I fronti della guerra al terrorismo islamista dall'Iraq ai tribunali canadesi
Testata: Il Foglio Data: 20 dicembre 2007 Pagina: 2 Autore: Christian Rocca - Rolla Scolari - Giulio Meotti Titolo: «All’Onu Prodi approva la strategia militare in Iraq di Bush e Cheney - Buone e cattive notizie dal fronte della guerra al terrorismo islamista»
Dalla prima pagina del FOGLIO del20 dicembre 2007 un articolo di Christian Rocca sul voto del Consiglio di sicurezza, presieduto dall'Italia, sull'Iraq:
New York. Gli applausi per il voto sulla moratoria non vincolante della pena di morte hanno coperto la decisione invece vincolantissima presa martedì pomeriggio, esattamente nello stesso giorno, dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite presieduto dall’Italia. Poche ore dopo il voto dell’Assemblea generale sulla pena capitale, i quindici membri del Consiglio di sicurezza hanno approvato all’unanimità la risoluzione 1790 sull’Iraq, rinnovando il mandato militare alle truppe multinazionali guidate dal generale David H. Petraeus. Ufficialmente, ora, l’Italia è favorevole alla presenza dell’esercito americano nell’ex regno di Saddam, malgrado la maggioranza di centrosinistra sia stata eletta su una piattaforma politica completamente diversa, al punto che immediatamente dopo l’insediamento a Palazzo Chigi il governo Prodi ha deciso il ritiro delle truppe italiane da Nassiryah. Martedì, invece, l’Italia ha votato a favore della politica irachena di George W. Bush e Dick Cheney, centrata sull’invio in Iraq di ulteriori 30 mila soldati americani, a completamento della missione Iraqi Freedom ideata da Donald Rumsfeld. E’ la prima volta che il nostro governo esprime un voto in un organismo internazionale sull’occupazione militare irachena. Quando gli Stati Uniti e i loro alleati decisero infatti di invadere l’Iraq, anche per far rispettare le risoluzioni Onu rigettate dal regime di Saddam Hussein, l’Italia non era membro del Consiglio di sicurezza, dove invece è stata eletta soltanto all’inizio di quest’anno. La risoluzione 1790 è stata adottata in base all’articolo 7 della Carta Onu, quello che autorizza l’uso della forza per ragioni di sicurezza e di minaccia alla pace. Il rinnovo del mandato militare agli americani non è volto a rilanciare la missione politica, civile e umanitaria delle Nazioni Unite in Iraq, né a favorire un maggiore coinvolgimento della comunità internazionale nella ricostruzione o nel processo di riconciliazione nazionale. Su questo l’Italia ha già espresso il voto favorevole cinque mesi fa, quando il Consiglio ha rinnovato il mandato della missione Unami. Il dispositivo della risoluzione 1790 Onu recita così: “Il Consiglio di sicurezza riafferma l’autorizzazione alla forza multinazionale così come prevista nella risoluzione 1546 del 2004 e decide di estendere il mandato previsto in quella risoluzione fino al 31 dicembre del 2008”. Il governo di centrosinistra, quindi, non soltanto ha autorizzato l’esercito americano a rimanere in Iraq un altro anno, ma ha riconosciuto ciò che politicamente non hai mai voluto ammettere, ovvero che l’imprimatur dell’Onu all’occupazione militare multinazionale c’è fin dal 2004, anzi, come si legge più correttamente in un altro passaggio della risoluzione approvata ieri, fin dal 2003 con le risoluzioni 1483 e 1511. Il testo approvato dal Consiglio di sicurezza ribadisce che, come in passato, “la presenza della forza multinazionale in Iraq è stata richiesta dal governo iracheno” e prende in considerazione la lettera del primo ministro di Baghdad del 7 dicembre 2007, inviata proprio all’Italia, nella quale il governo iracheno si auspica che questa sia l’ultima autorizzazione concessa dall’Onu, nella speranza che nel 2009 il paese possa finalmente fare da sé. Esattamente come in tutte le precedenti occasioni, la risoluzione 1790 stabilisce che il mandato potrà essere rivisto, o concludersi prima del previsto, su richiesta del governo iracheno. La risoluzione è stata scritta dagli americani e dagli iracheni, dopo un’intensa contrattazione tra i diplomatici dei due paesi. Le modifiche alla