N on è la prima volta che dopo aver riferito di un caso specifico, adducendo fatti concreti, circostanziati e contestualizzati, così come è stato nel mio commento alla sentenza della Corte d'Assise su Abu Imad, l'imam della moschea di viale Jenner a Milano ( Corriere, 23 dicembre), mi ritrovi con la reazione di chi mi accusa di aver voluto condannare, non il singolo Abu Imad sulla base della responsabilità soggettiva che è il cardine dello Stato di diritto, non la categoria ideologica e militante a cui appartiene ovvero gli estremisti e i terroristi islamici, bensì un universo di persone e cioè l'insieme dei musulmani. Ciò è quanto mi rimprovera il procuratore aggiunto Armando Spataro che a Milano coordina il Dipartimento Antiterrorismo ( Corriere, 24 dicembre). La sua critica radicale troverebbe riscontro nella mia conclusione: «La verità è che le istituzioni in Italia, dal governo al Parlamento, dalle forze dell'ordine alla magistratura, hanno paura di affrontare e di scontrarsi con gli estremisti islamici che si sono saldamente arroccati nelle moschee». Questa mia esplicita denuncia viene da lui interpretata come una incivile discriminazione nei confronti di tutti i musulmani e un appello alla chiusura di tutte le moschee. Ebbene, proprio la replica di Spataro, che mescola e sovrappone la valutazione prettamente giuridica — che legittimamente gli compete — con esplicite posizioni ideologiche e politiche — che non dovrebbero appartenere a un magistrato nell'esercizio delle sue funzioni — conferma la fondatezza della mia denuncia. Consapevolmente o meno, Spataro assume come verità dei luoghi comuni e dei pregiudizi. In primo luogo l'immaginare che l'imam, che è un semplice funzionario ma non un'autorità religiosa, sarebbe il rappresentante di una «comunità islamica» che fa perno sulla moschea e che, di conseguenza, condannare un singolo imam corrisponderebbe a criminalizzare tutti i musulmani. La verità è che l'insieme dei musulmani non forma una «comunità» e che in Italia il 95% dei musulmani non si riconosce nelle moschee controllate in maggioranza da estremisti e terroristi. In secondo luogo, Spataro immagina una concezione reattiva, non aggressiva, del terrorismo islamico globalizzato. E immagina che esso possa essere sconfitto «con gli strumenti della legge», così come sarebbe avvenuto con il terrorismo brigatista in Italia. Ebbene se, da un lato, è del tutto improprio il paragone tra il terrorismo di Renato Curcio e quello di Osama Bin Laden, dall'altro, Spataro dimentica che comunque le Brigate Rosse furono sconfitte solo grazie alle leggi speciali, ai corpi speciali e alle carceri speciali. In terzo luogo Spataro immagina che i terroristi islamici sarebbero soltanto delle «mele marce», mentre sono parte integrante di una filiera in cui i cosiddetti «fondamentalisti non violenti», da lui difesi, sono la scintilla che innesca il letale processo dell'ideologia di odio, violenza e morte. La storia recente attesta che il terrorismo islamico è divampato solo dove i Fratelli Musulmani, i wahhabiti o i salafiti sono riusciti a imporre il loro potere. Perché la vera arma del terrorismo non sono le bombe o gli esplosivi, bensì l'indottrinamento ideologico e il lavaggio di cervello che trasformano le persone in robot della morte. Ed è appunto questo il caso di Abu Imad. Ciò che sembra non emergere dalla sentenza è la sua responsabilità nella morte di terroristi da lui formati nella moschea di viale Jenner, di cui si fanno i nomi, e nell'uccisione delle loro vittime. In Italia Abu Imad non è l'unico burattinaio del terrorismo in libertà. Il fatto è che chi ha incarichi di responsabilità non vuole vedere, non vuole capire e soprattutto non vuole agire. Non sorprende pertanto che il nostro Paese finisca per essere percepito come la Mecca degli estremisti e dei terroristi islamici, un porto franco dove si depongono le armi e non si commettono attentati, ma solo perché conviene per vincere la loro «guerra santa» che l'Italia esorcizza auto-convincendosi che non esista.
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