Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Carnefici e vittime Piperno rilegge Céline e a Parigi si stampa l'Anna Frank francese
Testata: Corriere della Sera Data: 07 gennaio 2008 Pagina: 0 Autore: Andrea Nicastro - Alessandro Piperno Titolo: «Le lettere di Hélène al fidanzato, una Anna Frank a Parigi - La questione Céline»
Da pagina 17 del CORRIERE della SERA del 7 gennaio 2007 un articolo di Andrea Nicastro sulla pubblicazione in Francia del diario diHélène Berr, violinista uccisa ad Auschwitz.
PARIGI — Oggi, un signore di 86 anni, Jean Morawiecki, potrà andare in una qualunque libreria francese e comprare la lettera-diario che la sua prima fidanzata gli scrisse più di sessanta anni fa, prima di essere uccisa in un campo di concentramento. Lui era scappato dalla Francia sotto occupazione nazista e si era unito al generale De Gaulle per tentare la riconquista. Lei, Hélène Berr, raffinata figlia di una ricca famiglia francese, ebrea quasi senza saperlo, era restata a Parigi, come in una campana di vetro, senza realmente occuparsi né capire quel che le stava succedendo intorno. Al principio, almeno. Perché poi la presa di coscienza è lucida e le sue descrizioni delle retate di ebrei, delle stelle gialle cucite sugli abiti, del vuoto che le si creava attorno, della paura e dell'umiliazione, delle voci sui «gas asfissianti », sono pagine dense, capaci di ricreare l'atmosfera incredula di quegli anni. Secondo Libération c'è un'«eccezionale qualità letteraria » nel libro. Altri evocano già il nome di Anna Frank. Sono passati appena due anni dal successo editoriale di un'altra ebrea francese (di origine ucraina), Irène Némirovsky, uccisa ad Auschwitz, ma per Libération il diario di Hélène Berr sarà comunque «la rivelazione del 2008». Hélène era violinista, leggeva in originale letteratura russa e inglese. Era innamorata della poesia di Paul Valéry e del suo ragazzo Jean Morawiecki. Nel '42 inizia a scrivere proprio per lasciare traccia dei suoi pensieri, per permettere a lui di riannodare il filo della loro conoscenza. Hélène scrive dal 7 aprile del '42 al 15 febbraio 1944 quando capisce che nazisti e collaborazionisti francesi sono pronti a prendere anche lei. Affida il manoscritto alla cuoca di famiglia perché venga consegnato a Jean. La donna conserva il diario assieme al violino della ragazza e, finita la guerra, ne fa una copia per dare l'originale al ragazzo per il quale era stato scritto. Nel frattempo la famiglia Berr era stata deportata ad Auschwitz e uccisa. Jean comincia la carriera diplomatica. Si sposa e ha una figlia. Gli eredi Berr si passano la copia del diario da una generazione all'altra. Vendono il violino, ma leggono e rileggono i pensieri di Hélène. Jean invecchia, va in pensione e rimane vedovo. I tempi per la pubblicazione maturano. Viene coinvolta Karen Taieb, archivista del Memoriale della Shoah. Tutti danno il loro assenso. L'editore Tallandier stampa. Hélène aveva 21 anni quando cominciò a scrivere. Ventitré quando morì. «Non voglio scomparire senza che lui sappia quel che ho pensato. Almeno una parte di quel che ho pensato ».