bozza presentata al nostro ambasciatore Marcello Spadafora sono state minime, di linguaggio più che di sostanza. I francesi hanno proposto di limare un eccessivo ottimismo e i russi hanno chiesto maggiore attenzione al ruolo del Fondo di Sviluppo per l’Iraq e dell’International Advisory and Monitoring Board che aiuta il governo di Baghdad a usare in modo trasparente le risorse energetiche irachene. Il nostro governo non ha chiesto nessuna modifica e la votazione, presieduta al Consiglio dal vice capo della Missione italiana Aldo Mantovani, è stata particolarmente spedita, preceduta soltanto da un briefing tecnico e dall’intervento dei rappresentanti americani, britannici e iracheni. Con la risoluzione approvata martedì, il Consiglio di sicurezza riconosce “l’impegno del governo di unità nazionale, democratico e costituzionale dell’Iraq nel perseguire il programma di riconciliazione nazionale e il suo dettagliato piano politico, economico e di sicurezza”. E auspica che prima o poi “le forze irachene assumano la piena responsabilità del mantenimento della sicurezza e della stabilità nel loro paese, consentendo così il completamento del mandato della forza multinazionale e la fine della sua presenza in Iraq”. I progressi dunque ci sono e sono evidenti, secondo il Consiglio di sicurezza (e secondo il nostro governo), “nell’addestramento, nell’equipaggiamento e nel numero delle forze di sicurezza irachene, compreso l’esercito e le forze di sicurezza interna”. La risoluzione Onu sottolinea l’importanza del trasferimento di poteri e dell’assunzione completa del comando e del controllo iracheno nelle province di Najaf, Maysan, Muthana, Dhi Qar, Dahuk, Irbil, Sulaymaniyah, Karbala. Rispetto alla bozza iniziale, gli inglesi hanno fatto inserire anche il recente trasferimento del comando a Bassora, portando così il controllo esclusivo iracheno a nove province su diciotto. La risoluzione Onu condanna la violenza settaria e terroristica, riafferma l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Iraq e loda “la volontà della forza multinazionale di continuare a impegnarsi a contribuire al mantenimento della discurezza e della stabilità irachena”. E, infine, chiede alla comunità internazionale di sostenere il popolo iracheno e la sua speranza di pace e democrazia. L’Italia ha risposto presente.
Uno di Rolla Scolari sulla costituzione dell'esercito iracheno:
Baghdad, da uno dei nostri inviati. Il vero “surge” è quello dell’esercito iracheno. E’ un “surge” permanente. I mass media si sono focalizzati sull’aumento delle truppe americane in Iraq: cinque brigate, in tutto 30 mila uomini, per un totale sul terreno di 165 mila soldati. A novembre, però, il premier di Baghdad, Nouri al Maliki, ha annunciato un piano per aumentare i numeri dell’esercito nazionale di tre divisioni, cinque brigate, 21 battaglioni, uno di forze operative speciali. La ricostruzione dell’esercito iracheno è il prerequisito per il ritiro americano dall’Iraq. Le forze della Coalizione hanno appena pubblicato un rapporto sugli effetti del loro “surge”: bombe e autobombe sono scese da 130 a 30 al mese; i morti nel dicembre 2006 erano tremila al mese, oggi sono 600; gli arsenali scoperti salgono a 6.187 rispetto ai 2.659 dell’anno scorso. Gli Stati Uniti sperano di ridurre i numeri dei soldati a luglio 2008, ritornando così alle cifre prima del “surge”. La strategia americana d’aumento delle truppe ha come obiettivo il miglioramento della sicurezza ma vuole anche dare il tempo all’esercito iracheno di espandersi. Entro l’estate, le forze irachene saranno ulteriormente rafforzate. Il Multi National Security Transition Command si occupa d’addestramento, sostegno logistico e organizzativo all’esercito di Baghdad. La sua missione è centrale nell’exit strategy di Washington: insegnare agli iracheni come combattere una controguerriglia, per poter ridurre di conseguenza le truppe americane sul terreno. L’esercito iracheno è stato formato dagli inglesi durante il mandato britannico sull’Iraq, dopo la Prima guerra mondiale, e smantellato dall’ex governatore americano a Baghdad, Paul