di LUIGI OFFEDDU M alika si sposò a 16 anni. Era appassionata di soap-operas televisive. Lei e Nureddin, il marito, passarono la notte delle nozze a guardare varie immagini di decapitazioni registrate da Internet. Lo facevano anche altre sue amiche, a volte. Per esempio, guardavano la morte di un soldato russo in Cecenia. All'inizio — raccontarono poi — i rantoli gorgoglianti degli «infedeli» decapitati le sconvolgevano, poi si abituarono. Malika alla fine fu fermata e interrogata dalla polizia, ma rifiutò di confermare la sua testimonianza in tribunale. Nureddin, prima di finire in prigione, bazzicò a lungo i macelli islamici di Amsterdam, assistendo agli sgozzamenti rituali dei montoni. Il suo matrimonio con Malika era stato celebrato da Mohammed Bouyeri, l'uomo che il 2 novembre 2004 avrebbe sgozzato Theo Van Gogh. Nureddin aveva anche un'altra moglie: Sumaya, 21 anni, una bella ragazza che dopo un pellegrinaggio alla Mecca con il padre aveva deciso di indossare il niqab, il velo che copre la donna dalla testa dai piedi: «Lo faccio per Allah». E con il niqab addosso, Sumaya aveva continuato a pattinare nel tempo libero, come aveva sempre fatto. La arrestarono poi ad Amsterdam, con il marito. Lui aveva un'arma carica nello zainetto, si disse che i due stavano per uccidere dei deputati olandesi fra cui Ayaan Hirsi Ali, l'intellettuale di origine somala condannata a morte con Van Gogh. Si disse anche che Sumaya era stata scelta come boia perché donna, per provare al mondo che Hirsi Ali non rappresenta le musulmane. La coppia negò tutto, le accuse non furono provate, e il caso restò un mistero. Sumaya è in prigione con altre accuse, in un braccio speciale antiterrorismo. Erano tante e giovani, le guerriere di Allah. Alcune, come Malika, si erano date un nome: le «Sorelle». Altre, come Sumaya, non facevano parte del cerchio più ristretto, ma ne condividevano idee e modi di vita. Tutte erano figlie di immigrati marocchini, nate e cresciute in Olanda, ben integrate nella società locale, e più o meno legate alla rete terroristica «Hofstad» («Città della Corte», cioè L'Aja, dove vive la regina). Mogli, sorelle, amiche delle amiche dei terroristi. Qualcuna diceva, e dice: «Uccideremo Hirsi Ali, anche se dovessimo aspettare 10 anni per farlo». La doppiezza dell'imam Andavano nella moschea As Soennah dell'Aja, ad ascoltare l'imam Fawaz Jneid: nelle prediche ufficiali, diceva che bisogna rispettare le leggi olandesi e che non è giusto uccidere gli infedeli; in altre riunioni con i più fidati, pregava Allah di «regalare a Hirsi Ali un cancro alla lingua». Le «Sorelle» a volte si chiedevano fra loro: è giusto ciò che accade in certi paesi? E'giusto immolarsi uccidendo passanti, e donne, e bambini? E si rispondevano: «In Olanda no, non sarebbe giusto: tanti olandesi sono come noi contro Bush, e contro la guerra in Iraq. In Israele, è diverso. Lì quasi tutti gli adulti militano nell'esercito, quasi nessuno è innocente...». Tuttavia l'idea dei bambini uccisi le tormentava lo stesso. Ne discutevano anche con Janny e Annieke, che con loro parlavano da due anni, recandosi in quella stessa moschea e perfino nelle case di famiglia in Marocco: Janny Groen e Annieke Kranenberg, giornaliste del quotidiano de Volkskrant, che per prime hanno raccontato dall'interno un mondo impenetrabile, raccogliendo in un libro le vite di 15 «Sorelle» dai 18 ai 25 anni, raccontate dalle loro stesse voci. Il saggio Strijdsters van Allah, «Le guerriere di Allah » (editore de Volkskrant-Meulenhoff) è stato appena pubblicato in Olanda, dov'è già un caso; e sta per essere pubblicato negli Usa. Sulla copertina, le sagome velate di due «Sorelle» che hanno accettato di farsi fotografare. E in 382 pagine, un viaggio compiuto solo perché le autrici hanno conquistato la fiducia delle intervistate. Il velo? Un segno di libertà «Non abbiamo mai barato, con loro: ci siamo sempre presentate come giornaliste. La prima volta fu in tribunale, al processo contro Samir Azzouz, uno della rete Hofstad. Loro conversavano nella tribuna del pubblico, erano tutte velate. Ne seguimmo due per la strada, le fermammo: "Possiamo parlare?" "Sì, certo". "Conoscete gli imputati?" "Sì, io sono la moglie di..." "E