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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Naomi Alderman Disobbedienza 07/01/2008

Disobbedienza                     Naomi Alderman

 

 

Traduzione di Maria Baiocchi

 

 

Nottetempo                          Euro 18

 

 

 

 

A scuola abbiamo studiato la retorica e la dialettica, e dunque già di primo acchito di un titolo così, che ci affascina, riconosciamo l’ambivalenza. Disobbedienza è la prova d’esordio senz’altro notevole di Naomi Alderman, pubblicato per Nottetempo. E’ una figlia che racconta la propria fuga (per sempre) e ritorno (temporaneo) alla casa e alla comunità in cui è nata. Il padre è rabbino di una comunità ortodossa a Londra; da lì Ronit è fuggita a New York in cerca di un’esistenza libera; ma ora la morte del padre la obbliga al viaggio di ritorno. Non può non tornare: è in gioco un ‘eredità che, essendo il padre in vita, è vero, aveva rifiutato; ma ora che il padre è morto il rifiuto si fa impossibile. A conferma che il padre è la potenza del nome, l’insistenza di un fantasma. L’esperienza stessa della scrittura per la giovane scrittrice non a caso si radica nel grembo familiare. Siamo in pieno romanzo familiare, direbbe Freud. La protagonista è orfana. In prima battuta è orfana di madre; il matricidio è in effetti il primo atto. Che rende il vincolo con il padre ancora più esclusivo. Il secondo atto è la fuga. Il terzo è il ritorno, ma per tradire ancora.

 

 

E’ un romanzo di formazione, questo; dove al posto di Wilhelm Meister, disobbediente, in aperto conflitto edipico con l’ingombro paterno, troviamo una giovane donna. Chissà, mi sono detta, se la lettura di questo romanzo svelerà il mistero dei misteri; e cioè, se per la figlia femmina del padre è diverso fare i conti con la sua presenza e con la sua assenza. E la questione centrale della “differenza” sessuale. Non che sia necessariamente tema di questo romanzo. Ma senz’altro è uno dei suoi contenuti. Se il contenuto di idee di un romanzo è interessante, tanto meglio: un romanzo perché non dovrebbe avere un contenuto, oltre che una bella forma? Se un romanzo, oltre che piacevole, è anche intelligente, perché no? Anzi, confesserò che sono i romanzi che preferisco, rispetto ai romanzi artificiosi, magari ben congegnati dal punto di vista della cucina, ma inerti. E quando dico inerti, intendo dire che la lettura è anche un’esperienza intellettuale, della mente. E se non la si impegna in qualcosa, che abbia almeno la parvenza di un’esperienza nuova, la mente si annoia. Noi che ci identifichiamo con le “genti del Libro” siamo coinvolti nella lettura in modo profondo. E ci fa piacere essere scossi. Anche per questo leggiamo, per provare altre emozioni, per allargare le nostre esperienza, per delirare, per allucinare, addirittura. Non vogliamo affatto essere confermati nelle nostre convinzioni, siamo aperti alle scosse del nuovo.

 

 

E per questo motivo, credo, che i romanzi di formazione ebbero e hanno un enorme fascino. Raccontano l’esperienza della vita, sottolineano come certi atti della vita quotidiana vadano letti. O meglio, tradotti. In fondo, uno scrittore, una scrittrice fanno questo: traducono. Trasportano al senso quell’esperienza muta di altri “indifferent children of the world” per dirla con l’Amleto – di tutti gli anonimi, tutti i “nessuno” di cui è composta la popolazione del mondo. Ora, come si fa a essere qualcuno? Un modo è “disobbedire”. L’atto di disobbedienza è il gesto che segna una differenza. “Fa” differenza. “No” – la parola più bella del vocabolario, la parola “ablativa”, come la chiamò Emily Dickinson, suprema fra le disobbedienti – dà gusto. Tutte noi ( e parlo al femminile pour cause) lo sappiamo bene: disidentificarsi è il primo gesto della ricerca di sé. Distinguersi dalle attese, le prime fra tutte quelle parentali, è necessità ineludibile per chi voglia individuarsi.

 

 

Nel romanzo Disobbedienza la protagonista lo fa. Una prima volta grazie alla fuga. La seconda volta al ritorno, quando rompe l’omertà e dichiara di essere lesbica. Non è neppure vero del tutto. Ma Ronit ha bisogno di rompere. Ha bisogno di tradire. Non sopporta quella gente, la sua gente. E’ sua l’intolleranza. Lei attacca, aggredisce per aperta insofferenza. Lo fa per colpire chi si adagia soddisfatto in un sentimento di comunità secondo lei fasullo. Perché la verità, secondo lei, è che il popolo ebraico “è un popolo ostinato, testardo e disobbediente”. E proprio per questi carismi lei sente di potersene fare la rappresentante più autentica; molto più dei repressivi, rigidi, ipocriti, farisaici custodi della tradizione. Accanto alla voce della protagonista, che dice io, in un efficace e regolare schema di alternanza, c’è un altro locutore che parla in terza persona: naturalmente l’autrice: la quale però sente la necessità di disporre questo doppio registro linguistico. Comprendere questa necessità è arrivare al cuore del romanzo, che in tale modo e forma esprime l’incomponibile conflitto fra il singolo e la comunità. O perlomeno, di ogni comunità monoteista – sia ebraica, cristiana, islamica. Dove c’è il padre che comanda.

 

 

Ecco l’intelligenza del romanzo: la sua urticante verità consiste nel rappresentare l’irresolubile, intransitabile aporia del romanzo di formazione. Non c’è disobbedienza che conti; il figlio, la figlia non saranno mai liberi. Anzi, nel disobbedire non è detto che non si leghino ancora più stretti nel debito simbolico che li stringe al nome del padre in una reazione coatta.

 

 

Nadia Fusini

 

 

La Repubblica

 

 


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