Hélène Berr con Jean Morawiecki
Da pagina 33, un articolo di Alessandro Piperno sullo scrittore antisemita Louis-Ferdinand Céline:
Voyage au but de la nuit, di Louis-Ferdinand Céline andava come qualsiasi altro bestseller natalizio. Lascio ad altri la riflessione sui celiniani tempi che viviamo, e mi chiedo: chi più di Céline ha patito gli sbalzi di umore del pubblico e della critica? E tutto per via di quel libro: Bagatelle per un massacro, il primo dei pamphlet filo-nazisti, che qualcuno ritiene il prodotto di «un delirante teppismo antisemita» (la definizione è di Mengaldo), e qualcun'altro — come Emile Brami — uno dei vertici dell'opera celiniana. Contagiato da quel fermento parigino, ho acquistato Céline vivant, un cofanetto di dvd con le interviste televisive concesse da Céline del dopoguerra. Molto di questo materiale mi era noto. Ma vedere Céline, sentirlo parlare, be' è un'esperienza impagabile. Sicché eccolo lì, sullo schermo del televisore della mia stanza d'albergo: il collo avvolto dai leziosi foulard con cui i barboni si danno un tono. Eccolo lì, nella dimora-tomba di Meudon, ostentare il corpo martoriato con la cristologica impudicizia di Artaud. La vacuità dello sguardo corrisponde all'atonia della voce: monotona come quella di certi bambini autistici, marcata da uno smangiucchiato accento parigino. È il Céline che ti aspetti, che gioca a depistare gli intervistatori con risposte vezzose. A quello che gli chiede perché ha scritto il Voyage risponde che lo ha fatto per pagare l'affitto. A quello che gli domanda se lui pensa che si possa scrivere solo del proprio vissuto, oppone ancora un'altra metafora economica: «Solo delle cose che hai pagato». E allora quello gli chiede se non ci sia affettazione in tutto quel dolore esibito dalla sua voce e strillato dai suoi libri. Céline s'infuria. Quello che nessuno capisce è che lui è figlio di una ricamatrice di merletti e come tale, a dispetto di molti suoi colleghi che utilizzano formule corrive (Mauriac, un politicante; Morand, un rincoglionito; Giono, insignificante), lui ha una artigianale dedizione per la raffinatezza dello stile. Ma certo il solito adagio celiniano: io sono solo uno stilista. Ma perché Céline insiste tanto sulla raffinatezza? Perché conosce i suoi punti di forza. Perché sa di rappresentare uno di quei casi virtuosi in cui la rivoluzione stilistica trova sontuosa corrispondenza nella rivoluzione della sensibilità. Lo capì Robert Denoël, un giovane editore, quando, nella primavera del '32, s'imbatté nel manoscritto del Voyage e sentì di avere tra le mani uno dei libri del secolo. Fu così che nella Parigi di Breton e di Cocteau atterrò quell'astronave giunta da un'altra galassia, guidata da un medico non ancora quarantenne, invalido a un braccio per una gravissima ferita di guerra, con la sua collezione di viaggi in capo al mondo: dall'Africa nera agli Stati Uniti. Un libro che, sotto forma di monologo, irradiava un'energia titanica. Ferdinand Bardamu — il Narratore — era un vitalista delle tenebre: la sua voce appariva moderna, mimetica, capace di esprimere tutto il sarcasmo della disperazione e di irradiare l'infuocata luce delle grandi disfatte. A suo modo Ferdinand si rivelava perfino un umorista (qualità che, purtroppo, il suo creatore avrebbe sacrificato in seguito sull'altare della paranoia). Ma ciò che rendeva davvero speciale il Voyage era quella miscela di lucidità e pietà per la condizione umana. Ed è esattamente questo cocktail che spinse tutti a urlare al miracolo: da Sartre a Daudet, da Bernanos a Nizan, da Bataille a Trotzkij, tutti intuirono che l'entità copernicana di quella rivoluzione era nel modo con cui Céline aveva sporcato la sua prosa di mille inflessioni tratte dalla vita vera e, allo stesso tempo, nel modo in cui tutta quella sporcizia aveva reso la sua prosa scandalosamente raffinata. Così i francesi, dopo Flaubert, hanno di nuovo uno scrittore il cui virtuosismo stilistico è pari solo al disincanto nichilista delle sue convinzioni. D'altra parte, a dispetto delle abiure con cui Céline negli anni successivi avrebbe provato a ridimensionare la potenza innovativa di quel capolavoro, nessuno meglio di lui sapeva cosa lo avesse spinto a scrivere il libro in quella precisa maniera. «Non si sa niente della vera storia degli uomini» esclama a un tratto Ferdinand, nel romanzo. Esiste aspirazione più novecentesca di questa? Raccontare la vera storia degli uomini. Come ogni scrittore di genio (come James Joyce con il quale condivide un debole per l'ellisse grammaticale e per la scatologia), Céline sapeva che tale ricerca della «vera storia» passava attraverso un nuovo modo di esprimersi. E quindi, banalmente, attraverso un nuovo modo di girare le frasi. Ecco cosa intende Céline per raffinatezza. Il problema è che ci si può ammalare di stile. Già in Morte a credito — il secondo memorabile romanzo — la consapevolezza stilistica si è come cristallizzata. La prosa sta assumendo la forma che non perderà più. L'ironia