io la fidanzata". "Una famiglia poligamica?". Ci fissarono: "Che significa poligamia? Nell'Islam non siamo ipocriti: gli uomini non cercano prostitute, non ne hanno bisogno. Ma devono dedicare lo stesso tempo a ciascuna moglie. Noi siamo donne libere, non sottomesse agli uomini ma solo ad Allah. Questo velo? È il segno della nostra emancipazione, del rapporto diretto con Dio. L'Islam ci libera da tutto"». «Quando dicevano "Islam" intendevano l'Islam salafita, l'unico per loro puro. E quando dicevano "da tutto", così arrivammo a pensare noi più tardi, intendevano anche dalle loro famiglie d'origine, dai loro genitori tradizionalisti». Le due ragazze erano Fatima e Najna, 20 anni. «Parlammo a lungo. C'era un freddo terribile, scrivevamo e avevamo le dita blu. Alla fine, ci diedero i numeri dei cellulari. E un altro appuntamento, in un ristorante fast food». Cominciò tutto così: «Entrammo "nel cerchio". Non le giudicavamo, e loro non ci giudicavano. Né tentavano di convertirci. Non siamo mai divenute amiche: è importante mantenere le distanze. Accettavano di parlare con noi, perché per loro era una dawa, un dovere missionario. Pensavano: chi leggerà, amerà l'Islam». E si parlava di tutto, anche di sesso: «Per l'Islam, ci dicevano, tutto è lecito con tuo marito. E molte, così ci sembrò, si sposavano per far sesso. E chi era quell'Ibn Tamiyya, che citavano come un loro leader spirituale? Lo scoprimmo: un islamista del 1200, che 700 anni dopo ispirava anche loro. Le "Sorelle" parlavano un olandese perfetto, ammiravano la cantante pop olandese Anouk. Un giorno, avevano iniziato a studiare l'arabo, all'università e su Internet, per leggere e tradurre il Corano o testi radicali trovati sui siti jihadisti. Traducevano, diffondevano. E sul web, trovavano un'identità, lì erano superiori agli uomini: solo loro diffondevano la "verità suprema". Qualcuna ha ucciso? Non crediamo. Ma non sappiamo se lo avrebbero fatto, all'occasione. Siamo state nelle loro case: niente foto, quadri, musica. Una scelse come nuovo nome "Om Osama", "madre di Osama Bin Laden". Un'altra "Om Khattab", in onore al leader ceceno. Forse erano già dei segni». Ma come si può passare dalla minigonna al niqab? «Non c'è una sola risposta. Per certe, il fattore scatenante fu una crisi adolescenziale, per altre il dopo-11 settembre. Ci hanno raccontato: "Guardavamo sempre in Tv quelli che si buttavano dalle Torri gemelle, e dicevamo: poverini... Ma poi, in Afghanistan, o in Iraq, tutti quei musulmani ammazzati! In Cecenia, 50mila bambini uccisi, non lo sapete? I morti devono essere tutti uguali"». Derise in Marocco Per altre, la «conversione » iniziò da un contrasto in famiglia. «Dicevano: i miei genitori volevano farmi sposare un cugino, o farmi operare per riavere la verginità, ma per l'Islam devi obbedire solo ad Allah. Pensavano che l'Islam le avesse liberate, non di essere piombate in una schiavitù peggiore. Anzi: "Se i nostri uomini vogliono chiuderci in casa, ora sappiamo che abbiamo il diritto di andare alla moschea, o negli Internet café, o dovunque, per diffondere la parola di Allah". Fra i salafiti ritrovavano quella Ummah, famiglia di fede, che non avevano avuto dai genitori, o dal paese adottivo. Ma poi si sentivano fuori posto ovunque: quando andammo in Marocco con loro, nei villaggi del Rif ridevano del niqab. Chiedevamo alle Sorelle: "Perché non tornate a vivere qui, in Marocco?" e rispondevano: "No, odiamo il suo re più di Hirsi Ali, perché si fa adorare come un dio, e questo è peccato mortale"» Le «Sorelle» di oggi non credono più che sia giusto uccidere gli apostati. Alcune sono tornate alla casa d'origine, hanno divorziato dai mariti. O hanno scoperto, traducendo i testi originali, che certi imam mentivano. Un'altra generazione è cresciuta, più realistica. Ma il pericolo è sempre presente. «Non bisogna abbandonare i giovani musulmani — dicono Janny e Annieke — dobbiamo ascoltarli di più, e non credere che tutto si possa risolvere con il carcere. Soprattutto dobbiamo dar loro l'esempio, e rispettare i diritti umani che noi stessi occidentali predichiamo: ad Amsterdam, ma anche a Guantanamo, a Kabul, ad Abu Ghraib».
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