Bremer, nel maggio del 2003, dopo l’invasione. Molti suoi membri, che si opponevano alla presenza degli Stati Uniti sul suolo iracheno, hanno raggiunto le fila della “resistenza” e si sono avvicinati ad al Qaida. Nelle nuove forze armate non possono arruolarsi ex alti membri del partito Baath, ufficiali dell’ex esercito con rango più alto di tenente colonnello, ex uomini delle forze speciali e d’intelligence. Ogni battaglione americano ha oggi dieci, quindici uomini costantemente embedded con unità irachene: seguono la loro formazione. Il capitano Dowson è uno di loro. Dice che insegnare ai soldati iracheni a sparare o condurre un vero e proprio addestramento sarebbe umiliante per loro. Esistono ancora, dice, gli ufficiali dell’esercito di Saddam, con una tradizione bellica alle spalle, che si occupano dell’istruzione militare delle reclute. “Noi diamo consigli su come portare a termine l’addestramento, legittimando la loro leadership”. Molti soldati americani vivono assieme all’esercito iracheno negli avamposti nati negli ultimi mesi in alcuni quartieri di Baghdad, creati per far uscire le truppe dalle grandi basi, dividendo compiti e rancio con i commilitoni locali. Sul campo, ci sono addestramenti alla lotta libera piuttosto che lezioni di strategia, anche se qualche ufficiale americano è perplesso: “Preferisco non svelare loro tutti i nostri trucchi, fra vent’anni in Iraq a combattere contro l’esercito che stiamo addestrando ci potrebbe essere mio figlio”. Dowson ricorda uno scambio di battute con una recluta irachena: “La settimana scorsa forse ci stavi sparando contro”, dice. “Sì, ma era la settimana scorsa”. Nel 2005, il Washington Post inviò due reporter in un’unità congiunta irachenoamericana. Erano andati lì perché avevano parecchi dubbi sulla formazione dell’esercito iracheno: la definivano “un’impresa difficile”. Gli iracheni erano male equipaggiati, male armati; non avevano (e non hanno tuttora) basi gigantesche con mense dove mangiare burrito e torte di mele, ma tende bucate e senza docce; spesso non ricevevano lo stipendio e abbandonavano la divisa per andare a sistemare esplosivi per al Qaida, più puntuale con i pagamenti; si rifiutavano di perquisire le moschee e di arrestare gli imam. D’altronde, quegli stessi imam emanavano fatwe per prevenire l’arruolamento nella polizia e nell’esercito e chiunque entrasse nei ranghi delle forze armate era considerato un collaborazionista. Soltanto nell’aprile del 2005, 64 religiosi sunniti hanno firmato una dichiarazione chiedendo agli iracheni di arruolarsi, di partecipare alla creazione dell’esercito. Ma la nuova situazione, venutasi a creare con il Risveglio delle tribù sunnite ad al Anbar – che si sono opposte e hanno combattuto i terroristi di al Qaida – e con la nascita di comitati armati di cittadini contro le milizie, ha dato nuova legittimità anche all’esercito. I soldati rifiutavano gli ordini, non volevano entrare armati in un luogo di preghiera. Ad Amariyah, nel maggio del 2007, è lo stesso imam della moschea al Tikriti, sheikh Walid, a chiedere agli americani di non intervenire mentre i cittadini, kalashnikov alla mano e Rpg in spalla, attaccano al Qaida. Il maggiore americano di pattuglia il giorno degli scontri ricorda i morti e i feriti distesi sul pavimento della moschea. Oggi ai check point di alcune zone di Baghdad considerate “bonificate” i militari iracheni armati di vecchi fucili dell’esercito di Saddam ma anche di nuovi M16 di produzione americana, in uniforme color sabbia, mantengono la sicurezza assieme ai cittadini o ex militanti contro cui probabilmente sparavano fino a pochi mesi fa. Cinque mesi fa, per essere più precisi, puntualizza il sergente Mithak, un ragazzino sui vent’anni, smilzo, che ricorda bene quando i cittadini di Amariyah erano venuti dal “gheish”, dall’esercito, a chiedere collaborazione contro al Qaida. L’ex quartiere generale delle forze irachene è a poca distanza dal posto di blocco dove si trova il sergente: i vetri alle finestre sono un ricordo, i muri sono anneriti, probabilmente dalle fiamme e dal fumo di un’esplosione, i