Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Un libro e un film interessanti Il primo passato sotto silenzio, il secondo nemmeno distribuito
Testata: Corriere della Sera Data: 29 dicembre 2007 Pagina: 39 Autore: Alessandro Piperno Titolo: «L'innocenza perduta del soldato ebreo»
Sul CORRIERE della SERA di oggi, a pag.39, Alessandro Piperno analizza il libro di Ron Leshem " 13 soldati",dal quale è stato tratto il film " Bofor", come si pronuncia il titolo in Israele, che ha vinto molti premi internazionali, ma che in Italia non ha trovato un distributore. Il libro è uscito, ma è passato sotto silenzio. Piperno ne analizza i motivi. Abbiamo letto il libro e visto il film, entrambi prodotti di ottima qualità, degni della migliore produzione europea o americana. Ma i libro ha avuto poche recensioni ed è scomparso dalle librerie.Il film, che pure ha vinto premi importanti (Berlino), non ha trovato un distributore. Eppure, sia il libro che il film, affrontano un tema come la guerra, senza retorica, con uno sguardo lucido verso la società israeliana, un film senza effetti speciali, girato con grande professionalità tecnica, un film dalla grande umanità e compassione. Forse sarà il paese d'origine a destare sospetti, vorremmo essere smentiti, staremo a vedere.
Il caso Un autore conquista Tel Aviv con un romanzo sulle «vergogne» taciute della guerra e trascurate dalla letteratura del suo Paese
L'innocenza perduta del soldato ebreo
Sangue e violenza: così lo scrittore israeliano Ron Leshem imbarazza noi lettori d'Occidente
di ALESSANDRO PIPERNO Perché Tredici soldati, l'emozionante libro del giovane scrittore israeliano Ron Leshem, esce in Italia e passa totalmente inosservato? Il sospetto che divampa capziosamente in me è che tale distrazione dipenda dalla scabrosa materia di questo libro, e dal modo non meno scabroso con cui viene maneggiata. Il romanzo narra la convivenza di un gruppo di soldati di stanza a Beaufort, avamposto ebraico in Libano proprio nei mesi in cui gli israeliani decidono di disfarsene e di restituirlo ai libanesi. Una base talmente sotto assedio che non puoi toglierti le scarpe e nemmeno urinare come decenza prescrive: perché abbassarsi i calzoni è considerato un suicidio. «Benvenuti a Beaufort. Se esiste il paradiso, il panorama è questo, se esiste l'inferno, ci si vive così» dice il comandante ai nuovi arrivati. Tale permanenza è narrata dall'ufficiale ventenne Erez, un duro con il vizio dell'insubordinazione (è stato anche in carcere per questo). La sua voce è cinica, euforica, piena di orgoglio, di sentimentalismo patriottico e sempre raggelata da un macabro umorismo tipico degli uomini vicini alla morte. Erez è uno di quei soldati che non si fanno domande e odiano coloro che se le fanno. La sua logica è brutalmente elementare: il tuo compagno è il tuo compagno e il nemico è il nemico. Cosa spinge un uomo, si chiede ad un tratto, a caricare, cioè a conculcare l'istinto di sopravvivenza e sfidare una morte certa? «È l'amicizia, dicono gli studi, e la pressione sociale. Sì, la vergogna con gli amici più ancora che il desiderio di portare a termine la propria missione». Perché il tuo compagno è tutto. Il tuo nemico è niente. Un severo punto di vista parmenideo che dovrebbe essere universalmente condiviso ma che invece una parte di noi tende a svuotare di significato, forse per l'amore per le sfumature che George Steiner chiama il «pregiudizio liberale ». Ecco allora il problema. Che non sia questo ad aver decretato l'insuccesso del libro in Italia? Il sospetto subliminale che questo romanzo offra un'immagine di Israele che molti di noi non vogliono vedere. Quella che autorizza il giovane Erez a sentenziare che il «valore supremo» per un israeliano è «il combattimento e il sacrificio personale ». Valori che a noi sembrano semplicemente disvalori. Cascami barbarici di cui ci siamo liberati e da cui vogliamo emancipare il mondo. Mi