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Il Foglio Rassegna Stampa
04.01.2008 Lo sceicco che mina la strategia americana
L'analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 04 gennaio 2008
Pagina: 4
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Lo sceicco Essa mina la strategia di George B»

Sul FOGLIO di oggi, 04/01/2008, a pag.4, con il titolo " Lo sceicco Essa mina la strategia di George B.", Daniele Raineri analizza la minaccia terroristica in Pakistan.

Lo stesso giorno in cui Benazir Bhutto è stata assassinata c’è stato un altro grande attacco in Pakistan. Nessuno ha parlato, perché l’informazione era più discreta e ovviamente coperta dalle notizie che arrivavano da Rawalpindi. Un drone americano in volo sulla regione covo dei terroristi del Waziristan ha colpito la base in cui si nascondeva Sheikh Essa, un egiziano che parte della potente casta degli ideologi di al Qaida. Si tratta dell’ennesimo colpo mirato che il governo pachistano consentito agli americani, dentro una guerriglia segreta al di qua del confine afghano che verosimilmente 2008 si allargherà ancora. Elicotteri, aerei e droni hanno già l’autorizzazione riservata a colpire obiettivi di alto valore sul territorio di Islamabad, compresi Hvt1 (High Value Target One) Hvt2, Osama bin Laden e il suo vice Ayman al Zawahiri. Nel 2006 e nel 2007 americani hanno attaccato basi, campi d’addestramento e meeting dei leader estremisti a Danda Saidgai, Damadola, Chinai e Zamazola. A Danda Saidgai il campo della Guardia nera, l’unità di élite che protegge Bin Laden, ha subito un raid delle forze speciali americane. Lo scorso agosto il loro capo, il comandante dell’Uss Special Command, Eric T. Olson, si è incontrato con Pervez Musharraf per pianificare l’imminente allargamento del numero e della qualità degli interventi. Tra argomenti trattati, anche l’idea di adottare il modello iracheno dei sunniti al Anbar alle zone tribali del Pakistan: i volontari locali, stanchi della guerriglia scatenata dagli “arabi”stranieri, potrebbero con l’aiuto di “consiglieri” americani dare la caccia agli estremisti. Un recente rapporto di Stratfor, uscito prima dell’omicidio Bhutto, parla della “necessità di spostare il fronte anti al Qaida in Pakistan, ora che i suoi uomini stanno abbandonando campo di battaglia iracheno”. L’Fbi ha messo in piedi da tempo speciali squadre, “Spider”, di agenti locali per dare caccia ai ricercati. Secondo gli analisti militari, uomini delle forze speciali, media altezza, con divise pachistane con qualche rudimento di lingua pashtun per non dare troppo nell’occhio, sono già arruolati nei reparti di Musharraf che combattono gli estremisti. Sheikh Essa – uscito vivo dall’attacco, anche se malconcio – è l’uomo che vuole scardinare la strategia americana in Asia. Negli ultimi quattro anni ha cambiatocambiato direzione alla guerra di 180 gradi. talebani e i loro fiancheggiatori in Pakistan – qualcuno in marcia tra le gole ripide delle province di frontiera, molti annidati negli uffici ministeriali nella capitale Islamabad e in quelli della città guarnigione Rawalpindi – combattevano verso nord, perché consideravano il paese soltanto la retrovia naturale della battaglia ben più alta per riprendersi il territorio afghano. Il Pakistan è considerato il camerino dello spettacolo, ma è l’Afghanistan il set per mandare in scena contro la Nato e gli americani la replica del mito fondativo di al Qaida, la guerra santa contro l’Armata rossa sovietica. Sheikh Essa ha dato invece le spalle all’Afghanistan e dai bastioni waziri di Mir Ali – secondo il ben informato Syed Saleem Shahzad – ha predicato la guerra verso sud: il jihad deve cominciare dal Pakistan, dal governo corrotto e filoamericano di Musharraf,dai suoi generali impuniti, per prendere le sue metropoli perse all’islam stavano provando i seguaci della Moschea Rossa a luglio – e soprattutto arsenale atomico. Prima il Pakistan, vincere anche in Afghanistan. Per infiammare i clan pashtun, Essa trapiantato nelle aree frontaliere peggio della dottrina rivoluzionaria