balconi sono crivellati di colpi. Mithak crede di essere abbastanza preparato da poter fare a meno del sostegno americano, nel suo quartiere. “Pronti a prendere il comando” Il colonnello Falih, i grandi baffi alla Saddam Hussein come la maggior parte degli alti ufficiali, è sicuro: “L’esercito iracheno è pronto a prendere il comando, anche se ci manca l’equipaggiamento. Se gli Stati Uniti se ne vanno, tutti gli stati vicini riforniranno le milizie di armi e tecnologie. Dobbiamo averle anche noi. Le forze della Coalizione devono rientrare nelle loro basi e rimanerci due anni prima di un ritiro completo, per addestramento e appoggio”. Il general maggiore americano Joseph F. Fil, in una videoconferenza con i giornalisti al Pentagono, ha detto che le forze della sicurezza irachena “sono migliorate in maniera significativa”, ma che polizia e truppe hanno ancora bisogno del sostegno degli americani. “E’ chiaro che ritirarsi troppo in fretta, prima che gli iracheni siano veramente capaci di prendere la responsabilità del territorio in maniera indipendente, sarebbe un rischio”. Nonostante i numeri positivi pubblicati dalla Coalizione, infatti, le violenze rimangono. Nella zona di Diyala, dove al Qaida si è asserragliata dopo essere stata spinta fuori da Baghdad e dalla provincia di al Anbar, il Risveglio si è scontrato con l’organizzazione terroristica domenica: 40 persone sono morte; ad al Anbar sono rimasti uccisi quattro jihadisti; sono 15 le vittime dell’ennesima autobomba a Baghdad. Ali Dabbagh, portavoce del governo, ha detto in un’intervista alla tv al Iraqiya che le truppe americane dovrebbero rimanere altri dieci anni, ma che l’Iraq non accetterà basi americane in permanenza. “Per altri dieci anni il nostro esercito non sarà in grado di difendere l’Iraq”.
Una rassegna di notizie dal fronte della guerra al terrorismo e al fondamentalismo islamico, di Giulio Meotti da pagina 2:
Al Qaida come Pol Pot. Sta assumendo dimensioni spaventose la strage dei professori e degli accademici in Iraq. Due giorni fa i miliziani binladenisti hanno assassinato Ali al Naimi, un famoso intellettuale della Baghdad University. Sono più di 300 quelli uccisi dai gruppi salafiti dal 2003 a oggi. Due giorni fa i guerriglieri di al Qaida hanno preso d’assalto una scuola pubblica uccidendo il preside e uno degli insegnanti a Diyala. Tre giorni fa è stato abbattuto Ibrahim Mohammed Ajil, direttore dell’ospedale psichiatrico al Rashad, il più importante istituto d’igiene mentale dell’Iraq. Oltre ottanta gli studiosi assassinati nella sola università principale di Baghdad. Il 30 ottobre del 2006 fu la volta del capo dell’Unione dei professori, Essam al Rawi, venne ucciso all’uscita di casa. Lo psicologo Najdat Al Salihi è stato ritrovato con un proiettile nel cranio, senza testa invece il matematico Abd al Samai Abd al Razaq. E poi lo storico Sabri Mustapha al Bayati e il filologo Kamal al Jarrah. “L’uccisione degli intellettuali e degli scienziati iracheni ha uno scopo molto chiaro – dicono dall’Iraqi Committee for Sciences and Intellectuals – svuotare la terra di Babilonia, la terra di tutte le civiltà da ottomila anni…”. Era stato accusato di idolatria il grande calligrafo Khalil al Zahawi, il principale cultore dell’arte della scrittura in caratteri arabi classici. Per studiare con questo luminare gli studenti arrivavano da tutto il medio oriente. Le vignette su Maometto sono state acquisite da un museo danese che le ha volu- LA RISPOSTA DEI MULLAH IRANIANI ALLA MORA TORIA SULLA PENA DI MOR TE te salvare così dall’oblio, dopo che in Olanda un altro museo nazionale ha appena deciso di non esporre le fotografie dell’artista iraniana Sooreh Hera, perseguitata e condannata a morte dai fondamentalisti islamici. L’esibizione mostrerà centinaia di documenti, lettere e fotografie sulla vicenda delle vignette che infiammò Europa e medio oriente nel 2006. Secondo Ervin Nielsen, direttore del Danmarks Mediemuseum, si vuole “proteggere la libertà d’espressione”. Nel frattempo sono stati condannati i due terroristi libanesi che un anno fa progettarono attentati