sembra utile ricordare, a questo punto, la grande popolarità di cui gode la narrativa israeliana, in Italia. Un successo del tutto meritato. Quale altra letteratura nazionale può schierare una così nutrita squadra di fuoriclasse? Allo stesso tempo mi sembra doveroso notare come tutti questi scrittori siano accomunati da una speciale strategia narrativa: ognuno elude i due temi che rendono Israele un paese peculiare: guerra e attentati. Pensateci, da Agnon, il grande geniale capostipite, ad Appelfeld, fino a Shalev o Keret... È difficile che qualcuno tra costoro si sporchi le mani di sangue. Una cosa davvero insolita se si pensa, per esempio, al caso americano: quanti narratori si sono già cimentati (con insuccesso) con il feticcio dell'11 Settembre? Safran Foer, McInerney, DeLillo. Da questo dipende il riserbo dei narratori israeliani? Dal terrore di fallire? Di impantanarsi in una retorica bellica o antibellica? Bah, certo è che tutta questa pudicizia ha giovato alla letteratura israeliana, rendendola così intima e universale. Ma ecco forse anche il motivo per cui il libro di Leshem ha scosso i suoi compatrioti. E lasciato freddi i miei connazionali. Perché ha colmato un vuoto per noi impercepibile, ma che gli israeliani avvertono. Ha soddisfatto una domanda che li riguarda personalmente, a cui noi non attribuiamo alcuna dignità: «chi è oggi un combattente? ». La recluta nera arruolata con l'inganno da una società ingiusta, come pensa Michael Moore? Lo psicopatico che umilia le sue vittime a Abu Ghraib? Lo scamiciato in kippah che spezza il braccio del ragazzino palestinese? L'ufficiale di Tel Aviv che sceglie l'obiezione di coscienza perché non crede più nella guerra? Leshem — giornalista liberal, autore di reportage sull'Intifada— ha scelto di rispondere a questo interrogativo prestando la sua voce a un sopravvissuto di Beaufort. E lo ha fatto come solo i veri scrittori sanno fare: sposando il punto di vista del Narratore, senza in alcun modo lasciarsi inquinare dal cancro di un'opinione personale. Il risultato è struggente, con qualche comprensibile caduta nell'ingenuità. Il libro si apre con una specie di litania che sembra voler attualizzare il famoso adagio di Edgar Allan Poe: la filastrocca del «mai più». Erez e i suoi commilitoni la intonano come un kaddish postmoderno, ogni volta che muore un compagno. Il gioco funziona solo se riguarda azioni particolarmente ridicole e quotidiane tipo «Yonatan non vedrà mai più Shon incastrato con la mignotta più cessa di Nahariya, dopo che ha preso tutti per il culo, quel mongoloide. Non saprà mai più che merda ti senti quando non ti tira più...», e via dicendo. Un tempo la chiamavano «amicizia virile». Un tipo di relazione che oggi non ha più alcun interesse sociologico. Qualcosa che sa di artificioso e di autosuscitato, ma che sprigiona una carica giovanile del tutto autentica. E che, come certi funghi, può nascere solo in determinati contesti climatici. Qualcosa che trovi in certi memorabili racconti di Tolstoj , nelle pagine proustiane degli amici di Saint- Loup o in certe atmosfere hemingweiane. Quel tipo di legame che nella vita civile non esiste, che un posto come Beaufort crea quasi naturalmente. Ecco perché Erez commenta così la notizia del ritiro: «Com'era possibile che un posto che era un mondo intero, completo di tutto, una vera città, un impero, nostro, tutta la nostra vita, svanisse all'improvviso?». Il tono lirico con cui trasfigura l'orrendo fortino dove era vietato pisciare e dove erano stati massacrati i suoi amici migliori può suonare incongruo. A meno che non lo si valuti dal più improbabile dei punti di vista: quello del combattente. Ecco chi è il combattente oggi. Quello che è sempre stato. Perché dimenticarsene? GENERAZIONI Lo scrittore israeliano Ron Leshem, 31 anni; a sinistra soldati israeliani lasciano il Libano (Reuters)
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