A pag. 18 e 19 di EPOLIS del 27 dicembre, nella rubrica “reportage”Luca Fiori firma due articoli dal titolo: “Diario di viaggio. Natale a Betlemme e a Gerusalemme, così vicine e così divise”
Il primo dal titolo: “Quel muro di discordia tra i colori della Terra Santa”
I controlli, i murales, i soldati, la tensione. Il solito scenario davanti agli occhi della delegazione italiana che dal 2001 organizza il “Concerto per la vita e per la pace”
I am not a terrorist. Non sono una terrorista. E’ la scritta, in inglese, impressa accanto al viso di una donna, avvolto in una kefia bianca e nera, la sciarpa che Yasser Arafat aveva elevato a simbolo della lotta palestinese. Il piccolo murales è a pochi passi dal checkpoint che regola l’ingresso a Betlemme, sotto lo sguardo severo di giovanissimi soldati israeliani protetti da felpe in paile, giubbotti antiproiettili e kalashnikov. I am not a terrorist è scritto sull’unica costruzione intorno a Betlemme che non ha il colore bianco della pietra calcarea della Terra Santa. Lo sfondo è il grigio del cemento armato con cui Israele sta costruendo un muro alto otto metri per separare la Palestina. Una barriera difensiva, (inframezzato da un trafiletto “Superare i controllo al checkpoint non è una impresa semplice. I giovani soldati decidono chi passa”) dal punto di vista israeliano.
Una violazione dei diritti e un’oppressione per chi dal giugno del 2002 si è ritrovato all’interno di un ghetto che si estende per 600 chilometri. “Oltrepassarlo non è semplice” spiega la guida della delegazione italiana che ogni anno, dal 2001, organizza in Terra Santa il “Concerto per la vita e per la pace” “I controlli sono severi – aggiunge – e alla maggior parte dei palestinesi non è concesso superare il muro ed entrare nello Stato di Israele”.
Il pullman con a bordo la delegazione italiana, di cui fa parte anche il ministro delle Infrastrutture Antonio di Pietro, si ferma al checkpoint per il controllo. Rispetto a qualche anno fa la situazione è meno tesa. I ragazzini col fucile a tracolla salgono a bordo e chiedono agli italiani di mostrare il passaporto, poi scendono e quando danno l’ok il viaggio verso Betlemme può proseguire. La vita, nella cittadina palestinese, ruota intorno alla piazza accanto al complesso della Natività. Ci sono le luminarie, un albero di Natale e al centro un carretto con un anziano che vende pannocchie arrosto. Fa pochi affari, come i negozietti per turisti che da quando esiste il muro stanno chiudendo uno dopo l’altro. Dopo la seconda Intifada del 2000, i pellegrinaggi da queste parti sono diminuiti sensibilmente. In uno dei pochi bazar rimasti aperti una donna sui sessant’anni accoglie i clienti arrivati dall’Italia regalando un sorriso materno e offrendo a tutti un bicchiere di tè caldo. “Merry Christmas” dice in inglese, poi prova a vendere rosari, presepi, e statuine fatte a mano, tutte rigorosamente con l’ulivo che cresce in questa terra arida. Una terra santa da millenni per le tre grandi religioni monoteiste. Tutte e tre convivono a Gerusalemme, che da Betlemme dista appena dieci chilometri. Per arrivarci c’è un’autostrada che corre accanto al muro ancora in costruzione. Al centro della città vecchia c’è un altro muro risalente all’epoca del primo Tempio di Gerusalemme, il muro del pianto. Per entrare a pregare si passa attraverso un metal detector. A pochi centimetri dal muro un plotone di soldati israeliani, con i fucili a tracolla, si commuove davanti al luogo più sacro all’ebraismo. Quelli sacri alla cristianità non sono lontani da qui e neanche la moschea Al-Quds, terzo luogo santo in ordine di importanza per i musulmani dopo La Mecca e Medina. Qui ogni anno una delegazione italiana viene a ricordare tutti, pochi giorni prima di Natale, che la strada della pace si può costruire insieme. Ma solo dopo aver buttato giù il muro dell’odio.
Mentre il terrorismo e le bombe possono tranquillamente continuare e riprendere come quando non c’era il muro?
Il secondo articolo dal titolo: “Prosegue il dialogo per parlare di pace Olmert incontra ancora Abu Mazen”
Il dialogo per la pace prosegue. Stamattina il premier israeliano Ehud Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen, hanno fissato un incontro a Gerusalemme. E’ il primo dopo il vertice di Annapolis. Lunedi un incontro fra le delegazioni di Israele e dell’Anp si era rivelato inconcludente, anche per il contemporaneo annuncio da parte israeliana di nuovi progetti edili a Gerusalemme est e a Maaleh Adumim, una città-colonia vicina a Gerusalemme. A gettare le basi per la pace dal 2001 ci prova anche l’Italia con un’iniziativa che parte da comuni, province e regioni. Durante la conferenza permanente delle città storiche del Mediterraneo svoltasi quell’anno a Valmontone nacque l’idea di realizzare a Betlemme un grande evento culturale in grado di mandare un segnale positivo e di speranza da un territorio martoriato da lunghi anni di guerra. Così, in piena Intifada, un gruppo di amministratori di enti territoriali italiani, guidati dall’allora sindaco di Valmontone Angelo Miele e da quello di Castelsardo Franco Cuccureddu, organizzarono un concerto nel complesso della Natività. Quest’anno, per la settima edizione, la delegazione era guidata dal ministro delle Infrastrutture Antonio di Pietro. L’orchestra dei “Solisti Veneti” e la cantante argentina Paula Almeres, e le israeliane Enas Messalha e Orit Gabriel, si sono esibiti il 22 dicembre nella chiesa di Santa Caterina nel complesso della Natività a Betlemme e il giorno seguente in un teatro di Gerusalemme. La delegazione è stata ricevuta dal sindaco di Ramallah Janet Michael, una donna di fede cristiana, e dal sindaco di Betlemme Victor Baterseh. Entrambi si son detti (inframezzato da un trafiletto: “Dopo il vertice di Annapolis oggi si terrà un nuovo summit tra i due rappresentanti di Israele e Palestina”) entusiasti e convinti che il segnale di speranza che giunge dall’Italia ogni anno può servire a costruire la pace. A Ramallah il ministro Antonio Di Pietro si è recato nel mausoleo dedicato al leader del fronte per la liberazione della Palestina, Yasser Arafat, scomparso nel 2004, e ha deposto dei fiori.
Sperare nei fiori sarebbe esagerato, ma almeno una visitina a qualche tomba di vittime del terrorismo non sarebbe stato quanto meno “equivicino”?
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