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Avvenire Rassegna Stampa
20.12.2007 Ma le critiche al cardinal Martini non sono accuse a tutti i cristiani
come pensa Giorgio Bernardelli

Testata: Avvenire
Data: 20 dicembre 2007
Pagina: 37
Autore: Giorgio Israel - Giorgio Bernardelli
Titolo: «Il valore delle tradizioni autentiche»

Abbiamo già  ripreso da AVVENIRE del  19 dicembre 200 7la critica di Giorgio Bernardelli a un articolo di Giorgio Israel apparso su Shalom, riguardante  alcune affermazioni del cardinal Martini.

http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=1&sez=120&id=22906

AVVENIRE del 20 dicembre pubblica una replica di Giorgio Israel e una controreplica di Bernardelli, che attribuisce ad Israel l'accusa ai "cristiani" nel loro complesso di essere tornati "a pagine dolorose del passato ".

Ma nell'articolo pubblicato da SHALOM (lo si può leggere qui), come pure nella lettera pubblicata da AVVENIRE , non vie è traccia  di una simile accusa indifferenziata.
Vi è invece una critica ad alcune affermazioni del cardinal Martini, voce autorevole del mondo cristiano, certamente, ma non, a quanto se ne sa, portavoce di tutti i cristiani.

Ecco il testo:



 R ingrazio Giorgio Bernardelli per le parole di stima nei miei confronti dettate, immagino, anche dall’importanza che attribuisco al dialogo ebraico-cristiano. Conosco bene il ruolo fondamentale che ha avuto il cardinale Martini in tale dialogo. È lui che, nell’ambito del colloquio internazionale dell’International Council of Christian and Jews tenutosi a Bologna nel 1984, parlò della «fede di Abramo nel Dio che ha scelto Israele con irrevocabile amore». Non è quindi con la foga che mi attribuisce Bernardelli che ho riflettuto sull’articolo­anticipazione del libro del cardinale Martini che 'La Repubblica' ha pubblicato a sua firma, trovandone alcuni passaggi dolorosamente e inspiegabilmente spiacevoli. Temo che sia stato piuttosto Bernardelli a lasciarsi prendere dalla foga polemica attribuendomi l’intenzione di far dire a Martini quel che non ha detto e omettendo, proprio i passaggi cruciali che mi hanno negativamente colpito. Non si tratta neppure del parlare di «crollo» o «decadenza« di un’«istituzione religiosa» – il Sinedrio – che sarebbe affermazione comprensibile se pure alquanto dura. Quanto del trasferire una considerazione relativa a una circostanza storicamente determinata alla tradizione ebraica in quanto tale, con l’ammonimento: «Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche»: tradizione e non più soltanto un’istituzione. Ma condividerei anche una simile affermazione generale, se non fosse che, nella fattispecie, quella ebraica viene esibita come emblema di una tradizione degradata e quella cristiana come autentica. Posso anche capire che il cardinale Martini sia poco interessato al dialogo teologico e piuttosto a un dialogo che ci «fermenti» e «vivifichi a vicenda» con parole di fede «vere» e «autentiche», purché – ripeto – alla fin dei conti non accada che una soltanto delle due sia considerata autentica: «Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza».
  Preferisco un dialogo franco ed esente da sincretismi, che non minimizzi o passi sotto silenzio le differenze – attraverso un riconoscimento di pari dignità – che non un dialogo che parte dall’intenzione di un reciproco vivificarsi al di là dei monoliti delle tradizioni e poi si piega tutto da una parte sola: «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso», parole che sono «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Aggiungo che non mi
scandalizza affatto l’intento di convertire gli altri alla propria fede, purché non lo si faccia affermando il disvalore del percorso religioso altrui.
  Non contesto le eccellenti e immutate intenzioni del cardinale Martini, ma un dialogo in cui una delle parti è definita «assolutamente autentica e affidabile» e l’altra è legata a una tradizione «degradata», non più autentica, inaffidabile e «decaduta», non è paritario ed evoca – contro ogni intenzione, non ne dubito – l’antica teologia della sostituzione. Bernardelli si sorprenderà forse se dico che sarei pronto a illustrare certi aspetti che ritengo degradati della tradizione ebraica. Ma se si pretende di definirli come conseguenza del mancato riconoscimento della divinità di Gesù, nascono implicazioni teologiche pesanti che portano proprio all’idea della revoca del dono di Dio. Un dialogo serio e proficuo consiste nel riflettere attentamente sulle reazioni che le nostre affermazioni provocano negli altri, e non nel liquidarle come espressione di una volontà (inevitabilmente poco onesta) di «forzare le cose facendo dire ad altri quello che non dicono», invece di chiedersi se non sia stato detto qualcosa di cui non si sono valutate appieno le implicazioni.
Giorgio Israel


 
M i rallegra sentire dal professor Israel che non contesta le «eccellenti e immutate intenzioni del cardinale Martini». Non ci sarà stata foga, ma a me il tono dell’articolo pubblicato su Shalom – che attribuiva a Martini la scelta consapevole di un ritorno «in termini molto brutali» alla teologia della sostituzione – sembrava un po’ diverso.
  Resto comunque dell’idea che Israel sbagli nella sua lettura del brano in questione. Che si arrocchi su un’analisi letterale di alcune singole espressioni, isolandole da una lunga storia fatta anche di altre parole. E traendone un’interpretazione quantomeno azzardata. Parlando di «tradizioni religiosi non più autentiche», il plurale è emblematico: il processo di Gesù davanti al Sinedrio diventa un’icona del rapporto tra un credente di qualsiasi tradizione e la sua religione. Che poi un cristiano – in un corso di esercizi spirituali predicato ad altri cristiani – indichi il Discorso della montagna come un cardine del dialogo con i fedeli di altre religioni, non mi sembra un fatto così nuovo e nemmeno così irrispettoso nei confronti dell’ebraismo. In sintesi: mi pare che le ferite sorte in passato sul processo di Gesù davanti al Sinedrio, in questo caso abbiano annebbiato un po’ lo sguardo all’amico Israel (che non per questo stimiamo di meno).
  Concordo con lui sulla necessità di «riflettere attentamente sulle reazioni che le nostre affermazioni provocano negli altri». Ma vale anche quando si scrive un articolo accusando un po’ troppo disinvoltamente i cristiani di un ritorno a pagine dolorose del passato.

Giorgio Bernardelli

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