politica- islamista dell’Egitto degli anni Sessanta, il “takfiriat”, la stessa fonte secca a cui si abbeveravano gli assassini di Sadat e il giovane al Zawahiri, di Bin Laden. Si può riassumere grossolanamente così: “Chi non è al cento con noi, è al 100 per cento contro l’islam. Merita la punizione estrema”. La sentenza di morte contro la democrazia in Pakistan è stata pronunciata Essa (e lo scorso settembre pure Osama bin Laden con un messaggio), dall’inefficienza furba e dal cerchiobottismo di Pervez Musharraf. squadre speciali al lavoro Gli americani potevano fare di contro la calata del predicatore straniero dei suoi seguaci? Non molto. Dopo settembre hanno minacciato di riportare il Pakistan indietro all’età della pietra a suon di bombe”, così disse il vicesegretario di stato Richard Armitage Musharraf, se non fosse passato subito dalla parte giusta della guerra al terrorismo.Continuano a pompare dieci milioni dollari al mese in aiuti e armamenti favore del presidente generale, occupato tra le altre cose a sopravvivere a un attentato islamista ogni due mesi, perché conduca con efficacia le sue manovre militari. Manovre non finte: il Pakistan ha più di mille soldati nella guerriglia i neotalebani. E’ secondo solo agli Uniti per numero di uomini ammazzati dai terroristi e per numero di membri di al Qaida catturati, compresi Zubaydah e Khalid Sheikh Mohammed, il comandante di campo di al Qaida l’organizzatore dell’11 settembre. Stati Uniti hanno anche preparato favorito l’evoluzione democratica. Il dell’Amministrazione era basato modello di transizione da potere militare a democrazia sperimentato più nei paesi dell’America Latina. Si chiama “pacted transition”. L’idea di è che i moderati all’interno del regime e le ali più tranquille dell’opposizione democratica possono patteggiare resa progressiva dei militari con elezioni. Il voto agli inizi, nelle prime fasi, sotto controllo”, come ha fatto Musharraf con la dichiarazione e poi la revoca dello stato d’emergenza, invece che completamente aperto e libero. Il difetto riconosciuto di questo tipo di transizioni è che i militari continuano a conservare il potere in alcune aree chiave, come potrebbe essere la lotta al terrorismo. Ma poteva sembrare un negoziato accettabile, a guerra in corso. Tutto dipende dal Musharraf di turno. Nell’ambito della transition, Washington ha apertamente sponsorizzato il ritorno dall’esilio alla politica di Bhutto – diventata per questo un altro bersaglio mobile al Qaida – con abboccamenti organizzati a Londra e a Dubai tra il suo partito quello del generale. Sono gli americani, ancora, a preparare piani d’emergenza nel caso – non del improbabile – che il paese precipiti caos. Il primo problema ovviamenteè l’arsenale atomico: squadre delle forze speciali sono al lavoro per localizzare l’esatta ubicazione di tutti i silos nucleari e per proteggerli, o addirittura trasferirli, in caso di problemi. Un secondo problema sono le linee di rifornimento alle truppe in Afghanistan: il 75 per cento passa dal Pakistan. Molti paesi europei hanno soldati coinvolti, compresi noi, tutto tace. Ci pensino gli americani. Sarebbe stato difficile per l’America essere più presente in Pakistan. Questa Amministrazione, che pure ora sarà costretta ad aumentare i “boots on the ground”, conosce meglio di qualsiasi altra i rischi degli interventi all’estero. Come mantenere basi in Arabia Saudita negli anni Novanta è stato il supremo insulto che ha aizzato i fanatici dell’11 settembre, così negli anni passati un patronato appena più stretto di quello che gli americani hanno applicato al Pakistan dopo l’11 settembre avrebbe soltanto accelerato la violenza e trasformato Musharraf, anche agli occhi della maggioranza tranquilla dei pachistani, in un potere delegittimato, e non è detto che non sia comunque già successo. L’America ha provato a governare con discrezione e il progressivo cedimento del paese, in attesa di un cambio senza troppi scossoni. Poi è arrivata la diabolica intuizione di Sheikh Essa.

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