, la sua ortodossia e per “il taglio elegante degli abiti” è il vero protagonista della narrazione di Daniel che ricambia l’affetto del nonno con una vera e propria adorazione.
I racconti di questo garbato Omero Yiddish, sempre piuttosto vaghi quando si riferisce al defunto fratello Shmiel, spingono l’autore ad iniziare una ricerca minuziosa dapprima su Internet poi consultando gli archivi dello Yad Vashem: una spinta inarrestabile che scatta – racconta l’autore – nel giorno del suo Bar Mitzvah.
Alla morte del nonno, suicida dopo la scoperta di avere un cancro, Daniel entra in possesso delle lettere che nel 1939 il prozio aveva inviato ai suoi parenti in America affinchè lo aiutassero a fuggire da Bolechow, la cittadina della Polonia nella quale gli Jager vivevano dal 1641.
Ed è proprio da Bolechow che Daniel Mendelsohn, insieme ai suoi fratelli, inizia il suo viaggio per cercare di scoprire cosa è accaduto a Shmiel e alla sua famiglia: come vivevano prima e dopo l’arrivo dei tedeschi, quali erano le loro occupazioni, le loro abitudini, dove si nascosero e chi li tradì.
Bolechow che si presenta come “un ammasso di case basse, con ripidi tetti a ghimberga, raggruppate intorno a un groviglio di vie così intricate che arrivare alla piazzetta centrale è un sollievo” e nella quale i tedeschi giunsero il 2 luglio 1941 è il luogo dal quale lo scrittore parte per ritrovare gli ultimi sopravissuti (in tutto 48 e sparsi in tutto il mondo) e al quale tornerà, con una nuova consapevolezza, al termine del suo lungo viaggio.
Viaggiando dall’Australia a Israele, dalla Svezia alla Danimarca, l’autore incontra persone indimenticabili ormai anziane, alcune malate, altre provate nel fisico e nella mente, tutte profondamente turbate da quei dolorosi ricordi che piano piano emergono inarrestabili con
le domande di Daniel.
E così a Sidney Meg Grossbard racconta della sua amicizia con Frydka, di come fossero cresciute assieme, delle gioie e degli amori condivisi e del dolore atroce per la sua morte; Jack ricorda invece gli orrori perpetrati nel Dom Katolicki, dove gli ebrei furono costretti a formare una piramide umana, torturati e uccisi. A Kfar Saba, Anna Heller Stern ricorda la sua amicizia con Lorka, la primogenita di Shmiel: “la madre era un’ottima moglie, la casa era sempre in ordine e le bambine erano pulite e ben vestite”.
A Stoccolma Daniel farà la conoscenza di Klara Freilich “di corporatura esile, i capelli d’un nero corvino e il rossetto sulle labbra…” che riuscì a nascondersi fino alla fine della guerra, grazie all’aiuto di un ragazzo “mezzo polacco e mezzo ucraino”, in una specie di bunker sotto la stalla dove “si annidavano anche topi, gatti e altri animali”.
Ad ogni sopravvissuto l’autore chiede qualche ricordo di Shmiel e della sua famiglia ritrovando al termine del viaggio un quadro fatto di piccoli particolari, episodi quasi insignificanti di vita quotidiana ma importantissimi per capire chi erano “quei sei di sei milioni”. Su di essi
la Storia
non si è soffermata ma le loro vite prima della guerra e le successive drammatiche esperienze vissute riecheggiano ora dalle pagine di questo emozionante racconto epico.
Come nello straordinario libro intitolato “Konin” - piccola cittadina polacca e uno dei primi centri a diventare Judenrein all’arrivo dei tedeschi nel 1939 - l’autore Theo Richmond ha voluto strappare dall’oblio le vicende atroci che hanno coinvolto quella comunità scomparsa facendola rivivere nel ricordo dei sopravvissuti, così Daniel Mendelsohn ha raccolto tutte quelle storie per tramandarle. “Io desideravo preservare i ricordi, è questo il mio talento”.
I racconti di coloro che sono scampati allo sterminio sono appassionanti fili narrativi di una grandiosa epopea che è insieme viaggio nella memoria, ricerca di radici perdute per sempre nelle trame crudeli della Storia, diario di una dolorosa ossessione, ma anche inno alla fragile, eppur persistente bellezza della vita.
Giorgia Greco