cede al sarcasmo. La frase si spappola in singulti inframmezzati dai celebri tre punti di sospensione. Il presente indicativo sta prendendo il sopravvento su tutti gli altri tempi e modi verbali. La lucidità è offuscata dal delirio. La pietà dall'odio. La misantropia degenera in razzismo. Molti anni dopo Simone de Beauvoir annoterà: « Morte a credito ci aprì gli occhi. Vi è un certo disprezzo velenoso per la piccola gente. Che è un atteggiamento prefascista». Atteggiamento prefascista che inaugura l'era sciagurata dei Pamphlet nazisti (come altro chiamarli?). Cosa spinge lo scrittore pacifista del Voyage Il personaggio Un vitalista delle tenebre: moderno, mimetico, capace di irradiare la luce delle grandi disfatte La critica a inneggiare allo sterminio degli ebrei? A mettersi al fianco della più violenta organizzazione criminale della storia, in nome di una pace che sicuramente i nazisti tradiranno? Ragioni personali e non confessabili? Un'idea pervertita dell'anticonformismo e dell'anarchia? O semplice opportunismo? A tal proposito Sartre scrisse: «Se Céline ha potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti, è perché lui era pagato». Ma purtroppo le motivazioni erano più nobili del danaro e quindi ancora più aberranti. L'antisemitismo di Céline non ha niente di originale. Non c'è nulla in quello che lui dice che non abbia detto Drumont — e con lui tanti altri — molti decenni prima. Bagatelle, con buona pace di chi ne apprezza certi passaggi, è un libro schifoso. E lo è tanto più perché è scritto con raffinatezza. La cosa più sconcertante è come l'uomo distintosi per lucidità di visione e capacità empatica, dia prova stavolta di ottusità e mancanza di simpatia. «Vorrei proprio fare un'alleanza con Hitler. Perché no? Lui non ha detto niente contro i Bretoni, contro i Fiamminghi... Lui ha parlato solo degli ebrei... Lui non ama gli ebrei... E neanch'io... E non amo neppure i negri fuori dal loro Paese...». Una frase (in mezzo a tante altre dello stesso tenore) che dimostra come uno degli errori di questo libro stia nell'aver confuso le vittime con i carnefici. E come l'errore di questo stile così esagitato (ormai totalmente celiniano) sia di essersi messo al servizio di quell'errore di valutazione storica. Così come c'era una relazione inestricabile tra la lucidità esibita da Céline nel Voyage e l'innovazione stilistica, allo stesso modo c'è un nesso tra la cantonata ideologica e l'oracolare impreziosirsi dello stile. Ecco perché concordo con quelli che dicono che Bagatelle fu un fallimento artistico (e intellettuale) ancor prima che etico. E non mi convince Pasolini quando bacchetta gli intellettuali di sinistra, che in nome di I pamphlet falliscono, dimostrandosi incapaci di raccontare il dramma che l'umanità stava per vivere Louis-Ferdinand Céline, 1894-1961 (qui a fianco in un ritratto e in basso con la moglie Lucette), una laurea in medicina, pubblica il suo primo romanzo («Viaggio al termine della notte») nel 1932. Seguiranno tra l'altro: «Morte a credito» (1936) e «Bagatelle per un massacro» (1937) Céline, si sono messi a distinguere tra le scelte ideologiche di uno scrittore e il suo valore letterario. Questa «dissociazione» a Pasolini è indigesta. Bah, non credo che le scomuniche politiche abbiano importanza in letteratura. Il problema di Céline non è di aver scelto l'ideologia sbagliata, ma di aver consacrato a quell'ideologia una troika di libelli eccessivamente raffinati, incapaci di raccontare il dramma che l'umanità stava per vivere. Tre pamphlet che nulla tolgono all'esemplare magnificenza del Voyage edi Morte a credito, ma che forse gettano una luce fosca sui tre libri della maturità: la così detta Trilogia del nord. Ancora una volta i detrattori di Céline considerano Da un castello all'altro, Nord e Rigadon opere biecamente auto-apologetiche di un nazista che non ha voluto fare i conti con il passato. Jean-Pierre Martin, nel suo Contre Céline, scrive: «In Rigadon, Céline ci dice, dall'inizio alla fine, in lungo e in largo: io muoio razzista ». Ancora una volta un'osservazione mal calibrata. Nelle opere di Sade o di Lautréamont troviamo confessioni non meno indigeste. La questione anche stavolta è artistica: la Trilogia è l'affascinante scoria di un genio paranoico ormai incapace di entrare in relazione con il mondo. Un'opera fallita per eccesso di ambizione e di stile (un po' come la joyciana Finnegans Wake). C'è qualcosa nell'ossessiva ripetitività dei suoi stilemi che appare fin troppo estetizzante. È quella che Massimo Raffaelli, con felice espressione, non senza ammirazione, chiama: «stilizzazione dell'orrore». Così quando uno degli intervistatori (quello che gli ha dato più filo da torcere) chiede conto a Céline dei suoi eventuali sensi di colpa, lui risponde che tutti gli uomini sono colpevoli, tranne lui. È possibile scrivere qualcosa di necessario senza sentirsi — almeno un po'! — colpevoli?
Louis-Ferdinand Céline
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