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La Stampa Rassegna Stampa
07.01.2008 In Pakistan non ci sarà stabilità
l'analisi di Enzo Bettiza

Testata: La Stampa
Data: 07 gennaio 2008
Pagina: 1
Autore: Enzo Bettiza
Titolo: «Pakistan burattinaio e vittima»
Da La STAMPA del 7 gennaio 2008, un'analisi di Enzo Bettiza sulla situazione politica in Pakistan:

Fra i molti Paesi che il presidente Bush, all’inizio dell’ultimo anno del mandato, si prepara a visitare nel suo tardivo periplo attraverso il Medio Oriente, s’insinuerà l’ombra di una massiccia e minacciosa assenza: il Pakistan che sta implodendo dopo l’assassinio di Benazir Bhutto.
Bush cercherà di superare lo stallo di Annapolis e di sbloccare, di persona, la crisi mai risolta tra palestinesi e israeliani. Cercherà inoltre, rafforzato dai successi ottenuti dal generale Petraeus nel contenimento del terrorismo in Iraq, di galvanizzare nella lotta contro Al Qaeda il fronte di alleati importanti come l’egiziano Mubarak e il re saudita Abdullah. Negli emirati del Golfo, preoccupati soprattutto dalla crescente influenza dell’Iran nella regione, Bush troverà interlocutori favorevoli alla linea severa di Washington nei confronti della minaccia atomica di Teheran.
Ma su tutti questi incontri graverà l’incognita del Pakistan che Bush non visiterà e che, ormai, è diventato il fulcro incandescente della guerra al terrorismo islamista. È nel Pakistan, la seconda nazione musulmana più popolosa del mondo, terza potenza nucleare asiatica, che lo scontro s’avvia alla sua fase decisiva e più rischiosa. Dopo le perdite e le recenti sconfitte subite a Baghdad, gli stati maggiori di Al Qaeda sembrano riorientare la linea del fuoco e dell'azione politica su Islamabad.
Fra i Paesi islamici alleati dell’America nella lotta al terrore il Pakistan è il più paradossale. Vi dominano l’ambiguità e il contrasto. Una parte del territorio nord-occidentale, il Waziristan, è la roccaforte dei capi di Al Qaeda protetti da tribù pashtun etnicamente imparentate con i guerriglieri talebani del vicino Afghanistan.

Le accademie islamiche sono vivai dove si addestrano alle tecniche del terrore e del suicidio religioso i giovani kamikaze. L’esercito, per una parte kemalista, secolare, filoccidentale, per un’altra parte ha invece profonde radici islamiche. Il potente servizio segreto militare dell’Isi, creatore dei talebani all’epoca della guerriglia antisovietica in Afghanistan, è rimasto notoriamente o quantomeno parzialmente legato alle sette fondamentaliste: su di esso grava oggi il sospetto di avere, se non ordito, contribuito alla preparazione dei due attentati contro la carismatica Bhutto. Insomma il Pakistan, il Paese dei musulmani duri e puri, che aveva creduto di essere il burattinaio dei talebani, ne sta diventando in parte la vittima. Non solo i mullah integralisti spadroneggiano sui confini, non solo sobillano le tribù affini contro il governo centrale, monopolizzano il traffico di armi e droga, controllano le mafie dei trasporti che dai tempi delle carovane e della Via della Seta condizionano l’economia di contrabbando di quelle impervie regioni. Oggi essi premono sui gangli nevralgici dello Stato, su Islamabad, Karachi, Rawalpindi, organizzando attentati, stragi e rapimenti con la protezione di settori influenti dell’Isi.
Ma che dire del generale Pervez Musharraf, del suo bifido personaggio, della sua quasi decennale dittatura militare, fattasi «civile» dopo che ha smesso la divisa per indossare il doppiopetto di un presidente borghese? Raccontano che egli legga ogni sera, prima di addormentarsi, qualche pagina di una biografia in lingua turca del suo grande modello Kemal Atatürk. Ma il kemalismo laicizzante di Musharraf, che da giovane aveva studiato nelle accademie militari in Turchia, si è poi rivelato più di facciata che di sostanza. Egli giunge al golpe del 1999 barcamenandosi fra talebani, madrasse teosofiche e militari secolari. La grande svolta, simile a un’apparente folgorazione, avviene dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre che lo spinge a una scelta di campo. Si schiera con l’America contro il regime teocratico in Afghanistan e impone un freno, alquanto morbido, alla talebanizzazione del Pakistan. La virata non è netta come appare in superficie e come tanti americani, soprattutto militari, ritengono o sperano che sia. Durante gli anni della dittatura non ha mai compiuto un gesto radicale, chirurgico, per laicizzare in profondità lo Stato: ne ha anzi difeso l’impalcatura fondamentalista, basata sui tribunali trasformati, per volontà di settori militari tutt’altro che kemalisti, in una Santa Inquisizione islamica. Non s’è mai vista in Pakistan la drastica separazione tra Stato e religione imposta da Atatürk ai turchi.
Ma in questo momento di caos l’amministrazione americana, che con l’assassinio della Bhutto ha visto crollare l’opzione democratica favorita da Condoleezza Rice, non sembra avere a portata di mano una carta di ricambio. Bush e il Pentagono, in opposizione alla Rice, continuano a puntare su Musharraf in mancanza di meglio: dicono di non vedere un piano alternativo con cui riportare il Pakistan, con le sue 60 testate atomiche, dal marasma alla stabilità. Accresce l’incognita lo spostamento della data elettorale dall'8 gennaio al 18 febbraio. L’ultimo elemento che si aggiunge alla confusione generale è la decisione dei vertici del Partito popolare pakistano, il partito della dinastia Bhutto, di mettere alla sua testa il primogenito della morta: un diciannovenne studente di Oxford, tipico fiore di serra dei ceti ricchi e corrotti del Terzo Mondo, che sa a malapena dove si trovi il Pakistan sulla carta geografica. Sarà il padre cinquantenne, il discusso Asif Ali Zardani, chiamato «Mister dieci per cento», il vero padrone di un partito che si proclama iperdemocratico ed è in realtà un clan tribale e dinastico.
I partiti islamici non hanno, tradizionalmente, elevate possibilità di successo rispetto a quelli che si dicono democratici. Inoltre è difficile credere che i generali di Musharraf e i servizi segreti, che hanno imposto lo slittamento della giornata elettorale, ne consentiranno uno svolgimento regolare e pulito. Con ogni probabilità uscirà dalle urne un debole e malleabile governo di coalizione fra il partito dei Bhutto, rafforzato dal cordoglio popolare per la morte di Benazir, e i sostenitori del permeabile regime di Musharraf. Non ci sarà la stabilità che l’Occidente s’aspetta. La crisi continuerà nel Paese artificiale che l’Economist definisce «il più pericoloso del mondo» e Dio solo sa come e dove si fermerà.

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