Colonie, insediamenti, ma è mai possibile che una corrispondente intelligente come Francesca Paci non si renda conto che raccontare come lei ha fatto nell'articolo che segue la realtà dei territori, non aiuta il lettore a capire quello che accade ? Come fa a fare tutt'uno tra insediamenti illegali, che come anche lei riferisce vengono regolarmente smantellati dall'esercito isrealiano, e le costruzioni del quartiere Hat Homà di Gerusalemme, che sarà pure ad Est, ma sempre di Gerusalemme si tratta, città unificata 40 anni fa e capitale dello Stato ? Ed è mai possibile che dal calderone mediorientale estragga solo le preoccupazioni di Abu Mazen e non scriva mai sulla continua,incessante propaganda terroristica che viene non solo da Hamas ma anche dai di Al Fatah ? Ha mai provato Francesca Paci a raccontarci quale sarebbe il pericolo che Israele dovrebbe affrontare se a pochi kilometri dai suoi confini si venisse a creare uno Stato palestinese a misura di Gaza ? Non basta dire che Abu mazen è debole, occorre anche raccontare ai lettori cosa potrebbe succedere se il potere passasse di mano a quelle forze palestinesi che non hanno mai preso sul serio gli impegni della Road Map, primo fra tutti la fine di ogni atto terroristico. Troppo facile fare colore sul bambino colono ed i suoi sei fratelli. La pace ha ben altri nemici. L'articolo è uscito oggi, 17/12/2007, sulla STAMPA a pag.13, con il titolo " Occupare colonie meglio che giocare con la Playstation", che rivela, ce ne fosse ancora bisogno, come lavora il desk esteri del quotidiano torinese.
Plaid, torce elettriche, una fila di mozziconi di candela. Un paio di fiammelle danzano nel chiarore intenso del mattino che filtra dalle finestre senza vetri. Duecento coloni, tra cui un pensionato ottantenne, sono stati sgomberati all'alba: hanno lasciato pane in cassetta, hummus, mucchi di patatine Bamba, lo snack nazionale. «Non si arrenderanno facilmente» dice Shaul, uno dei dieci giovani soldati che presidiano l'ex insediamento di Givat Or, la collina della luce, come i neoabitanti hanno ribattezzato queste stalle su un'altura a un paio di chilometri da Ramallah, Cisgiordania. Mura e terra, sebbene abbandonate, appartengono a una famiglia palestinese, occuparle è una violazione della legge israeliana e, oggi, una sfida al processo di pace rilanciato ad Annapolis. Eppure, nell'ultimo mese, l'associazione «Land of Israel Faithful» ha creato sette nuovi avamposti al di là dei confini del '67: la polizia militare li evacua e dopo qualche ora rieccoli. Givat Or è uno di questi.
Alle 15 tornano i ragazzini: un centinaio, armati di bandiere con la stella di David. Attendono la campanella per precipitarsi fuori da scuola. Li guida Shvati, kippà in testa, 10 anni, sei fratelli a Beit Shemesh dove mamma e papà insegnano storia. «Ero coi grandi stanotte, mi hanno mandato via prima che arrivassero i soldati», racconta. Adora il calcio, si diletta con la playstation, ma nulla vale la politica: «Olmert vuole svendere la nostra terra. Abbiamo dato Gaza ai palestinesi e hanno fatto l'inferno». Amici e amiche, lunghe gonne fiorate e fazzoletti da contadine, si arrampicano sulla collina. Per riprendere la postazione i baby-coloni vogliono cogliere i militari alle spalle. In un attimo Givat Or pare in mano ai ragazzi della via Pal.
La questione degli insediamenti non è un gioco. Per oltre trent'anni i leader israeliani hanno sostenuto, più o meno direttamente, l'occupazione delle aree palestinesi. Terra cara: secondo il quotidiano Hareetz dal '67 a oggi le attuali 121 colonie (260 mila persone esclusa Gerusalemme Est) sono costate allo Stato più di 45 miliardi di schekel, otto miliardi di euro. Nel '96, sulla scia del processo di Oslo, il governo bloccò l'edificazione ma, nonostante il disimpegno da Gaza nel 2005, la «spinta colonizzatrice» non si è fermata. «Alcuni sfoderano permessi di vent'anni fa perché durante la seconda Intifada non si poteva mettere su casa», nota Hagit Ofran del gruppo pacifista israeliano Peace Now. Ci sono un centinaio di avamposti come Givat Or che raccordano colonie già esistenti tipo Beit El e Benjamin, ma anche le 307 nuove case che il governo Olmert vorrebbe costruire nel quartiere Har Homa, a Gerusalemme Est, e il segretario di Stato americano Condoleezza Rice ha criticato definendole «un intoppo nel percorso di pace». Shvati non se ne cura: mentre i soldati tentavano di allontanare i ragazzini si è infilato nella stalla dove lo zio Uri aveva lasciato lo zaino con il necessario per resistere, il libro delle orazioni, il talit, il manto da preghiera, un litro d'acqua. L'amico Nadav, 17 anni e 6 «occupazioni» in curriculum, spiega che il segreto è non mollare: «Alla fine i militari si stancano». Almeno lo spera: una volta funzionava così. Giocando a gatto e topo con l'esercito i settler tessono una ragnatela tra Israele e il futuro Stato palestinese. «Kadima non può più limitarsi a riconoscere l'errore antico - afferma Yossi Beilin, leader di Meretz, la sinistra israeliana - chi tiene alla pace deve agire contro gli insediamenti». La politica però prevede tempi lunghi: Shvati e i suoi amici non hanno fretta.
La palla scotta nelle mani del premier che oggi incontra il presidente palestinese Abu Mazen. Ieri, durante un meeting con i capi di Meretz, Olmert ha discusso la questione raffinando l'ipotesi d'una compensazione economica per i coloni disposti a rientrare in Israele. Il vicepremier Haim Ramon, proposta alla mano, fa la spola da un insediamento all'altro, ma secondo un sondaggio del quotidiano Yediot Ahronot appena il 22 per cento accetterebbe un rimborso pari al doppio del valore della casa da abbandonare. Olmert è spalle al muro: davanti ha Abu Mazen, lo specchio della sua fragilità, a sinistra i laburisti, a destra gli irriducibili di Masdal, il partito nazional religioso. «L'opposizione di Olmert ai nuovi insediamenti in Giudea e Samaria è immorale, va contro le radici del popolo ebraico», accusa il deputato ultraortodosso Arie Eldad. La luna brilla su Givat Or: i militari se ne vanno e sbirciano la radura che cela bisbigli cospiratori, sogni antichi e thermos del caffè.
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