George W.Bush arriva in Medio Oriente. Ecco l'analisi del FOGLIO di oggi, 05/01/2008, a pag.3, dal titolo " Ecco che cosa aspetta Bush al suo arrivo in medio oriente ".
Gerusalemme. Un messaggio di Hassan Nasrallah, leader (secondo alcune fonti azzoppato) di Hezbollah, i razzi Qassam dalla Striscia di Gaza cadono su Sderot e Ashkelon, i raid israeliani contro miliziani palestinesi – ieri ancora due morti – e gli scontri tra Hamas e Fatah. Ecco quel che aspetta George W. Bush, presidente americano, al suo arrivo in medio oriente l’8 gennaio per una visita lo porterà in Israele, Cisgiordania, Kuwait, Bahrain, Emirati arabi uniti, Arabia Saudita ed Egitto. L’obiettivo di quest’accoglienza è, come sempre, la destabilizzazione: gli oppositori al processo di pace tra israeliani e palestinesi non vogliono che questa visita rappresenti un’altra occasione per il dialogo – che si fonda sulla teoria “due stati vicini basati sulla democrazia, la pace e la sicurezza” – come è stato il summit di Annapolis alla fine del novembre scorso. Nasrallah, che ancora non ha digerito il consesso di paesi arabi che si è seduto al tavolo di Annapolis, ha gridato a un complotto ordito dagli Stati Uniti (con la complicità del governo filomaericano di Beirut) per sistemare palestinesi in Libano “non per ragioni umanitarie naturalmente, ma per indebolire la causa palestinese e il diritto del popolo a ritornare nella sua terra”. Il clima insomma non è dei più tranquilli, ma nervosismo di Nasrallah, leader patrocinato dall’Iran, segnala che serpeggia il timore che il piano di Washington possa funzionare. Di certo Bush non ha intenzione di fermarsi, anzi sembra più concentrato che mai prima d’ora sulla questione israelo-palestinese. Ci sono diverse ragioni per questa focalizzazione del presidente americano spiega al Foglio Michael Oren, storico rinomato e senior fellow presso il Shalem Center – Prima di tutto: l’Iraq e il bisogno galvanizzare l’Europa e i paesi arabi moderati per ottenere il loro sostegno. Insecondo luogo: l’Iran e il bisogno di creare un fronte anti Teheran unito contro la volontà atomica e terroristica del regime di Mahmoud Ahmadinejad. In terzo luogo: l’eredità politica, poiché ci sono molti nell’Amministrazione americana che non vogliono passare alla storia soltanto come quelli che si sono invischiati in Iraq”. Anche Rami Nasrallah, capo del think tank palestinese International Peace e Cooperation Center di Gerusalemme est,Ibrahim Sarsur, dell’United Arab List e dell’Arab Movement for Renewal, condividono quest’ultima parte dell’analisi. Rami Nasrallah è pessimista, perché – dice pure Bill Clinton ci provò, ma non funzionò per lui, come credo che non funzionerà per Bush”. Sarsur no, non è così pessimista, non crede che lo sforzo di Washington sia dettato soltanto dalla mania tutti i presidenti “anatre zoppe” di riscattarsi nella questione israelo-palestinese. Anzi, Sarsur è l’unico che ribalta la solita versione per cui il premier israeliano,israeliano, Ehud Olmert, e il rais palestinese, Abu Mazen, sono troppo deboli internamente per poter veramente portare avanti il processo di pace. “Ah, c’era una volta, tanto tempo fa – sorride Sarsur – in cui anche di Yitzhak Rabin e Arafat si diceva che fossero leader deboli. Abu Mazen e Olmert non sono poi così deboli e sono convinto che possano fare qualcosa di concreto. Olmert è sostenuto da una grande maggioranza alla Knesset e Abu Mazen è stato in fondo eletto dal 60 per cento del popolo palestinese in elezioni democratiche”. Rami Nasrallah interviene di nuovo, urla “ma non si possono comparare le due cose!”, prende la parola e spiega che un conto sono le istituzioni israeliane e il fatto che non tutto dipende esclusivamente da Olmert, un altro conto è invece Abu Mazen, la cui debolezza “è dovuta al fatto che non ci sono uno stato di diritto o delle prigioni in Cisgiordania, il che significa che non c’è sicurezza per i palestinesi”. Un altro esperto, l’analista politico di Commentary e del New York Sun Hillel Halkin, ricorda il precedente più vicino: Ehud Barak perse la sua maggioranza alla Knesset proprio alla vigilia del vertice di Camp David voluto da Clinton nel 1999 per il timore che facesse le concessioni che poi in effetti fece. Halkin spiega: “Anche a Olmert potrebbe capitare la stessa cosa, ci sono due partiti, Shas e Israel Beiteinu, che hanno già anticipato che, nel caso il premier faccia concessioni come Barak, lasceranno la coalizione e Olmert si ritroverebbe senza governo”. Oren non d’accordo, pensa che Olmert sia ben più forte di Barak, anche perché Shas minaccia “ma poi non se ne va”. Il fronte palestinese non è meno delicato e gli esperti non sono meno in disaccordo sulla fattibilità della soluzione “due popoli- due stati” voluta da Bush. Sarsur è convinto che lo stato palestinese è possibile, “ma ci vorrà tanto tempo”, e “non saràun processo graduale”, perché “i palestinesi non accetteranno mai un piano che dia il loro futuro un passo alla volta. Hanno patito per più di cent’anni, è il momento per israeliani e palestinesi di metttersi lì e negoziare”. Halkin spiega che “lo stato palestinese è forse fattibile, ma comunque sarà uno stato irredentista e fomenterà inevitabilmente le tensioni con Israele, con l’obiettivo ultimo di riprendersi quello che gli fu tolto nel 1948”. Oren è categorico: “Lo stato palestinese oggi non è possibile. I palestinesi non sarebbero in grado di mantenerlo, l’unico modo per tenere Hamas fuori dalla Cisgiordania, al momento, è l’esercito israeliano. L’Autorità nazionale palestinese aspetta il momento in cui la soluzione a due stati diverrà una soluzione a uno stato, cioè quando Israele scomparirà con strumenti diplomatici o demografici”. Rami Nasrallah liquida le parole di Oren come “paranoia israeliana” e sostiene Fatah, “l’unico movimento nazionale che può negoziare con Israele al momento”. Ma poi entra anche lui nel circolo delle cosiddette paranoie, dice che Hamas avrebbe voluto parlare con Israele e che è stato quest’ultimo a rifiutare la proposta e allora “chi è che mette le barriere?”, non sono gli israeliani che devono decidere chi rappresenta il popolo palestinese. Il conflitto non è di facile soluzione, si sa. Dalla questione della terra al ritorno dei rifugiati (per non parlare dello status di Gerusalemme) i temi su cui il disaccordo è profondo e radicato sono parecchi, e da sempre più o meno gli stessi. Un’impresa disperata parrebbe. “La mia impressione – conclude Halkin – è che Olmert, Abu Mazen e Bush sanno di essersi imbarcati in una missione impossibile. Ma ognuno di loro, ognuno per le sue proprie ragioni, ha deciso di giocare una parte per il processo di pace, e ognuno la farà al meglio che può”.
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