contro la linea ferroviaria in Germania. Nel dibattimento i due salafiti hanno ammesso di aver agito per “vendicare le vignette”. Per la prima volta un miliziano interno alla cupola di al Qaida racconta come funziona la “fabbrica della morte” in Iraq. “Il defunto leader di al Qaida, Abu Musab al Zarqawi, ha respinto un’offerta di collaborazione avanzata dai servizi segreti siriani”. E’ quanto rivela Shahada Jawhar, ex capo degli addestratori di al Qaida in Iraq, in un’intervista ad al Arabiya. “I servizi segreti hanno inviato un loro mediatore che ha incontrato Zarqawi nel 2006 prospettandogli la possibilità di ottenere qualsiasi genere di aiuto, ma ha respinto l’offerta perché non voleva combattere contro gli americani per un interesse politico della Siria. Il capo della nostra commissione sharaitica aveva emanato una fatwa che prevedeva la morte per chiunque avesse aiutato gli americani”. Jawhar ricorda il fiume di aspiranti martiri provenienti dall’Europa. "Avevamo un fratello americano, un belga, un francese francese, erano colti, uno aveva un master in economia e ha calcolato le perdite americane dell’11 settembre”. L’obiettivo di al Qaida è “il revival del califfato, la liberazione della Palestina”, mentre alla domanda se consideri legittimo uccidere gli infedeli, Jawhar risponde: “Certo, dov’è il problema? Voglio terrorizzare i nemici di Allah”. Racconta che Zarqawi rifiutò la lauta offerta in denaro per salvare l’ambasciatore egiziano, Ihab al Sharif. “Il giudizio di Allah è stato eseguito nei confronti dell’ambasciatore degli infedeli”. La moratoria universale sulla pena di morte approvata martedì dalle Nazioni Unite non ha lasciato indifferente il boia iraniano delle carceri di Evin. Ieri, a pochi chilometri dall’università islamica di Shahid Beheshti, sono state impiccate quattro persone. L’esecuzione all’alba: i quattro erano accusati di aver rapito e stuprato una quindicina di adolescenti. A dire la verità erano nove le impiccagioni in programma: quattro sono state sospese, mentre una è stata annullata perché il condannato, un ragazzo di diciannove anni colpevole di un omicidio commesso all’età di sedici, ha ottenuto il perdono dei genitori della vittima. L’ultimo venerdì del mese del calendario iraniano è “il giorno delle esecuzioni” nella prigione di Evin. Il columnist canadese Mark Steyn, autore del best seller “America alone”, sarà portato in tribunale dalle organizzazioni islamiche canadesi per rispondere dell’accusa di islamofobia, come è già successo a Oriana Fallaci e al francese Michel Houellebecq. Quest’ultimo aveva dichiarato che “la lettura del Corano lascia prostrati... prostrati”. Vinse una causa eclatante mossa dalle organizzazioni musulmane di Parigi. Il testo incriminato di Steyn, “The future belongs to islam”, era apparso un anno fa sulla prestigiosa rivista canadese Maclean’s, per la quale scriveva anche Mordechai Richler. Steyn vi spiegava il declino demografico dell’Europa: “La grande famiglia italiana, con il papà che fa il vino e la mamma che prepara la pasta per una grande tavolata di nonni, zie e nipoti, scomparirà come i dinosauri. Stiamo assistendo alla fine della democrazia del welfare”. Steyn ha risposto così alle accuse: “E’ islamofobico citare i musulmani?”. E’ stato inaugurato a Union City, in California, il primo memoriale dedicato all’aereo 93, che si ribellò agli attentatori suicidi dell’11 settembre. L’America rende onore all’unica buona notizia di quel giorno, l’eroica rivolta dei suoi Todd Beamer. E’ stato costruito da privati cittadini e l’idea è venuta a un marine in pensione, Michael Emerson, che nel 2002 entrò in contatto con i parenti dei morti. Un precedente memoriale era stato eretto dal prete cattolico Al Mascherino, che rilevò una chiesa luterana in rovina vicino al luogo della sciagura, in Pennsylvania, per rendere onore ai “martiri dell’11 settembre”. Due delle vedove delle vittime hanno simbolicamente percorso con il nuovo volo la tratta che i loro rispettivi mariti avrebbero dovuto percorrere quel giorno.
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