I cristiani fuggono dal territori palestinesi, ma la causa non è spiegata correttamente sui nostri media. Lo fa Fiamma Nirenstein sul GIORNALE di oggi, 22/12/2007, a pag.1-14, in un articolo dal titolo "A Betlemme non è più Natale". Eccolo:
Sono pallidi gli addobbi di Natale sulla via che da Gerusalemme a Betlemme ospita ogni anno la processione di Monsignor Sabbah, l’asperrimo patriarca latino, fino alla piazza della Mangiatoia, dove un albero di Natale orna il luogo di nascita di Gesù. Quest’anno Sabbah, che non fa mai mancare il suo messaggio di Natale a Israele, dixit: Israele deve abbandonare il suo carattere di Stato ebraico, ovvero, in parole povere, scomparire. È la priorità di Sabbah, sembra. Non lo sono, invece, le persecuzioni musulmane che hanno portato la comunità cristiana a ridursi in tutto il West Bank all’1,5 per cento dal 15 per cento di 50 anni fa; né lo è la difesa dei cristiani di Gaza, rimasti circa 3.000, su una popolazione governata da Hamas di circa un milione e mezzo, rapiti e uccisi o indotti alla fuga. Nel West bank il calo ha galoppato sin dalla dominazione giordana ovvero dal ’48. Questa è la situazione che troviamo alla vigilia di Natale: una crisi cristiana mai affrontata.
A Betlemme i turisti aumentano rispetto all’anno scorso grazie al baluginare della conferenza di Annapolis. Si spera di arrivare a 60mila, Abu Mazen è rassicurante e Israele lo aiuta. Da Betlemme città di molti Tanzim e di Hamas (ancora oggi 7 nel consiglio comunale, contro 8 di Fatah) partirono tanti terroristi suicidi. La Chiesa della Natività fu occupata con la forza da tanzim e hamas. L’estremismo dominava. Oggi la città è divisa da Gerusalemme da una porzione breve e brutta di muro. Il sindaco dottor Victor Batarsa ci dice che l’occupazione (che dentro Betlemme e dintorni semplicemente non c’è dal ’95) e il muro sono la causa della fuga dei cristiani. Cristiano (il sindaco deve esserlo per legge), nega per proteggere i suoi quello che anche il primo negoziante conferma: i cristiani fuggono perché perseguitati dall’islamismo. Batarsa spera che questo Natale segni un grande ritorno, dopo che per sette anni gli alberghi sono rimasti chiusi. I cuochi, i venditori di intarsi, sperano in una vita migliore, gli israeliani consentono ispezioni veloci e shuttle per la Piazza della Mangiatoia. Ma la città di Gesù affronta un paradosso. I cristiani erano il 90%, ora sono il 20 per cento su circa 30mila abitanti. Fra quindici anni non ce ne saranno più. Incendi ai negozi, espropriazioni, vandalismi contro chiese e luoghi di riunione, attacchi sessuali e rapimenti, spingono i cristiani oltre oceano. Incontriamo il giornalista 58enne Samir Qumsieh in un ufficio ornato di immagini di santi e papi. È la sua Nativity TV, al lavoro dal ’96 per glorificare la dottrina cristiana. Ma ha dovuto chiudere per «difficoltà». Affannato, pallido, serve un milione di telespettatori nel West Bank e oltre, fino in Giordania, Libano, Kuwait. Ha riaperto a dicembre quando la Chiesa, dice, si è decisa a aiutarla, ma adesso ci vorrebbe chi offrisse 10mila dollari al mese, spiega con voce tremante. Non accusa nessuno, gli scappa il ricordo di una granata lanciatagli tuttavia, afferma, querelerà chi scrive che lui accusa i musulmani. Se i cristiani soffrono è colpa di delinquenti comuni: «Non fatemi parlare».Esistono dossier che raccolgono storie di centinaia di violenze: un monaco picchiato per aver cercato di prevenire il sequestro delle terre di una famiglia di Beit Sahur, le torture continue. Fuad e Georgette Lama, per esempio una mattina dello scorso settembre hanno scoperto che alcuni musulmani si erano appropriati della loro terra a Karkafa, a sud di Betlemme. La coppia si è rivolta all’Autorità Palestinese e ha pagato 1000 dollari: «Ma gli agenti si sono tenuti la terra e l’hanno divisa in piccoli appezzamenti». Georgette Lama ha scritto una lettera a Abu Mazen: il presidente se l’è presa molto a cuore, dice. I Lama denunciano altri furti di terra a famiglie cristiane, Salameh, Kawwas e Asfour. I negozianti della piazza, se nessuno li vede, parlano di incendi, furti, botte. A Gaza siamo ormai al delitto. Pauline Ayad, 30 anni, gli occhi segnati, due bambini in braccio, la pancia di sette mesi, è ospite di parenti di Betlemme. Suo marito Rami Khader è stato assassinato: lavorava all’Holy Book Institute. Il 4 ottobre si è accorto di essere seguito, alle 6 al telefonino ha detto: «Vado lontano, non so se tornerò. Dopo due giorni hanno trovato il suo corpo». Due mesi prima un clerico gli aveva chiesto di farsi musulmano. Rami gli aveva risposto: «Semmai potrei farti battezzare». Pauline per partorire, vuole tornare dalla mamma a Gaza. Anche se l’8 di dicembre quattro salafiti in abito tradizionale hanno cercato di rapire il cugino di Rami, Nabil Fuad Ayad.
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