Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Il pericolo Pakistan atomiche e legami con Al Qaeda: l'analisi di Bernard Henry Lévy
Testata: Corriere della Sera Data: 08 gennaio 2008 Pagina: 38 Autore: Bernard Henry Lévy Titolo: «Ascoltatemi, il Pakistan è la retrovia di Al Qaeda»
Dal CORRIERE della SERA dell'8 gennaio 2008
Per quanto tragico, per quanto doloroso sia il lutto provato da tutti coloro che ammiravano il suo coraggio, per quanto terribili saranno le conseguenze a breve e medio termine, l'assassinio di Benazir Bhutto porterà almeno a questo: che sia finalmente presa sul serio la formidabile sfida che rappresenta, per la pace di quella regione e del mondo intero, un Pakistan instabile, minato dall'islamismo radicale e dotato dell'arma nucleare. A questa lucidità, purtroppo assai tardiva, manca ancora, però, un certo numero di prese di coscienza: tre, almeno, di cui mi preme ribadire, per l'ennesima volta, l'urgenza… Occorre smetterla sin d'ora di domandarsi chi sia stato il vero responsabile di questo assassinio, se gli islamisti o i servizi speciali. La distinzione, in queste circostanze, non ha nessun senso. Non esiste da un lato un potere militare duro, dittatoriale, ma laico, e dall'altro gruppi religiosi fondamentalisti e fanatici che si sottraggono a qualsiasi controllo. E il problema del Pakistan sta per l'appunto in questo, di avere uno Stato (in particolare i servizi segreti) infiltrato dall'islamismo; e islamisti (specie quelli coinvolti nella disputa sul Kashmir) manipolati dai servizi segreti. Ho dimostrato questo nesso intricato nella mia inchiesta «Chi ha ucciso Daniel Pearl?» (edita da Rizzoli), rivelando che Omar Sheik, il cervello dietro il rapimento del giornalista del Wall Street Journal, era al contempo un jihadista della cerchia più intima di Bin Laden («il mio figlio prediletto», pare abbia detto quest'ultimo) e ufficiale di alto rango dell'Isi (i servizi pachistani che lo hanno, in più di un'occasione, tirato fuori dai guai). E ho già accennato ai tanti Omar Sheik, questi jihadisti senza barba, in uniforme, camuffati da fedeli servitori di Musharraf, e di come l'apparato statale di Islamabad ne sia infestato da cima a fondo… Bisognerebbe smettere di ripetere, come pappagalli, che i jihadisti più pericolosi, i talebani più radicali, in altre parole, i capi di Al Qaeda, vivono rintanati nelle famose «zone tribali», sul confine con l'Afghanistan, sfuggendo in tal modo alla legge del potere militare. Anche questo è falso. I jihadisti non sono alla periferia, bensì al centro del potere. Non si nascondono in zone remote, fuori dalla portata di esercito e polizia, bensì nel cuore delle maggiori metropoli, dove sguazzano a loro agio come pesci nell'acqua. Non è stato forse nel centro di Rawalpindi, città gemella d'Islamabad, di fronte a un albergo che conosco bene e che è il punto di ritrovo dell'Isi, che Benazir è stata colpita a morte? Non era forse a Karachi, la capitale economica del Paese, che si nascondevano — al tempo della mia inchiesta — dirigenti terroristi del calibro di Khalid Shaik Mohammed? E non è sempre a Karachi, a due passi dai consolati, che si trova la famosa moschea di Binori Town, che è al contempo una madrassa, un centro di formazione per combattenti stranieri, un campo d'addestramento militarizzato e un ospedale clandestino dove si faceva curare Bin Laden? Tutti gli amici pachistani con i quali sono rimasto in contatto lo sanno e, quando possono, lo dicono anche: è l'intero Pakistan che si è trasformato, nel tempo, in una retrovia di Al Qaeda. E in quanto agli arsenali nucleari, quelle 100 o 200 testate che, come gli americani ripetono ossessivamente, sono «totalmente sotto controllo», occorre sapere due cose. Primo, che nessuno in Occidente conosce con precisione né il numero esatto, né la localizzazione precisa, né persino il tipo di «interruttori» o «chiavistelli» di cui dispone l'Autorità del comando nazionale (Nca) da poco istituzionalizzata e alla quale l'amministrazione Bush ha versato, dal 2001 a oggi, decine e decine di milioni di dollari. Secondo, che non ha più senso, ormai da molto tempo, chiedersi che cosa succederebbe se per disgrazia queste armi cadessero un giorno nelle mani degli islamisti, perché ci sono già cadute a tutti gli effetti. Sultan Bashiruddin Mahmud, ex direttore del Commissariato pachistano per l'energia atomica sul quale indagava Daniel Pearl all'epoca del suo rapimento, non era forse un simpatizzante di Harkat ul-Mujahidin, co-fondatore di una ong tramite la quale aveva allacciato contatti con Bin Laden nell'agosto del 2001? E Abdul Qader Khan, il suo capo, al quale mi sono interessato a mia volta, non è stato forse riconosciuto colpevole di aver venduto i segreti della «bomba islamica» a Iran, Iraq, Corea del Nord, Libia e forse altri ancora? Tutto questo, frutto di molti mesi di indagini, scaturite a loro volta da un'antica conoscenza del Paese dei Puri dove ho vissuto in diretta, 36 anni or sono, gli eventi drammatici della guerra d'indipendenza dal Bangladesh — la prima vera convulsione della regione — tutto questo l'ho ricordato due settimane fa in un'intervista con Nathan Gardels, direttore del New Perspectives Quarterly di Los Angeles e curatore di Global Viewpoint. Ora, nel giornale online Huffington Post, Gardels dichiara di aver ricevuto il 14 dicembre da parte di Benazir Bhutto una mail, nella quale gli esprimeva il suo «accordo» con l'essenziale di quella analisi, ringraziandolo per il «sostegno» che ne derivava. Un messaggio dall'oltretomba che mi ha toccato nel profondo, e non solo: perché riconferma, ahimé, sia le mie conclusioni sia i miei timori.
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