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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Poeti israeliani 27/12/2007

Poeti israeliani a cura di Ariel Rathaus

 

Einaudi                                            Euro 18,50

 

Si direbbe che, in una società abituata a vivere coi nervi a fior di pelle, la poesia sia un business maledettamente serio. Se si leggono di fila i testi riuniti nell’antologia di poeti israeliani, appena uscita per Einaudi, si ha l’impressione di trovarsi in uno spazio condiviso, come se ciascuno portasse dentro di sé, con modi propri, e personali idiosincrasie espressive, le tessere del mosaico collettivo di un altro Israele. Un paese ritagliato nelle parole, con città più diafane di quelle reali, e strade di selciato metafisico. La lirica penetra la realtà quotidiana dello Stato ebraico per prospettive eccentriche, scegliendo visuali linguistiche ed emotive estreme. Ariel Rathaus è egli stesso poeta, e da poeta traduce questi versi di verbi taglienti, e i giri di frase di una lingua naturalmente incline a vertiginose fate morgane. Grazie a una vera riscrittura di sinonimi e a raffinate aggettivazioni, la natura desertica dell’ebraico riesce così ad approdare sulle rive fertili dell’italiano, con rigenerata energia semantica.

 

Non c’è poeta in ebraico che non riecheggi, per ventura o per scelta una qualche cadenza biblica, come non c’è verso italiano che non abbia in sé un riverbero petrarchesco. Ma ecco che Rathaus riesce a piegare il lessico della nostra lingua a immagini tanto più scabre dell’orizzonte poetico che ci è abituale. Per fortuna, perché, come merci che giungano da un’altra sponda del Mediterraneo, i vocaboli trafugati da Israele servono a rinvigorire anche alcune sciupate metafore europee.

 

Del resto, questa lirica contemporanea usa una lingua vecchia di tremila anni, che ha in sé una consapevolezza quasi stratigrafica delle proprie traversie. “Lapidi si spezzano, parole fuggono – scrive Yehuda Amichai - …cadono parole nell’oblio,/ labbra che le dissero si son fatte polvere/lingue muoiono come figli d’uomo”.

 

Questi laici, laicissimi poeti, che sono forse gli ultimi depositari dell’ethos a-religioso d’Israele, restano però consapevoli del potere redentivo della parola, giacchè, al di là della morte e della rinascita della lingua, c’è pur sempre lo stupore per la virtù taumaturgica del dire: “Dèi cambiano in cielo, si avvicendano gli dèi, le preghiere restano sempre”.

 

Certo che parlare di un pantheon politeista nel cielo della Terra Santa è una provocazione bella e buona. Ma è appunto di provocazioni che questi rapsodi senza cetra hanno bisogno come dell’aria. In un Paese dove basta rivoltare una pietra per trovare l’impronta di un angelo e di un profeta, le poesie evocano teofanie vuote o una divinità che è partita senza lasciare recapito: “Io non ho un Dio – afferma Ori Bernstein – come l’aveva/Abramo, il Dio chè lo faceva/rinascere a ogni passo simile a una scossa/elettrica, un Dio che a ogni mossa/gli versava la sua acqua da bere”.

 

Non troviamo più alcuna topografia del trascendente. La geografia che affiora qui ci parla di un paesaggio amato soprattutto per le sue ferite e contraddizioni. Una terra a volte brulla ma più spesso, inaspettatamente, gonfia di acque: liquido pegno dei sogni o massa minacciosa degli incubi. Un poeta vorrebbe spruzzarsi sull’amata “come un’esile fontana”, mentre un altro profetizza un diluvio escatologico: “Acque  vi copriranno…vi getteranno un giorno, gorgogliando, su spiagge fumanti”.

 

Poetare è un mestiere ruvido, e a volte violento. Il tempo edenico è disintegrato, e le ore che ci toccano in sorte hanno il sapore adulterato del troppo-tardi: “Cadrà giù la mela del sogno,/sarà dolce il putridume al palato” scrive Israel Pinkas.

 

D’altronde, nessuno come i poeti è consapevole della provvisorietà del senso. Ai margini per definizione, di sghembo rispetto alle faccende serie della vita, la scrittura sa di essere in pericolo. “Ruberanno le parole anche a questa poesia, camion interi ne venderanno”, prevede Aharon Shabtai, tutto preso in una polemica radicale contro lo stravolgimento dei vecchi valori di solidarietà su cui si basava il progetto sionista: “Un lungo tavolo di banca sarà il nostro paese, e in fondo la poltrona direttoriale”.

 

E l’amore, allora? Non manca davvero. L’antologia è prodiga di liriche abbacinate di sensualità, simili a foto sovraesposte. Amore come doppio, ma non futile, della politica, il suo lato solare, contrappasso all’eccessiva consuetudine che ogni israeliano ha col pericolo e con la precarietà del proprio futuro. Le molte poetesse hanno qui altrettanto, e forse di più, da dire, rassegnate come la Cenerentola irredenta di Dalia Rabikovitch, “riarsa dalla febbre/in ogni istante pronta a smettere di esistere”. O aggressive come Rachel Chalfi, che canta di sé stessa come “di donna presa in ostaggio” da un amante “terrorista di correnti d’eros”.

 

Sebbene non sia certo angelicata, traboccante com’è di immagini carnali, la lirica israeliana cerca pur sempre la traccia che il desiderio incide nell’anima. E’ certo questo che Maya Bejerano vuol confidarci, quando scrive: “il mio angelo privato, il volàngelo del mio spirito,/punta il dito verso l’altro”.

 

Non serve un paese grande per avere una grande poesia. Basta trovare un luogo “dove gli uomini si chinano ancora sull’abisso/anelante nei suoi piatti azzurri colori”.

 

Giulio Busi

Il Sole 24 Ore

 


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